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L'unico incubo è la realtà

[Disclaimer:

La storia può essere considerata una AU, perché è ambientata anni dopo la serie Un Professore, quindi se i personaggi vi paiono un po' ooc, è normale - perché è una AU e perché sono passati anni, quindi ci troviamo al cospetto di due ragazzi appena più maturi e non due sedicenni.
Spero vi piaccia, io ne sono molto soddisfatta]



[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]




«Manuel? Manu? Dove sei?».

La voce di Simone rimbomba sonoramente tra le mura di quell'appartamento spoglio. I mobili ci sono, più o meno, recuperati per lo più al mercatino dell'usato.

Dante, il padre di Simone, prima che si trasferissero ha insistito per poter regalare loro almeno quelli della cucina, ma hanno rifiutato perché per la loro prima casa insieme non volevano l'aiuto di nessuno - anche se Manuel, ad un certo punto, ci ha provato a convincere il compagno ad accettare il regalo del professor Balestra, esasperato da ciò che trovavano in giro, usurato e mezzo rotto, ma non ha avuto la meglio.

Però va bene uguale.

È una casa piccola: ha una camera, un minuscolo ingresso, un salotto arrangiato dove ci entra a stento un divano a due posti e un televisore, la cucina, un bagno lungo e stretto e un solo balcone.

Detta così pare pure una catapecchia, però sia Manuel che Simone ne sono orgogliosi.

Per loro va bene, è tutto ciò che occorre.

«Sto qua!» urla di rimando Manuel. Chiude rapidamente il computer con il quale stava trafficando seduto a gambe incrociate sul letto matrimoniale e, a fatica, si alza.

Toccare le mattonelle gelate gli dona una sensazione di sollievo e, sinceramente, vorrebbe dirne quattro chiunque gli ha sempre detto che a Milano non fa caldo perché non è vero. Anzi, l'afa è decisamente più soffocante rispetto a Roma e non c'è mai un filo d'aria. E comunque lui la nebbia nell'ultimo anno passato nel capoluogo lombardo non l'ha mai vista.

Per sua fortuna è fine agosto per cui la tortura è quasi finita.

Quando supera la soglia della porta della cucina, Simone è fermo davanti al tavolo sul quale ha posato tre buste piene di spesa appena fatta. Lui ha già tolto le scarpe, evidentemente non le sopportava più, quindi se ne sta lì con dei pantaloncini color senape e una t-shirt azzurra.

«Ti muovi?» urla perché l'altro non l'ha sentito arrivare.

Manuel approfitta di tale lieve distrazione e si appropinqua a lui lentamente finché non gli è dietro. Posa in maniera lenta i palmi aperti sui suoi fianchi e pressa il proprio petto contro la sua schiena. Si solleva appena sulla punta dei piedi per posare lieve le labbra sull'incavo del suo collo lasciato perfettamente scoperto dalla maglietta leggera.

Nonostante tutto, Simone nemmeno sobbalza: la sua accennata risata riempie le orecchie di Manuel che sorride senza distaccarsi dalla sua pelle. «Ci hai messo un sacco» sussurra.

«La gente col caldo impazzisce» replica Simone e allunga una mano all'indietro così da infilare le dita tra i ricci capelli del compagno. «Ti ho chiamato per aiutarmi con la spesa, però» puntualizza.

«Sì?».

«Sì, ci sono i surgelati».

Manuel sospira sommessamente. In realtà non ne ha per niente voglia. Tutto ciò che riguarda le faccende domestiche lo trova complicato e noioso, ragion per cui fa sempre quasi tutto Simone. Quest'ultimo decifra in modo chiaro il suo sbuffo. Gira su se stesso, voltandosi lentamente. Prende il suo viso tra le mani e passa i pollici sulle sue guance prive di barba - ha preso a rasarsi ogni giorno da quando si sono trasferiti e pare addirittura più piccolo senza barba. «Ci mettiamo poco in due» sussurra e deposita un bacio fugace sulla punta del suo naso «Così poi ci mettiamo a vedere una serie con il ventilatore puntato addosso».

Manuel corruccia le labbra in una smorfia. «Sei peggio de mi' madre» borbotta. Simone ridacchia «Sì, ti avevo avvisato, se non ricordo male».

