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1. Stranger in a Strange Land

  "Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae" (Seneca)
Ogni giorno moriamo; ogni giorno ci viene tolta una parte della vita.
  

AIDEN

La Brooklyn Tech si stagliava davanti a noi in tutta la sua merdosa imponenza degna della fama che la precedeva. Un altro nuovo insulso anno scolastico stava per avere inizio e la folla immensa e anche un po' scazzata di gente fluiva davanti ai miei occhi come in uno dei più scontati dramma adolescenziali che davano in tv.
Shannon e James continuavano a decantare le doti della mia Mustang nuova di zecca: un gioiellino della meccanica che mi era costato l'esatto ammontare di un'intera stagione di runway in giro per l'Europa.
- Quand'è che me la farai guidare? Avevi detto che avrei guidato io al rientro – Shannon stava facendo letteralmente le fusa con il chiaro intento di smuovere qualcosa in me, mi guardò con i suoi grandi occhi neri e si portò indietro un ciuffo di capelli scuri sfuggito dal resto. Aveva colorato i capelli di nero perché credeva mi piacessero di più. Un'attenzione che avevo trovato patetica.
- Se volessi portarla a demolire la darei a James. Quanto meno le corse in auto fanno guadagnare parecchio –
Il mio amico rise mentre Shannon metteva il broncio – Ah! Come se i soldi fossero un problema per te adesso che fai sfilate in giro per il mondo! Forse inizierai anche a reputarci troppo sfigati per poter uscire con te –
- Quello l'ho sempre pensato, non sarebbe una nuova consapevolezza – Avevo la battuta pronta e questo probabilmente la faceva impazzire perfino più del mio aspetto tutt'altro che trascurabile. Quello e l'aver flirtato con lei di tanto in tanto ... più per gioco che per altro, ma questo doveva esserle sfuggito, pensai.
- Ehi, guardate chi è arrivato! Allora è vero quello che si vociferava – James attirò la nostra attenzione e distolse Shannon dal ribattere con qualcosa di pungente e altrettanto inutile – adesso è ossigenato. Forse spera di ingannarci tutti e camuffarsi. – aveva ripreso dopo, puntando il dito contro il finestrino, in direzione di un gruppetto di gente che si avviava lentamente verso l'entrata.
- Cazzo! Avevano ragione, quello è Eickam! Pensavo che i suoi avrebbero scelto una scuola privata come minimo – Shannon era eccitata come non mai, si era sporta talmente oltre il finestrino che rischiava di volare fuori.
- Chi? Chi diavolo è Eickam? –
La mia domanda suscitò lo stupore nei miei amici.
- Ah già! Adesso sei così figo da esserti elevato sopra le futili vicende mondane della scuola. Aiden il modello, troppo impegnato con le sue sfilate per interessarsi ai rumors di Brooklyn e dintorni! –
- Vai a quel paese e vedi di alzare quel tuo culo grasso dalla mia auto. Dobbiamo scendere –
Shannon perse subito la voglia di ribattere. La mia frase infelice le sarebbe costata ore intere di autocommiserazione e dubbi sulla sua forma fisica, ma quello era davvero l'ultimo dei miei pensieri. Se c'era una cosa in cui eccellevo era quella di gettare benzina sul fuoco, mentre James, invece, era sempre stato bravo a smorzare la tensione, proprio in quel momento passò un braccio intorno alle nostre spalle e abbassò la voce.
- Ma sì che lo conosci. I giornali hanno parlato per parecchio tempo del caso Eickam. Suo padre è un deputato, ecco spiegato perché tanto scandalo, un pezzo grosso che a quanto pare non è riuscito a mettere in riga i suoi figli. Cos'è che ha fatto, Shan? –
Lei tornò a parlare, seppure con aria piccata – Ha mandato in coma un tipo ad una festa un paio di anni fa. Pare che fosse anche in possesso di droga quando è stato beccato dalla polizia, tra l'altro c'era anche suo fratello ... un altro tossico con la pessima fama. Il ragazzo è andato a sbattere contro qualcosa e ha perso i sensi, hanno dovuto operarlo con urgenza e sottoporlo ad una lunga serie di interventi. E' il fratello minore di Max Polanskij – Un altro tipo poco raccomandabile. Tra tossici ci si intende, pensai.
- Se io avessi fatto una cosa del genere con ogni probabilità avrebbero gettato le chiavi, ma si sa che la vita è più semplice per i figli dei deputati. Per quanto se ne sappia, Eickam ha passato gli ultimi anni al Crossroads. – Rincarò la dose James, scuotendo la testa in un gesto indignato.
Il Crossroads era riformatorio minorile con una pessima fama. Adesso iniziavo a ricordare qualcosa, i giornalisti avevano banchettato per mesi su quella notizia succosa, distruggendo perfino la campagna elettorale di Eickam senior. Mi voltai un attimo indietro, a lanciare un'occhiata veloce e poco invasiva verso quella nuova ed interessante aggiunta alla merdosa Tech: Capelli di un biondo ossigenato e occhiali neri su un incarnato pallido da paura, accentuato ulteriormente dai capelli chiarissimi. Era alto oltre gli standard e piuttosto magro, eccetto per le spalle larghe e muscolose. Non sembrava vedere nessuno, camminava lentamente ma con decisione verso l'entrata. Soltanto in quel momento mi resi conto che gli occhi dell'intero Istituto erano puntati sul tipo nuovo e fissavano com'erano soliti fare: Senza ritegno alcuno.
- Com'è che si chiama? –
Perché mi importava?
- Chi? L'avanzo di galera? – Shannon rise, aveva ritrovato il suo solito brio – Levin. Un tipo intrigante, no? –
- Intrigante perché è finito in galera? – James fece spallucce – dovresti rivedere il tuo concetto di intrigante. Per quanto mi riguarda gli concedo massimo un paio di mesi, si sa come sono fatti i tossici ... entra ed esci dal carcere, vecchie amicizie pericolose che non ti mollano. Farà una fine del cazzo e anche in breve tempo. Ah, senza contare che ha un bel conto in sospeso con Polanskij. Gli farà il culo presto o tardi. Scommettiamo?
- Quanto vuoi scommettere? Uh, quanto mi piacerebbe vedere qualche rissa in più qui in giro ... – Shannon era ancora eccitata, stava ridendo di nuovo.
Avevo smesso di ascoltare, ma le chiacchiere sul nuovo arrivato andarono avanti per tutto il giorno. Era così che funzionava alla Tech, come in qualsiasi altra scuola superiore del mondo: i deboli o i diversi erano destinati ad una vita di merda, a meno che non avessero prima imparato a difendersi dal mondo esterno. Eickam non sembrava aver bisogno di niente del genere, nessuno aveva osato ancora avvicinarsi a lui.