«Seh, e che palle». Distaccarsi in via definitiva è faticoso per Manuel: si è scoperto eccessivamente appiccicoso nei suoi confronti - nel senso buono del termine, tipo che si sente male se quando sono insieme non ha contatti con lui per più di cinque minuti, quindi appena può ne approfitta per sfiorargli un braccio, una gamba, anche solo appoggiare una mano sul suo ginocchio se sono seduti uno accanto all'altro.

Non sa spiegarne il motivo, lo considera naturale tanto quanto l'atto di respirare.

Alla fine è come se Simone fosse la Terra e Manuel la Luna che gli gira attorno, attirato dalla forza di gravità.

«Te devo da' una cosa prima» dice, facendo un passo indietro.

«Ora?».

«Sì, che poi finisce che ci scordiamo. Aspè».

Simone alza gli occhi al cielo, fingendosi esasperato - non lo è sul serio, è soltanto preoccupato per i surgelati. Manuel sparisce per qualche secondo dalla cucina, tornando poco dopo con un sacchetto di carta marrone, lo stesso che gli porge.

«Cos'è?» è la domanda che sopraggiunge nell'immediato.

«Apri e vedi».

«Non ci siamo detti niente regali?».

«Apri e sta' zitto».

A tal punto, Simone deve arrendersi, così scarta il pacchetto. Ne estrae quello che, all'inizio, pare solo un pezzo di stoffa scura; dispiegandola, si accorge che si tratta di un grembiule con una scritta sul davanti che recita Shut up, I'm making art.

Un lieve sorriso si dispiega sul suo volto, lo stesso che appare anche su quello di Manuel, pienamente soddisfatto.

«E questo me lo sono meritato per...?» chiede Simone.

«Perché da quando hai cominciato a dipingere, mi hai macchiato tutte le magliette» spiega Manuel «E poi perché ti immagino a dipingere con solo questo addosso» gli fa l'occhiolino.

«Pervertito».

«Ti piace quando lo faccio».

Simone scuote il capo. Non dice nulla perché sa che, in fondo, l'altro ha ragione. Si limita a sorridere frattanto che osserva il suo nuovo accessorio.

È felice in quel momento. Stenta a credere che stia sul serio vivendo quel che ha attorno: stare con Manuel, nella stessa casa, solo loro due e nient'altro.

Stare insieme e basta, senza fare nulla di eccezionale.

Soltanto qualche anno prima non lo avrebbe mai immaginato, ai tempi del liceo che paiono appartenere ad un'altra vita.

Lui stesso si sente un'altra persona.

Non è più un ragazzino impaurito e delle volte rabbioso, non è più triste per la maggior parte del tempo.

È solo Simone Balestra, che studia alla facoltà di matematica, a Milano, e che vive col suo ragazzo Manuel.

«Dai, provalo» esclama quest'ultimo, distraendolo dai suoi pensieri. Simone abbozza una risata e «Con i vestiti o senza?» lo stuzzica.

«Per il momento con, ma poi non si sa mai».

Simone obbedisce e indossa il grembiule. Il laccio intorno alla vita è lungo e fa il giro della sua vita per due volte, ma non fa niente.

«Come sto?» chiede poi.

Manuel alza l'indice, gli fa cenno di voltarsi, così che possa ammirarlo a trecentosessanta gradi - il compagno fa un giro completo su se stesso.

«Stai» commenta. Dice solo quello mentre gli si avvicina e gli ruba l'ennesimo bacio, al quale Simone risponde con appena più enfasi, infilando una mano tra i suoi ricci e attirandolo di più a sé. Si distacca poco dopo. «Se non ci fermiamo subito, buttiamo tutti i surgelati».

Manuel alza gli occhi al cielo. «Quanto rompi le palle coi surgelati» soffia. È in procinto di baciarlo ancora, ma Simone appoggia una mano sul suo petto e lo allontana. «Tanto mi ami lo stesso» lo rimbecca.

«Ti amo lo stesso».


**


Da quando si sono trasferiti, Manuel ha cominciato a desiderare di passare a casa il più tempo possibile il che è paradossale dal momento che, a Roma, non perdeva mai l'occasione di stare fuori da casa propria. Non sa il motivo, forse per sentirsi più vivo o rendersi utile perché fuori poteva fare soldi utili per aiutare la madre Anita. Quindi passava la maggior parte del tempo in giro per cercare un ipotetico guadagno oppure chiuso nel suo piccolo box ad aggiustare qualunque cosa gli capitasse a tiro per racimolare denaro.

Da giri loschi ne è uscito da parecchio, comunque, e dalla prima (e unica) volta che ha rubato una macchina, non è mai più successo.

Adesso è più pacifico, più tranquillo e restare in casa, nel letto abbracciato a Simone è la definizione di serata perfetta - sì, anche se ci sono quaranta gradi e suda a stare pelle contro pelle.

Quindi se ne stanno lì in una calda serata di fine agosto, avvinghiati l'uno all'altro con addosso solo un paio di boxer a testa e un lenzuolo sottile attorcigliato attorno alle gambe. Manuel tiene la schiena contro la spalliera del letto, mentre Simone poggia la testa sulla sua spalla.

Gli occhi di entrambi sono fissi sullo schermo del computer portatile posizionato al fondo del materasso e tenuto in rialzo da due cuscini. La ventola fa un rumore assurdo, forte. È probabile che il computer si spenga d'improvviso o esploda per essersi surriscaldato troppo.

Sperano di no perché nessuno dei due ha dei soldi per rimpiazzarlo.

«Non ho capito, quindi perché hanno fatto tutto 'sto casino per lui?» domanda Manuel, che per abitudine parla e commenta sempre ogni cosa che vedono in televisione o streaming.

«È Pietro, il gemello di Wanda» risponde Simone, continuando a seguire la serie tv che hanno messo su - reduce dal recupero ossessivo di tutto ciò che riguarda la Marvel che ha voluto che il compagno facesse, senza lasciargli molta scelta perché in che senso non hai mai visto un film Marvel, Manuel? Sei impazzito? Dobbiamo rimediare e allora sono mesi che guardano i film e le serie derivate.

«Ma non era morto nell'altro film?».

«Sì, ma stanno in una realtà illusoria e l'attore è quello che ha fatto Pietro negli X-Men».

«Dobbiamo vedere anche X-Men?».

A Simone scappa una risata. «Certo, alla fine» esclama.

«Dio, ma quanti sono?».

«Tanti» solleva il capo quanto basta per poter scorgere il suo profilo «Ti dispiace?».

Manuel corruccia le labbra in una smorfia. «Mh, no» borbotta «È pieno di gran fighi, almeno è un bel vedere».

«Ah, okay, allora lo togliamo subito» Simone fa per allungarsi per premere stop alla puntata che sta andando in onda sul loro piccolo schermo. Manuel ridacchia e «No, no, e daje» dice e lo blocca, premendo una mano sul suo petto. Si sporge di qualche centimetro e con l'altra mano prende il suo viso da sotto il mento, dandogli un bacio rapido sulle labbra. «Tu saresti più figo con la tutina di Spider-Man» soffia.

«Sì?» sussurra Simone, non appena il compagno lo lascia andare, sebbene rimanga fermo a pochi centimetri dal suo volto. «E tu fai la mia MJ?».

«Ci assomiglio un sacco a Zendaya».

«Te piacerebbe».

Manuel si finge offeso e gli fa la linguaccia, per poi ridere e fargli cenno col capo di tornare a prestare attenzione allo schermo. Tuttavia, il primo a non farlo è lui che riprende a parlare: «Però sarebbe una figata avere un super potere».

Simone sospira. «Tipo?» chiede.

«Tipo... Essere più alto».

«Quello non è un super potere».

«E questo è ciò che dicono le persone alte!» Manuel ride «È un super potere di fatto».

«No, è un super potere stupido».

«Tu, invece?» gli domanda, mentre con due dita ha iniziato a sfiorargli una guancia. È un gesto che fa in maniera spontanea, che lo rilassa. Percepisce sotto i polpastrelli i peli sottili della barba appena fatta che tentano di ricrescere, la pelle morbida e il modo in cui la sua mandibola si contrae quando parla.

Intanto Simone cerca di ragionarci, corruga la fronte e «Non lo so» attesta «Non ci ho mai pensato».

«Beh, pensaci ora».

«Mh - forse 'na cosa tipo Wanda che crea la sua realtà dove comanda tutto lei, dove ha vicino solo chi vuole lei. Una roba così. Ovviamente senza che mi si ritorce tutto contro alla fine».

«Hai fatto spoiler».

«Sì, scusa».

Manuel non ci bada troppo, allo spoiler. In realtà se non fosse per Simone che gli spiega man mano tutte le trame di film e serie tv, si sarebbe già perso. Piuttosto si focalizza su ciò che è appena uscito dalla bocca del compagno, la risposta al quesito che ha posto. «Va beh, ma che controlleresti?» insiste «Alla fine tutti scelgono con chi stare e hanno il potere di decisione nella loro vita».