- Dov'è finito Keno? Che cazzo di lezioni segue? Non l'ho beccato per tutta la mattina –
James si era guardato intorno in cerca del nostro amico. La classe di Letteratura Inglese si riempiva in fretta, ma non era mai stato un problema per noi tenere il posto ai nostri amici. A differenza dei più deboli, i più forti venivano temuti e rispettati allo stesso tempo e se così non fosse stato le conseguenze sarebbero state tutt'altro che felici per chiunque avesse osato mettere in dubbio la leadership del branco.
Shannon aveva lo sguardo spento ed annoiato, aveva magicamente saltato il pranzo quel giorno. Venni pervaso da una sorta di euforia malvagia nel constatare che certe persone erano davvero facilmente manipolabili.
- Quello stronzetto. Fa il compleanno e neanche si fa vedere. A proposito, quand'è che rientra Andrew? Stasera verrà alla festa di Keno o ci passi a prendere tu? –
Andrew. Avrei voluto dimenticarlo per almeno un paio di ore, ma chi poteva mai dimenticare Andrew Wolfhart?
- Non tornerà prima della prossima settimana, è ancora in missione – Dissi senza voler aggiungere altro. James capì l'antifona e decise di tacere, in fin dei conti tutti i ragazzi del gruppo sapevano quanto fosse poco saggio parlare troppo di Andrew. Il più delle volte mi metteva soltanto di pessimo umore ed io potevo diventare davvero molto cattivo in quel caso. Shannon si incupiva visibilmente ogni volta che il nome di Andrew saltava fuori, concederle una notte con me aveva complicato le cose in un modo che non mi aspettavo. O forse sì, forse rovinare rapporti e persone era tutto ciò che desideravo.
La classe si animò in fretta e con grande sorpresa di tutti tra gli ultimi ad arrivare ci fu anche Levin Eickam. In un primo momento l'atmosfera fu pervasa da uno strano silenzio prolungato, gli occhi di tutti erano puntati sulla sua figura che si avvicinava ai banchi, apparentemente incurante delle conseguenze del suo passaggio. Era vicino adesso e quella vicinanza mi permise di vederlo meglio. Aveva tolto gli occhiali e i suoi occhi, che ad una prima occhiata mi erano sembrati scuri, erano, invece, molto chiari ed allungati. Erano grigi come il metallo ed altrettanto freddi, perfetti su quel viso pallido ed affilato, dai tratti delicati ma non troppo. Labbra piccole ma ben pronunciate, zigomi scolpiti e guance scarne. Aveva un cappotto nero, lungo fino alle ginocchia che tolse soltanto quando raggiunse il fondo della stanza, a pochi metri da me. Qualcosa si mosse all'interno del mio stomaco quando notai i suoi muscoli guizzare oltre il tessuto della t-shirt nera che portava sotto. Si abbassò per posare la sua valigia scura a terra e quel semplice gesto mi permise di notare il suo collo pallido, ossuto e piuttosto lungo, poi le spalle larghe e le braccia adesso scoperte e affusolate, con un accenno di muscoli. Era davvero alto.
A fatica distolsi la mia attenzione dal suo corpo; James doveva aver seguito il mio sguardo, perché lo vidi nascondere un sorrisetto
- Non ti facevo tipo da avanzo di galera. Andrew è così diverso, ma suppongo che alla fine non faccia male variare la propria dieta di tanto in tanto – Constatò a voce davvero bassa, ma non così bassa da impedire a Shannon di sentire
- Mi piacciono le cose belle. Ti sembra forse un crimine? – Ribattei, poi decisi di tirare fuori il libro e qualche penna, i miei occhi scivolavano più o meno ogni dieci secondi verso il tipo nuovo che, invece, portava ancora gli auricolari e sembrava isolato dal resto della classe.
- Prova ad invitarlo alla festa di Keno se vuoi provarci. – Suggerì James, ancora ammiccante
- Chi è che vorrebbe provarci con chi approfittando della mia festa? –
L'arrivo di Keno ci sorprese
- Abbassa questa cazzo di voce – Gli intimai in fretta, ma era tutto sotto controllo. Sarebbe perfino potuta scoppiare una bomba, ad Eickam non sarebbe importato un cazzo.
Osservai Keno prendere posto tra me e James, anche lui stava lanciando un'occhiata sommaria al nuovo arrivato, ma non aggiunse nulla. I ragazzi andarono a fargli gli auguri, mentre io decisi di non muovermi, memore della litigata della sera precedente. Il mio rapporto con Keno era fatto di un'eccessiva schiettezza per poter andare avanti senza problemi ed io, d'altronde, non ero mai stato propenso a lasciarmi giudicare con troppa leggerezza.
La lezione trascorse in un brusio perenne, ben presto la mia attenzione si diresse altrove, pensai ad Andrew. Non lo vedevo dal sei luglio. Due mesi interi trascorsi in due continenti diversi e con contatti sporadici e sempre frettolosi. Ero stato io a scegliermi quella strada, allora perché continuavo a lamentarmi per ciò che mi stava riservando?
Perché lui ti tormenta.
No, non era tutta colpa sua. Potevo uscirne in qualsiasi momento, mi dicevo, ma non era così. Non avevo mai avuto intenzione di liberarmi di lui.
Quando la campana suonò il brusio divenne rumore a tutti gli effetti. Nessuno voleva rimanere in quella classe neanche un attimo più del necessario; mi guardai intorno e notai che Eickam era già sparito. Fissarlo stava diventando il mio passatempo preferito. E pensare che mi ero sempre creduto diverso dagli altri.
- Quindi? Vuoi farmi capire chi c'è a questa festa? Spero tu abbia invitato qualche tipo carino per me – Shannon parlava con Keno ad un volume talmente alto da non lasciare dubbi sui suoi intenti. Immaginai che mi stesse perfino guardando in quel momento, forse era a caccia di qualche reazione straordinaria, ma tutto ciò che avrebbe ottenuto sarebbe stata soltanto noncuranza.
Avevo voglia di isolarmi un po', magari farmi una sigaretta in cortile prima delle ultime lezioni pomeridiane. Salutai un paio di conoscenti lungo il corridoio, poi distanziai gli altri ragazzi ed uscì dalla scuola, ignorando le proteste di James. Il cielo era plumbeo e minacciava di piovere, a nessuno di noi però importava davvero. Non avevo più voglia di fermarmi a parlare di stronzate con chi mi conosceva, erano tutti troppo curiosi di sapere quello che facevo e quanto avevo guadagnato sfilando, così feci il giro dell'edificio e finalmente rimasi da solo.  