«Beh, decidiamo per noi stessi, mica per gli altri» Simone sospira «Alla fine se avessi controllato tutto io, ti avrei fatto innamorare molto prima, invece mi hai fatto dannare».

«Ah, quindi vorresti controllare la realtà solo per farmi innamorare di te?».

«Per accelerare i tempi, ho detto» gli sfugge una risata e solleva lo sguardo «Che tu sei fortunato che ero cotto già da prima, altrimenti ti avrei fatto dannare io».

«Ma figurati» Manuel lo sbeffeggia «Mi saresti caduto ai piedi ugualmente».

«Seh, vabbè».

«Giuro» insiste «Se tipo domani ti dimenticassi tutto, no? A me basterebbe uno sguardo e tu saresti perso». Si muove e con non poca fatica, rischiando di far cadere il computer da quel rialzo improvvisato, si posiziona sopra al corpo del compagno, con le ginocchia piegate all'altezza dei suoi fianchi.

Simone ridacchia e «Vedi che fai cadere tutto!» lo rimprovera.

«Non cade niente» Manuel lo rassicura e si sporge in avanti col busto per depositare un bacio lieve dapprima sulla punta del suo naso e in seguito sulle labbra.

«Poi avresti il colpo di grazia» sussurra.

«Cioè?».

«Cioè verrei da te e piano ti direi Ciao Peter» lo bacia di nuovo «Sono la tua MJ» .

La risata di Simone si fa più forte; fa scorrere un palmo aperto sulla sua schiena, a solleticare lievemente la sua pelle in quel momento bollente. «Sei tutto scemo» commenta.

Manuel annuisce, poco prima di ribaciarlo ancora e ancora.

Fosse per lui non smetterebbe mai, perché ne hanno persi tanti, prima.

Per colpa sua, principalmente.

Ne ha fatto passare di tempo prima di capire cosa gli piacesse e quanto.

E adesso sta solo recuperando quanto perso.


**


«Ripetimi n'altra volta perché stiamo facendo 'sta cosa?».

Manuel pone il quesito con le braccia incrociate al petto e una spalla appoggiata allo stipite della porta della camera da letto. Osserva Simone, intento ad abbottonarsi una camicia nera in piedi davanti lo specchio a figura intera con bordo bianco che hanno sistemato nell'angolo della stanza. «Perché Matteo e Giulio si trasferiranno qui il mese prossimo» replica quest'ultimo, inserendo l'ultimo bottone nell'asola «E ci hanno chiesto una serata fuori co' Aureliano pure dato che è tanto che non ci vediamo».

«Se non ci vediamo da tanto, ci sarà il suo motivo».

«Non fare l'asociale» lo rimbecca Simone e muove due passi per essergli di fronte «Non ti s'addice, quella è prerogativa mia».

Manuel alza gli occhi al cielo. «Che palle» sbuffa «Potevamo stà a casa a vedè la serie di Occhio di Falco, è il mio preferito».

«Ed è proprio per questo che usciamo stasera».

«Solo perché tu lo odi, non...» fa per dire, ma Simone lo interrompe prendendogli il viso tra le mani, accarezzando le sue guance con i pollici e depositando un bacio leggero sulla sua bocca.

«Prometto che torniamo presto» sussurra «E poi magari facciamo qualcosa di meglio che vedere Occhio di Falco».

«Sì?».

«Sì, ma fallo notare poco che Matteo ti sta sul cazzo».

«Io non faccio niente».

«La tua faccia fa qualcosa».

«Che palle» rimbecca Manuel, ma mima solo quelle parole, dalla sua bocca non proviene alcun suono. Poggia un palmo sul petto del compagno per spingerlo appena e costringerlo a distaccarsi. «Posso prendere la tua giacca almeno?» cambia discorso.

«Quale?».

«Quella di jeans leggera».

Simone annuisce e non esita a recuperarla dall'armadio. Non gliela porge nemmeno, piuttosto gliela appoggia sulle spalle. «Sta meglio a te, comunque» commenta. È un velato complimento che porta Manuel ad arrossire appena sulle guance.

Non ne fa quasi mai, a differenza del compagno. Non perché non ne abbia o non sia propenso, ma si vergogna la maggior parte delle volte e ha il terrore di risultare troppo melenso. Manuel, al contrario, gliene fa di continuo e gli scrive pure le poesie.

Delle volte Simone si chiede cosa abbia fatto davvero per meritarlo.

«Andiamo?» dice dopo.

Manuel prende un respiro profondo, quasi si preparasse ad andare in apnea - che quell'uscita è quanto più simile ad una tortura per lui.

«Andiamo».


**


«Fatemi dire che essere a Milano da più di un anno e non conoscere mezzo locale è veramente vergognoso».

Manuel alza gli occhi al cielo alla frase di Matteo, che ha dovuto urlare per farsi sentire sopra la musica alta della radio. È seduto nel sedile posteriore di quella Audi A1 bianca che sinceramente non trova affatto bella come fanno tutti e che solo un tipo come Matteo poteva chiedere come regalo per aver conseguito la patente qualche anno prima - e uno dei pochi a poterselo permettere - schiacciato contro la portiera per la presenza di Giulio e Aureliano.

Cerca lo sguardo di Simone, sistemato davanti al lato passeggero. Lo trova per mezzo secondo prima di perderlo nuovamente.

Sono quasi le tre di notte - alla faccia del tornare presto a casa - e sono stati in almeno quattro locali, facendo file chilometriche per poter permanere meno di mezz'ora.

Vorrebbe soltanto tornare a casa e buttarsi sotto al lenzuolo col fidanzato, invece, a quanto pare, non è possibile.

«Ne conosciamo di locali» borbotta Simone e allunga una mano per abbassare il volume della radio «Ma ce li hai bocciati tutti, quindi...».

«Beh, questo perché conoscete solo locali piuttosto noiosi» borbotta Matteo «Infatti ne ho trovato uno su Google che sta qui vicino e pare un posto figo».

«Certo, perché le cose trovate su Google sono sempre grandiose» commenta Manuel. Osserva fuori dal finestrino: è buio e su quella strada l'illuminazione è scarsa. Non ha idea di dove si trovino, sebbene abiti a Milano da un po' non ha ancora imparato ad orientarsi e principalmente per muoversi usa la metro. Ha l'auto, ma non la usano quasi mai, il traffico della città è estenuante.

Ad ogni modo, il suo sguardo ricade presto sul profilo di Simone che scorge col capo basso. Immagina sia stanco pure lui, per fortuna nessuno dei due ha lezione o deve lavorare il giorno dopo, ma vorrebbe chiederglielo lo stesso se è tutto okay.

Simone si volta in quell'istante, quel che basta per permettere ad entrambi di scrutarsi in viso per pochi secondi; curva leggermente le labbra all'insù e pare quasi abbia capito la preoccupazione del compagno, per cui sorride in segno di rassicurazione.

«Ho letto le recensioni, che ve pensate» replica Matteo, con estrema convinzione «Poi da bere costa pure poco».

«Tu guidi e manco devi pensare a bere» fa presente Giulio, che è schiacciato tra Manuel e Aureliano e sta cercando il modo migliore per poter sopportare ancora quella situazione.

«Ah, ma sta' zitto» si lamenta Matteo. Si scosta appena con i fianchi in modo da recuperare il telefono che tiene nella tasca posteriore dei jeans. «Ho bevuto soltanto una birra, sono stato bravo» aggiunge e, intanto, butta un occhio sullo schermo del cellulare.

Simone scorge i suoi gesti con fare distratto. «Che stai facendo?» chiede.

«Volevo impostare il navigatore, ma a Milano non sta campo».

«Da' qua«» fa per strapparglielo dalle mani, ma l'apparecchio sfugge prima dalla presa di Matteo e cade sui tappetini dell'auto. «Cazzo» impreca quest'ultimo ed è subito in procinto di recuperare l'oggetto tant'è che non presta più attenzione alla strada e si china per farlo.

È in un battito di ciglia che tutto accade: il suono assordante di un clacson riempie l'abitacolo, Simone urla «Attento!», lo stridio di un paio di freni taglia letteralmente l'aria.

Matteo si tira su con uno scatto, sterza con il volante e dei fari abbaglianti rischiano di accecarlo. Le ruote dell'Audi grattano l'asfalto e l'auto ruota sulla strada ritrovandosi in linea perpendicolare al senso di marcia.

Il veicolo che viaggia nella direzione opposta passa oltre, probabilmente riservando loro imprecazioni varie per lo scontro frontale appena evitato.