LEVIN
Volevo andare via. Da tutto il giorno combattevo contro l'istinto di voltarmi e lasciare quel posto per sempre. Eppure non lo avevo fatto, ero rimasto lì come una bestia rara confinata in uno zoo troppo piccolo e affollato, ecco come mi sentivo in quel momento. Nessuno, all'infuori dei professori, aveva osato parlarmi e quella era stata l'unica nota positiva della giornata ... tutto il resto faceva semplicemente troppo schifo.
Stavo per accendere una sigaretta quando una lunga ombra si stagliò sull'asfalto bagnato della Tech. Imprecai a denti stretti, a quanto pare qualcuno era riuscito ad interrompere perfino quel minuscolo istante di pace che mi ero faticosamente ritagliato.
Mi voltai di scatto verso l'intruso e soltanto ad una seconda occhiata capii che il suo viso non mi era del tutto nuovo. Avevamo avuto Inglese insieme un paio di minuti prima. Non era un tipo che passava inosservato, ma neanche il suo bell'aspetto riuscii a far andar via quel senso di fastidio che mi stava attanagliando il petto.
- Non vendo un cazzo, se è quello che vuoi chiedermi. Non spaccio. Va a dirlo in giro, così la smettiamo una buona volta – Dissi prima ancora che quello avesse potuto aprire bocca.
- Cosa? No. Vengo in pace, volevo solo un accendino –
Avevo fatto una figura di merda, ma non mi scusai, né mi importò davvero. Tirai fuori il mio zippo e allungai la mano verso la sua sigaretta, adesso tra le labbra dello sconosciuto. Era poco più basso di me, comunque molto alto per gli standard comuni. La mia occhiata venne ricambiata immediatamente dalla sua: occhi brillanti e maliziosi, mi sembrò, di un blu simile all'acquamarina e contornati da sopracciglia scure, dello stesso castano dei capelli. Il suo viso era magro, ma la parte forse più caratteristica era il naso all'insù e le labbra allungate con quello inferiore che si piegava appena in giù, a conferire un'aria un po' imbronciata.
- Grazie – Disse lui, non smetteva ancora di osservarmi e soltanto a quel punto capii che non era intenzionato ad andar via.
Mi sentivo a disagio e non riuscivo a capacitarmi del perché, così alla fine mi voltai di nuovo verso l'estraneo – Senti, credevo che anche tu volessi chiedermi di venderti qualcosa. L'unico ragazzo che ha osato parlarmi pensava che avessi della roba da spacciare, quindi non sono molto propenso alle chiacchiere. E' stata una giornata lunga –
Lo sconosciuto aveva aperto le labbra in un sorrisino gentile – Oh, so bene come sono fatti i miei compagni. Sei la novità del momento, Eickam. Un rarissimo leone bianco che tutti vorrebbero vedere da più vicino, ma che allo stesso tempo incute un certo timore. Passerà, vedrai ... sono ancora indecisi se provare ad avvicinarti o tenerti alla larga per sempre. Stanno soltanto valutando il tuo grado di pericolosità –
- A chi importa di quello che pensano – Non a me, non dopo quello che avevo passato negli ultimi due anni della mia vita – ma quella metafora del leone bianco ... –
- Io ti vedo così – Il ragazzo mi lanciò un'altra occhiata perforante, un gesto troppo intimo da parte di quello che era soltanto uno sconosciuto. Però non mi ritrassi, anch'io iniziai a studiarlo con più attenzione.
- Anche la mia fama non è delle migliori qui alla Tech, quindi sappi che in parte ti capisco. Se dovessi avere bisogno di aiuto io e il mio gruppo possiamo ... -
- Non ho bisogno di aiuto – Chiarii, interrompendolo in fretta – so cavarmela. Grazie –
Avevo aggiunto quel "grazie" dopo un paio di secondi di silenzio, per rendere la mia risposta un po' meno rude di quanto fosse stata realmente. Il ragazzo si lasciò andare ad una risata bassa e scosse la testa.
- Comunque io sono Aiden Berg. Segnati il mio nome, anche se hai detto di non aver bisogno di nessuno –
- Non ho detto questo, non sei stato attento. Ho detto che non ho bisogno dell'aiuto di nessuno – Stavolta fu il mio turno di studiarlo un po', lo osservai mordersi le labbra e sorridere ancora. Si avvicinò a me e per un attimo quel gesto mi lasciò confuso, ma poi lo vidi passare oltre e spegnere la sigaretta nel posacenere esterno, proprio alle mie spalle.
- Te lo dico, anche se so già che sarà un due di picche. C'è una festa stasera, uno dei miei migliori amici compie gli anni. Niente di serio o formale, è solo un festino con tanta roba da bere –
Non c'era stata nessuna domanda diretta, ma quel tipo rimase in evidente attesa di una risposta. Io ad una festa ... ero esausto soltanto all'idea di dover passare un'altra ora di lezione insieme a quella gente, figuriamoci un'intera serata.
- Non sono dell'umore, ma grazie comunque. -
- Ci ho provato – Aiden fece spallucce e sospirò – sapevo che avresti detto di no, vedi? Non ti conosco ancora eppure ti conosco già! Non voglio insistere, quindi ti lascio soltanto il mio numero nel caso cambiassi idea. Chiamami se ti va.
Era un modo per rimorchiarmi quello? Non riuscii a stabilirlo lì su due piedi. Come promesso non aveva insistito, tirò fuori il cellulare e aspettò che anch'io facessi lo stesso. Non ero così stronzo da negargli il mio numero, ma allo stesso tempo trovavo piuttosto remota la possibilità di tenermi in contatto con quello sconosciuto.
- Cerca di sopravvivere, Eickam. Sono soltanto degli idioti –
E tu cosa sei? Non glielo chiesi, feci un cenno col capo e lo guardai allontanarsi dal mio rifugio solitario. Ero diventato cinico ed arido o forse lo era sempre stato, di certo non avevo intenzione di stringere dei pseudo legami a scuola. Avevo già perso un anno e mezzo, non mi sentivo per niente a posto con me stesso, non sarei stato lì se avessi potuto scegliere, ma ancora una volta Kai era stato messo al primo posto nella nostra classifica delle priorità, e in fin dei conti era giusto così.
Il resto dell'ora passò in fretta, quando lasciai la palestra ero sfinito. Avevo bisogno di prendere qualcosa, l'effetto della mia White Lady stava iniziando a scemare, eppure dovevo stringere i denti per un altro paio di ore. Una ogni tre giorni, fino ad abbassare gradualmente il dosaggio, continuavo a ripetermi.
Camminavo in fretta tra la folla di studenti che non vedeva l'ora di lasciare la scuola, evitavo le loro occhiate, perfino il sorrisetto del tipo che si era presentato un po' di tempo prima. Lo guardai di soppiatto però, lo vidi salire su una bella Mustang blu elettrico in compagnia di un paio di amici, poi partì a tutto gas, facendo fischiare le gomme dell'auto.
Che idiota, pensai. Distrarmi con quelle stronzate mi teneva impegnato quel tanto che bastava per evitare le telefonate di mia madre. Che cosa diavolo avrei potuto dirle su Kai? Ero stanco di tentare in un'impresa che non avrebbe mai portato a niente. Alla fine decisi di fare un tentativo e passare nel solito parco in cui mio fratello e i suoi amici fattoni andavano a riunirsi ogni dannato giorno della loro vita.
Infatti anche quella volta lo trovai lì, stava tenendo banco tra i suoi amici nella zona del parco più riparata e lontana della strada. Non fu neanche necessario che mi avvicinassi, i due tipi che facevano da palo lo avvertirono subito.
Kai mi salutò con un cenno della mano, poi mi venne incontro e si gettò letteralmente contro di me in un abbraccio che a momenti ci fece finire a terra.
- Ehi big bro! Sei venuto a trovare il tuo fratellino, eh? Vieni! Ti offro qualcosa! – Era su di giri come la maggior parte delle volte. Dio solo sapeva che cosa aveva fumato quel giorno, rimasi immobile, con i piedi piantati sul terreno sabbioso nonostante Kai stesse provando a spingermi verso il gruppo.
- Kai, dacci un taglio. Quando pensi di tornare a casa? –
I suoi occhi si assottigliarono in fretta, anche la sua espressione divertita lasciò il posto ad un sorriso freddo – Oh, ecco il vero motivo per cui ti sei degnato di venire a trovarmi. Mamma mi vuole a casa! – Si lasciò andare ad una risata gelida – poi che altro dovrei fare per compiacere mammina e papino? Frequentare quella scuola privata per fighetti? Rigare dritto? Indossare delle fottute polo e iscrivermi a qualche torneo di golf per checche? –
- Kai ... - Ero stanco ed eravamo alle solite – torna soltanto a casa. Saranno più tranquilli e smetteranno di stressare entrambi. –
- Perché dovrei? Non fanno altro che giudicarmi! Il modo in cui mi guardano ... come se avessero allevato la delusione più grossa della loro vita invece di un figlio! –
Perché lo eravamo stati entrambi, pensai. Quante volte avevo fallito nel tentativo di mettere una pezza ai danni che Kai provocava? E cos'ero diventato adesso? Ero davvero migliore di lui? No, quel dannato crampo allo stomaco mi ricordò che anch'io ero caduto in basso. Troppo in basso.
- Che hai? Non l'hai presa oggi? – Mio fratello mi lanciò un'occhiata indagatrice, anche il suo sguardo si fece lentamente meno duro – devi prenderla, Lev. Sai anche tu che succede quando non lo fai ... -
- Lascia stare me, Kai. Vediamo di risolvere il tuo problema prima. Torna a casa ... almeno per cena. Fatti vedere anche da loro, saranno più tranquilli –
Lo vidi fare spallucce. Voleva fare il duro, ma non lo era mai stato, non fino in fondo. Lui era stato adottato, io no ... ma questo non cambiava le cose, vedevo molto di me nel mio dolce fratellino. Perfino il modo in cui aveva colorato i suoi capelli ricordava il mio. Il suo modo di camminare, perfino i vestiti che indossava e la passione per la musica. In qualche modo ero stato un esempio per lui. Quando avevo iniziato a fallire anche in quello?
- Eickam, datti una mossa! Tra poco dobbiamo sloggiare –
Uno dei suoi amici gridò da lontano, era chiaro che avevano parecchi affari da portare avanti prima della fine della giornata. Spaccio? Furti? Chi diavolo lo sapeva ormai.
- Arrivo, arrivo. Non rompere le palle, Daril. – Poi l'attenzione di Kai tornò su di me, sembrava sul punto di dire qualcosa di cattivo, lo vidi sbuffare – ok. Mi farò vedere se mi sganci un po' di soldi. –
- Di nuovo? Che diavolo hai fatto con i mille dollari della settimana scorsa?
Un tempo mi sarei anche incazzato per quella richiesta e per quello che c'era dietro, ma non più. Adesso ero stanco e desideroso soltanto di stipulare un trattato di pace, per quanto effimero sarebbe stato.
- Senti, ho fatto un po' di acquisti di recente, roba che sicuramente frutterà in futuro, ma ora come ora sono un po' a terra, fratello. Si tratta soltanto di un prestito, te li restituisco appena mi pagano! –