Cala un silenzio paradossale tra i cinque ragazzi rimasti. A Matteo tremano le mani mentre fissa dritto di fronte a sé. Aureliano e Giulio hanno gli occhi spalancati e increduli, col cuore che batte talmente forte da rischiare di esplodere.

Simone ha il fiatone, pensa di poter svenire da un momento all'altro. Alla propria incolumità, tuttavia, non ci bada troppo. Si volta verso Manuel e lo vede tenersi due dita sul naso, lo stesso che ha preso a sanguinare probabilmente a causa del principio d'urto subito.

«Cristo!» esclama. Si affretta a liberarsi dell'ingombro della cintura, per poter muoversi e sporgersi meglio in direzione del compagno. È agitato e preoccupato. «Stai bene?».

Manuel annuisce a stento. Non sa neppure contro cosa abbia sbattuto: forse il finestrino, forse lo schienale del sedile. Non ne ha idea, è successo tutto troppo velocemente per rendersene conto. «Sto bene» bofonchia e rimuove la mano dal viso. La sua affermazione non risulta troppo convincente considerando che il sangue macchia anche il suo labbro superiore e una parte della guancia sinistra.

Simone non ne è convinto, per niente. Anzi, quella visione lo getta ancor di più in ansia. Per quel che può, allunga un braccio per accarezzare con un pollice il viso dell'altro ragazzo. «Sicuro?» sussurra.

Una replica non riesce a sopraggiungere dal momento che Matteo scoppia a ridere all'improvviso.

Simone prova l'impulso di picchiarlo poiché la sua risata è del tutto fuori luogo in quel momento - e poi pensava sarebbe stato Manuel a concepire quel tipo di desiderio. «Che ti ridi?» sbotta.

«Niente, niente» è la risposta, tra un singhiozzo divertito e l'altro «Che c'è, Simò? Vuoi dargli il bacino così passa la bua?».

Giulio rotea gli occhi al cospetto di una simile uscita da parte dell'amico e Aureliano scuote il capo, in imbarazzo per lui.

«Quanto sei stronzo» quasi urla Simone e gli tira un colpo a pugno chiuso dritto sulla spalla destra. Sbuffa e torna composto sul sedile «Avevi solo da guardare la strada».

«Daje, che non s'è fatto niente».

«Ringrazia! Se gli succedeva qualcosa, eri già morto, ti avrei ucciso io» Simone tenta di risultare minaccioso, per quanto i suoi occhi grandi lo tradiscono. Lo sa che non è credibile, non lo è mai stato. Si ricorda quando ai tempi del liceo soltanto per difendere Manuel si è immischiato in qualcosa di più grande di entrambi e si è sentito incredibilmente ridicolo in tale occasione. Perché essere minaccioso e crudele non gli appartiene. Il punto è che, se si tratta di Manuel, sente il bisogno viscerale di far vedere a tutti che può proteggerlo e vuole farlo.

«Che esagerazione» Matteo prosegue con frasi che nessuno sta davvero ad ascoltare, tanto meno Simone che si è voltato nuovamente in direzione di Manuel. Mima con le labbra l'ennesimo «Stai bene?», mentre l'altro si limita ad annuire sebbene in quel momento desideri soltanto scendere dall'auto e stringerlo a sé dopo quanto appena accaduto.

I loro occhi sono ancora incastrati gli uni dentro gli altri quando un tonfo più forte, più violento, riempie l'abitacolo. I vetri sul lato passeggero si frantumano, la carrozzeria si piega.

Manuel non cattura più con lo sguardo il viso di Simone. Non vede più nulla, viene sballottato senza delicatezza e sbatte la testa contro il finestrino chiuso, il cui vetro si incrina nell'impatto.

L'Audi viene colpita in pieno da un camion con rimorchio e sospinta lungo la carreggiata, che la fa ribaltare su se stessa un paio di volte.

Ed è un nuovo silenzio quello che cala sulla strada, più assordante e micidiale.


**


A Manuel sembra di esser finito in un incubo.

Forse solo un brutto sogno da cui si sveglierà presto e in realtà si è addormentato mentre con Simone guardavano la serie tv su Occhio di Falco.

Sì, sarà così, sarà...

Il freddo dell'asfalto che sente sotto le dita lo riporta bruscamente nel mondo reale, insieme al dolore lancinante che ha alla testa e alla gamba sinistra.