Scossi la testa, che senso aveva trovare ancora un senso a quella situazione? Non ne aveva. Ecco tutto. Mio fratello era un criminale e un tossico. Punto.
- Torna a casa e ti darò qualcosa. –
- Dammeli adesso, big bro. – Quel sorriso furbo e canzonatorio, di chi crede di poter divorare il mondo, ma in realtà sta finendo divorato dal mondo.
- Non se ne parla. Non li ho qui, ad ogni modo. Torna a casa, Kai. Cena con loro e ti darò quei soldi. Ma è l'ultima volta, ok? –
Parole vuote, lo sapevamo entrambi. Doveva sempre essere l'ultima volta, però non lo era mai, né lo sarebbe mai stata. Kai era un pozzo senza fondo, sperperava il denaro senza tregua, organizzando festini, comprando droghe e alcolici, pagando le sue donne o semplicemente aiutando qualche amico in debito con i pezzi grossi del crimine. Fatto sta che presto o tardi avrebbe fatto una brutta fine.
- E va bene, fratellone. Mi hai convinto. Passerò dai vecchi a rallegrargli un po' la serata! – Poi mi abbracciò forte di nuovo – e che non si dica in giro che non sono un buon figlio! –
- Di troia – Aggiunsi. Un attimo di silenzio durante il quale ci fissammo attentamente, poi scoppiammo a ridere. Gli passai una mano tra i capelli lisci e scompigliati in un gesto affettuoso, che mi ricordava più la nostra infanzia. Non era stata così male. Niente problemi di droga, niente litigi a casa: solo armonia. Quand'è che le cose avevano smesso di funzionare? Cos'era accaduto alla nostra famiglia per renderci i mostri che eravamo? E quand'è che Kai e io avevamo smesso di parlare e trattarci come due fratelli?
Doveva essere stata la prigione a cambiare le cose, anch'io mi sentivo terribilmente lontano dal resto del mondo. Freddo e distante. Irraggiungibile.
Andai via da lì con il solito peso allo stomaco che non era del tutto imputabile alla mia astinenza da cocaina. Avrei dato dei soldi a Kai che avrebbe speso in droghe ed alcolici, in cambio lui sarebbe tornato a casa per un po', giusto il tempo per non far stare troppo male i miei. Che senso aveva? I miei soldi si trasformavano nel suo veleno e forse, un giorno, lo avrebbero perfino ucciso o peggio. Non ci sarei sempre stato io a salvare la situazione. O forse sì? Era il mio destino quello? Prendere tutto quello che veniva sparato contro mio fratello come se fossi stato un giubbotto antiproiettile?
Mi vennero i brividi. Non avrei più potuto sostenere il carcere, neanche per tenere fuori Kai. La morte sarebbe stata preferibile, ma mai più avrei messo piede lì dentro, quella era l'unica certezza assoluta della mia intera vita.
Ero ancora sovrappensiero quando mi resi conto che ero già sui gradini di casa. Vivevamo in una bella villa a schiera, simile a quella di molti altri vicini in uno dei più eleganti quartieri di Brooklyn: Il Brooklyn Heights. Mattoncini marroni e strade grandi, ma pulite. Cosa diavolo mancava a noi Eickam? Nulla. Solo la sanità mentale, a quanto sembrava.
- Buongiorno Levin. Vuoi qualcosa da mangiare prima di stasera? Tacos? Dovrebbe esserci della pizza di ieri se ti va – Greta mi salutò con il suo solito sorriso bonario. Era tutta indaffarata ad occuparsi della cena mentre il nostro robottino aspirapolvere girava per l'enorme salotto, per poco non lo pestai.
- No, aspetterò. – Non avevo fame, volevo soltanto chiudermi in stanza e dormire. Greta non mi stava mai ad ascoltare, mi ritrovai un biscotto davanti alle labbra ed il suo viso agguerrito a due centimetri dal mio – va bene, va bene. Lo mangio. –
- Così si fa! – Disse con aria soddisfatta. Greta era come una seconda madre per noi, era stata la nostra governante fin da quando avevamo memoria, poi anche la nostra baby-sitter. Era una donna di mezza età, sempre piuttosto sorridente e allegra. L'opposto di quello che eravamo noi da un po' di tempo a quella parte.
- Levin? Sei rientrato? –
La voce bassa e funerea di mia madre mi raggiunse proprio quando stavo per andarmene nella pace della mia stanza. Tornai indietro, imprecando tra me e me, per poi scendere giù, nella camera da letto dei miei genitori.
Anna Eickam era lì. Stava cercando di darsi un tono, ma le sue mani tremavano visibilmente, forse per l'effetto della cura che stava seguendo. Era molto magra, il fantasma della bella donna che era stata un tempo e che spesso mi capitava di rivedere nelle foto di infanzia. Eravamo stati noi a ridurla in quello stato. Io, Kai e mio padre. Ma trovò la forza di sorridere comunque quando entrai in stanza.
- Allora? Buone nuove? –
Lo chiedeva sempre, non perdeva quasi mai la speranza.
- Sì. Stasera verrà. – Dissi con un nuovo peso addosso. Quanto mi era costato condurre Kai a casa?
Mia madre si lasciò andare ad un sospiro di sollievo, poi mi guardò con aria fiera
- Tu riesci sempre a capirlo, vero? Oh, com'è stato difficile senza di te, Levin. Ma adesso le cose andranno meglio. Devono andare meglio. Lui ti vuole bene e ti rispetta ... ti ascolterà –
Cercava sempre di farsi coraggio lei, forse, invece, si illudeva e basta. Era più facile vivere in una bugia che nel dramma che erano le nostre vite. Alla fine abbozzai un sorriso e la lasciai lì, ancora intenta a truccarsi.  


CALLUM

Spostai gli occhi al cielo e fissai le nuvole grigie addensarsi sopra la mia testa, inspirai profondamente e portai una mano istintivamente al mio petto, poco sotto la gola. L'inizio della scuola, l'ultimo anno, poi il mondo, l'ignoto, si ha sempre paura di ciò che non si conosce eppure io non sapevo di cosa avevo paura. Non sapevo dare un nome a ciò che sentivo dentro di me per la maggior parte del tempo, forse era paura quello che sentivo o forse era consapevolezza.

Distolsi lo sguardo dal cielo, riportandolo davanti a me, fissavo gli studenti ridere tra loro ed incamminarsi mentre io non riuscivo a compiere un solo passo. Dovevano sentirsi così tremendamente invincibili in quell'involucro di gioventù e nuove occasioni, d'altronde cosa avrebbero dovuto temere nel pieno dei loro anni? La morte forse? Può darsi, quella non faceva mai sconti, eppure sussurrava alle loro orecchie un messaggio confortante: puoi morire solo una volta. Li invidiai per quello, perché loro stavano bene, erano vivi e potevano morire solo una volta. Loro non erano come me.
Sentii qualcosa interferire con il mio respiro nella gola, sapevo che nulla la stava ostruendo eppure quella sensazione era reale, tanto reale da far accelerare i battiti del mio cuore. Tossii ma non servì, stava arrivando, la morte stava arrivando.
Finalmente le mie gambe si mossero e corsi via, dovevo rifugiarmi da qualche parte lontano dagli occhi che si stavano già voltando a fissarmi, lontano dalle teste che si scuotevano con biasimo, dai giudizi, dovevo affrontare il mio demone in totale solitudine.
Finii per rinchiudermi in un magazzino, parte della stanza era riempita da attrezzi sportivi e palloni ma c'era una porzione di pavimento libero in cui andai a distendermi, anzi in cui caddi e mi rannicchiai. Slacciai i primi bottoni della camicia mentre la mia bocca si allargava alla ricerca di aria, i miei occhi stavano mischiando lo scenario davanti a me, i battiti accelerati, il petto mi faceva così male da sembrare che si potesse squarciare da un momento all'altro. Le persone erano destinate a morire una volta solo mentre io ero condannato a vivere centinaia di piccole morti ogni giorno, sentire la mia mente staccarsi dal corpo, sentire l'annientamento, assaporare la fine e poi essere ributtato in questo corpo che va in pezzi e rivivere tutto da capo. Era questo un attacco di panico, almeno era quello che sembrava a me, era una morte che non ti uccide, era una fine che ti fa temere l'inizio, era una nebbia di cui non puoi liberarti, una muta ombra che riesce a strangolarti. Niente controllo, nessuno che possa aiutarti, nessuno che possa capirti mentre affondi nelle sabbie mobili, solo qualche occhiata dubbiosa, solo sagome lontane.
- Aaah-a – un ennesimo respiro che non riuscii a prendere pienamente mentre un ronzio mi perforava le orecchie.
Finirà Callum, starai meglio fra poco, è solo un attacco di panico, non c'è nulla di cui aver paura, questo mi avevano detto tante volte, questo mi ripetevano i medici. Peccato pensavo io, peccato che starò meglio, perché finché vivo accadrà ancora, ancora, ancora, ancora.
Ma è quello che meriti bastardo.
Quello che merito, questa vita miserabile è quello che merito, un prezzo fin troppo basso per aver commesso il peccato più grande, l'abominio più spietato.
Poi, esattamente com'era venuto, quel dolore sparì, l'attacco era finito, la mia vista era tornata, il mio corpo era di nuovo mio, ma per quanto tempo? Scacciai via quella domanda e mi misi in piedi ancora un po' scosso. Inspirai profondamente e poi portai la mano alla maniglia del magazzino, era tempo di riemergere dalla tomba ancora una volta.