Un colpo di tosse rischia di togliergli il fiato, frattanto che tenta, con scarsi risultati, di mettersi almeno seduto. Non sa come sia uscito dalla macchina, che nota a pochi metri di distanza, ribaltata e parzialmente accartocciata su se stessa. Strizza gli occhi.

Ci sono anche gli amici. Giulio regge Matteo che non sembra essere in grado di star su da solo, le gambe allungate sulla strada e il viso sporco di rosso; Aureliano è in piedi, piegato in due con i palmi aperti poggiati sulle ginocchia.

Solo che non c'è Simone.

Manuel non lo vede.

È forse quel dettaglio a dargli la forza di alzarsi in piedi con uno scatto che gli costa incredibile fatica e un giramento di testa. «Simone...» soffoca «Dove sta Simone?» ora urla anche se il tuo tono è graffiato.

Nessuno gli risponde, a parte uno stentato «Sta arrivando l'ambulanza» che Giulio sussurra ed è a malapena udibile.

La gamba gli fa più male di prima quando comincia a camminare per cercare Simone perché ancora non è nel proprio campo visivo, perché non sa se sta bene, non sa se...

Si blocca. Ha percorso tre metri, forse quattro. Ha l'Audi in frantumi accanto quando scorge il corpo di Simone riverso sull'asfalto in una posizione non naturale. E gli manca il fiato.

Corre e il dolore, a tal punto, non lo sente manco più.

Raggiunge l'altro ragazzo e crolla a terra al suo fianco. Razionalmente lo sa che non deve muoverlo, che non dovrebbe farlo, ma in quel momento la ragione non ce l'ha più.

Lo accoglie tra le proprie braccia, tenendolo per il busto e le mani gli si sporcano di rosso.

Simone è cosciente, muove a stento le labbra senza produrre alcun suono e i suoi occhi sono socchiusi.

«Simó?» soffoca Manuel e gli accarezza una guancia con due dita «Sto qua, eh. Sto qua co' te».

Simone sente la sua voce, vorrebbe rispondergli, dire qualunque cosa, ma non ci riesce. Tenta di tenere gli occhi aperti per quanto sia difficile; ha il volto coperto da tagli, uno gli impedisce anche di vedere bene.

«Stai con me, ah?» biascica ancora Manuel, frattanto che una lacrima gli scivola sul volto. Non vorrebbe piangere, vorrebbe mostrarsi forte come fa di solito. Il problema è che non può.

Non può perché gli manca il fiato, perché ha paura, perché il terrore che Simone si addormenti in tal momento lo devasta.

«Stai con me» ripete e stavolta non è una domanda. Glielo ordina quasi. «Stai con me».

Pensa ad un sacco di cose.

Ha la testa vuota e piena al contempo.

Pensa che Simone non può morire adesso, che non può lasciarlo, che devono fare ancora un sacco di cose insieme, che per colpa sua hanno perso un sacco di tempo e non può permettere che l'altro muoia senza avergli dato la possibilità di recuperare, di dirgli ogni giorno quanto lo ama e quanto lo ha amato anche prima di rendersene conto.

Poi non pensa più a niente.

Le sue orecchie si riempiono del sibilo derivante dal respiro flebile di Simone, che si fa sempre più debole, sempre più lontano, fino a scomparire, assieme al proprio.


**


Il mondo attorno a lui si muove a rallentatore.

C'è gente che non conosce che continua a parlargli, a dirgli che andrà tutto bene.

Per Manuel ha smesso di andare tutto bene nell'istante in cui Simone ha chiuso gli occhi e glielo hanno strappato via dalle braccia su quella strada incredibilmente troppo fredda.

Sta fermo, al pari di un fantoccio che viene spostato da una parte all'altra con una logica che non capisce - o che non si sforza di capire.

Non parla, tiene lo sguardo fisso nel vuoto.

Non ha detto niente mentre un dottore e l'infermiera lo medicavano, mettendogli dei punti sul taglio sul sopracciglio e fasciandogli una gamba. Non ha nulla di rotto, perlomeno a livello fisico.

Non ha detto nulla nelle tre ore successive, abbandonato sulle sedie grigie e gelate della sala d'attesa di quel piccolo ospedale di provincia.

Non ha proferito parola quando un medico dai capelli brizzolati e il camice verde si è avvicinato a lui e gli ha comunicato che Simone è grave, che devono aspettare e che è possibile non superi le ventiquattro ore.