Nel corridoio gli studenti continuavano la loro vita placidamente e mi resi immediatamente conto di non essere il loro oggetto di derisione numero uno come al solito. Spostai gli occhi e mi resi conto di uno sconosciuto fra le facce familiari della scuola, un ragazzo nuovo. La parte caritatevole di me, o ciò che era rimasto, provò una sorta di dispiacere per lui, non mi servì una lunga occhiata per intuire che non era come gli altri, il suo sguardo lontano e distaccato era eloquente. Era un animale ferito, che aveva visto il peggio del mondo e anche quella volta la morte non era venuta a salvarlo.
Alla fine mi voltai e proseguii per la mia strada, ancora un anno e sarei andato via da quelle pareti opprimenti, da quegli sguardi penetranti, da quelle persone fastidiose.
Ma cosa stai dicendo? Credi che il diploma ti renderà libero?
Non potevo pensare anche a quello, cercai di scacciare via quell'ennesimo fardello, dovevo concentrarmi su qualcosa di migliore, dovevo vedere la speranza almeno per cinque secondi al giorno anche se non esisteva più, anche se non c'era mai stata.
- Fimmel! –
Sentire il mio cognome mi fece sobbalzare e voltare leggermente intimidito, sapevo già chi fosse, l'ennesimo sputo sulla mia esistenza, l'ennesima spina sui miei stanchi fianchi, l'ennesima pulce al mio sordo orecchio.
- Ciao Maxwell – dissi a stento, certe volte la mia voce aveva uno strano suono, quasi non fosse mia.
- Ce l'hai il saggio? –
Tirai fuori dal mio armadietto il plico di fogli e glielo porsi, lui me lo strappò di mano e un sorriso compiaciuto comparve sul suo viso.
- Ottimo lavoro, spero che mi frutti almeno una A, non ti conviene che torni a lamentarmi – disse con tono eloquente.
- Una A – ripetei – sicuro –
Quello parve soddisfatto e andò via con il petto gonfio ma la sua gioia sarebbe finita fra qualche giorno, quando il professore sarebbe tornato con i risultati. Maxwell credeva che bastasse il terrore per instillare nel prossimo reverenza ed era così sicuro che io lo temessi che non avrebbe mai letto quel saggio. Ma io non avevo paura, non di lui, non di un uomo come lui, conoscevo mostri peggiori e quel saggio sbagliato era l'ennesimo tentativo di liberarmi dal peso della mia esistenza. La speranza che Maxwell tornasse con i suoi amici per darmi una lezione ed io un giorno non mi sollevassi più da quel pavimento.
Perché non la fai finita e basta?
Fare finire questa vita? Con che diritto? Questa non era nemmeno la mia vita, non solo almeno. Non toccava a me prendere decisioni su come finirla questa esistenza di cui non avevo il controllo.


La giornata finì davvero e mi ritrovai ad uscire fuori, portai una mano alla tasca e tirai fuori una sigaretta, la portai alle labbra e, dopo averla accesa, inspirai una boccata di fumo. Mi dava uno strano senso di pace fumare, sentire il sapore acre del tabacco in bocca mi piaceva, sembrava fosse l'unico sapore che ancora il mio palato e la mia lingua riconoscessero. Osservare il fumo espandersi e sparire era qualcosa di confortante, quasi profetico, un giorno anche tu ti espanderai e sparirai.
Alla fine cominciai ad avanzare qualche passo verso la direzione di casa, fu allora che la vidi una Ford Gran Torino verde scuro parcheggiata a pochi metri dall'uscita. In quel preciso istante sentii la gola seccarsi immediatamente, il mio corpo fu cosparso da brividi e per un attimo fui sopraffatto da uno strano senso di vuoto allo stomaco, come se avessi le vertigini.
Controllati Callum, mi dissi disperatamente, controllati ti prego. Riuscii a convincere le mie gambe a muoversi e a procedere lungo la strada senza che la mia andatura sbandasse troppo. Sapevo bene cosa stava succedendo eppure il senso destabilizzante di quelle piccole azioni quotidiane non perdeva la sua portata. Non potevo vederlo ma appena superata la macchina l'autista aveva messo in moto, potevo quasi percepire l'auto seguirmi lentamente, procedere con me lungo quel tragitto familiare fino al solito incrocio. Lì il rumore stridulo delle gomme fendeva l'aria e con una manovra brusca accelerava procedendo rapidamente lungo la strada, quello stridio sembrava entrarmi nelle ossa ogni volta sempre di più.
Continua a camminare Callum, continua a camminare.
Alla fine tornai a casa, un'abitazione lussuosa, niente a che vedere rispetto all'appartamento in cui stavamo prima, quando vivevamo in California. Ma erano cambiate così tante cose da quei vecchi tempi, quei piacevoli vecchi tempi, quel passato che era una lama a doppio taglio e che aveva il potere di squarciare l'anima. Erano passati quanto, sette anni?
I miei occhi si fermarono per un lungo momento sull'auto nel vialetto, la Gran Torino era lì, segno che l'ospite con cui dividevo la mia prigionia in questo mondo era già dentro casa. Quando aprii la porta d'ingresso sapevo di non trovare nessuno, mia madre era partita qualche giorno fa senza dire esattamente dove andasse questa volta né quanto durasse l'esposizione.
Oltrepassai la cucina, non avevo voglia di cenare, non avevo mai voglia, salii direttamente al piano di sopra e superai svelto la porta davanti alle scale. Lui era lì, Alencar, non c'erano rumori ma sapevo che era lì, c'eravamo sempre solo noi prigionieri di quella tragica convivenza che aveva portato i nostri genitori ad unirsi nell'indifferenza. Lui non era il mio fratello, era figlio dell'ennesimo disastro, dell'ennesimo dramma umano e non ci eravamo mai considerati amici o qualcosa di simile ad un possibile nuovo membro di famiglia, nonostante suo padre avesse deciso di iniziare a convivere con mia madre.
Se quella stronza sposa il vecchio e tu prendi il mio stesso cognome ti apro la gola nel sonno.
Difficile ribattere ad una affermazione come questa, avevo pregato e fortunatamente mia madre non aveva alcuna intensione di risposarmi ed io rimasi un Fimmel, tanto a lei non importava, non le importava di nulla ormai, se non di una comoda sistemazione per allontanarsi da me. Forse avrei dovuto fare in modo che Alencar mi tagliasse davvero la gola.
Mi stesi sul letto e fissai il soffitto, lasciando che quel silenzio assordante mi risucchiasse, poi spostai gli occhi verso l'armadio e sospirai ancora, il mio ennesimo peccato era chiuso a chiave lì dentro. Ma una chiave non lo avrebbe placato per sempre, non sarebbe rimasto lì, anzi, pretendeva l'ennesimo pezzo di me.
Fammi a pezzi, fammi a pezzi una volta per tutte.
Poi un cigolio mi riportò al presente, sollevai la testa e vidi che la porta della mia camera si era scostata appena aprendosi, non potevo usare la chiave per chiuderla, la chiave era sparita anni fa. Potevo solo restare fermo a fissare la sagoma oscura che sbucava appena dallo spazio aperto tra la porta e lo stipite. Un occhio giallo, un occhio più simile a quello di un diavolo che di un uomo, un color ambra intenso, caldo e pieno ma allo stesso brutalmente freddo, un ciuffo rosso di capelli morbidi lo copriva appena. Alencar mi stava fissando, i nostri sguardi si incrociavano pochi secondi prima che un crampo forte scuotesse le mie viscere, poi lui scomparve ma quel dolore dentro di me ormai si era impadronito del mio stomaco.
Mi rannicchiai girandomi su un fianco e i miei occhi si spostarono lungo la scrivania a pochi metri dal letto, l'unica foto posata sulla sua superfice ritraeva due bambini, un maschio e una femmina, sorridenti. Il diavolo dai capelli rossi, la bambina e io che vado in pezzi. Sette anni, eh? Pensai.


Dovetti scendere al piano di sotto quando sentii la porta d'ingresso aprirsi, il signor Loss era rientrato, il padre di Alencar aveva lo stesso sguardo intimidatorio del figlio anche se era moro e robusto. Cercò di sorridere ma non era un'espressione che gli riusciva particolarmente bene, risultò più come un ghigno, un ghigno in una faccia piena di righe.
- Ah Callum! Com'è andata la giornata? Ultimo anno eh – disse con tono solenne.
- Sì signore. Bene grazie –
- Cosa c'è per cena? – chiese fissando l'orologio, erano quasi le nove e mezza, ormai non badava più a quando rientrava in casa, lo scopo era restarne fuori più che tornare dentro.
Scossi le spalle con un lieve imbarazzo mentre lui mi fissava con quella disapprovazione tipica dei padri anche se in realtà sospettavo che fosse un riflesso privo di sentimento. L'avvocato Loss, l'uomo che si batteva per i diritti di tutti ma a cui non interessava di nessuno, né di me, né di mia madre, né del suo stesso figlio, almeno la seconda era l'unica a non soffrirne.
- Alencar? Non si degna a scendere fra noi? –
Io sobbalzai, avrei preferito che non pronunciasse quel nome ad alta voce, ma ormai era troppo tardi e, proprio come se ci fosse dietro una sorta di maleficio, il mio fratellastro apparve nella cucina.
Era alto ed imponente, un fisico che difficilmente passava in osservato, aveva le spalle larghe e le braccia toniche e muscolose merito degli allenamenti di boxe giornalieri, i colpi alla sacca era il solo suono che proveniva dall'antro del diavolo. I capelli erano di un rosso intenso corti ma con un ciuffo importante sul lato destro, il suo viso era cosparso di lentiggini che non gli davano un aspetto giovanile, tutt'altro. Il suo viso sembrava la perfetta riproduzione di ciò che aveva dentro, un misto di rabbia e odio che lo facevano sembrare più vecchio e spaventoso, le sue lentiggini sembravano delle ferite di guerra.
Alencar fissò il volto di suo padre con la solita aria di sfida e disgusto.
- Esco – fu tutto ciò che disse.
- Starai via tutta la notte? – si lamentò il padre - sembri un dannato vagabondo. -
- Non ti starò fra i piedi a lungo, presto sparirò dalla tua vita, non temere – rise ma non era divertito, mostrò solo i suoi denti bianchi e affilati come farebbe un lupo davanti ad una minaccia – d'altronde non vedevi l'ora di liberarti anche dell'ultima persona che ti conosce per l'essere disgustoso che sei –
Fine della discussione, danno critico in corso. Se il signor Loss non avesse avuto tanta paura di lui probabilmente avrebbe colpito il figlio dritto in faccia. Invece strinse solo i pugni mentre Alencar lasciava la cucina e faceva sbattere la porta d'ingresso. Ed eccoci qui, i crudeli e infelici abitanti di quella casa. Quel pensiero era dolce però, l'idea che presto Alencar sarebbe andato via davvero, si sarebbe trasferito in un appartamento suo e io sarei stato libero, forse potevo recuperare quel minimo di normalità che la sua presenza mi toglieva. Forse mi sarei potuto sgravare quel fardello di dosso e guardare ad un futuro mero buio senza quegli occhi diabolici.
Che idiota.


ANGOLO AUTRICI: Buona domenica e benvenute. Per i lettori che ci conoscono siamo felici di riavervi qui a percorrere questa nuova avventura insieme, per chi invece sta leggendo per la prima volta una nostra storia ci presentiamo: Siamo Black e Steel, due ragazze che scrivono storie a quattro mani! Ci auguriamo che la storia possa piacervi e vi avvertiamo immediatamente che sarà parecchio intensa emotivamente, ai cuori più sensibili chiediamo di fare attenzione a questo particolare prima di continuare la lettura! Che altro dire? Speriamo di avervi incuriosito con questo primo capitolo e non vediamo l'ora di sentire dei pareri su questi tre ragazzi! 

Aggiorneremo settimanalmente, quindi per il momento, ci rivedremo la prossima domenica!
A presto,

BLACKSTEEL

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