Il silenzio lo ha avvolto e lo ricopre tutt'ora, frattanto che Simone riesce a guardarlo, seduto al suo fianco su una sedia ancora più scomoda.

È incredibile come gli sembri minuscolo in quel letto dalle lenzuola azzurro pallido ed è strano perché Simone non è piccolo, non è minuto, eppure ai suoi occhi, adesso, attaccato a tutti quei macchinari che respirano per lui e monitorano ogni suo segno vitale, pare estremamente piccolo, fragile, come vetro.

Non è riuscito ad analizzare ogni dettaglio: una parte di lui ha evitato di farlo come se il brutto sogno stesse continuando e non riuscisse a svegliarsi.

«Manuel?» è il tono flebile della voce di Giulio a giungergli alle orecchie. Non sa da quanto tempo sia lì. Non sa neppure da quanto lo è lui in quella stanza, del resto.

«Manuel, io...» lo sente ancora sussurrare, ma il suo sguardo rimane fisso sul profilo immobile di Simone «Mi hanno chiesto se dobbiamo - se dobbiamo chiamare qualcuno e... Dovremmo chiamare Dante? Io... Avevo il suo numero, poi ho cambiato telefono e...».

Manuel non risponde. Non si muove, non fa nulla che non sia osservare Simone e il suo leggero respiro guidato da macchinari esterni.

«Manuel...» cantilena ancora Giulio e Manuel non può vedere come i suoi occhi siano lucidi e gonfi «Per favore, dimmi... Dimmi qualcosa. Non so cosa fare. Aureliano sta con Matteo e chiedono tutto a me e io non so... Non so cosa dire, ti prego. Ti prego, dimmi qualcosa».

Occorrono dei secondi interminabili prima che quelle suppliche forniscano un qualche genere di riscontro, una minima reazione da parte di Manuel che trova la forza di girare il capo di un paio di centimetri, mostrando un'espressione assente e irriconoscibile. Gli trema il labbro inferiore mentre fissa l'amico per un breve istante e sussurra «Ha comprato un sacco di surgelati l'altro giorno» lo dice in un lamento «Il freezer a stento si chiudeva e l'ho rimproverato perché ce n'erano troppi e se il freezer non si chiude bene, poi si scongela tutto, ma lui non ci pensa a questo. Compra sempre un botto di roba se sta qualcosa in offerta e finiamo per mangiare la stessa cosa per settimane altrimenti va a male, anche se questi - questi sono surgelati, non possono andare a male e...».

Una parte di lui è perfettamente consapevole che quel discorso è fuori luogo, pronunciato in un momento inopportuno, eppure le parole gli escono fuori di bocca senza logica, come meccanismo di autodifesa contro quel dolore che non è in grado di affrontare con lucidità.

Giulio questo riesce a comprenderlo e non lo rimprovera per aver pronunciato quelle frasi sconnesse. Gli mette una mano su una spalla, stringe appena la presa e spera che quello basti per riportare Manuel alla realtà perché occorre che sia vigile, cosciente e forte.

Ha bisogno che sia forte perché lui da solo non ce la fa.

«Dimmi che devo fare» supplica.

Manuel schiude le labbra. Ancora una volta, la sua parte razionale gli suggerisce tutto ciò che dovrebbe fare, come dovrebbe agire e lo sa benissimo che è quella la linea da seguire. Eppure non proferisce suono se non per soffocare uno stentato «Non lo so».

Torna con lo sguardo su Simone ed è come se lo vedesse per la prima volta: le sue ferite, i lividi, i graffi, la sua pelle piena di aghi e cerotti.

«Non lo so» ripete, in una cantilena continua che non pare avere fine.


**


Costringono Manuel a tornare a casa, nonostante lui opponga una debole resistenza, ma tanto nel reparto di terapia intensiva non permettono di rimanere lì per troppo tempo - e perché ha bisogno di riposare.

Alla fine, nell'impatto ha riportato lesioni lievi, qualche taglio che, una volta guarito, non lascerà cicatrici e una distorsione alla gamba per la quale non deve neppure utilizzare le stampelle.

Ci hanno pensato Giulio e Aureliano a pagare il taxi che lo ha accompagnato in quell'appartamento che ora pare così vuoto e freddo, mentre Matteo è rimasto ricoverato per la frattura di un braccio e trauma cranico.

Entrambi si sono offerti di restare con lui, ma ha preferito rimanere da solo.

Adesso se ne sta in piedi al centro della piccola stanza che ha il letto sfatto, con le lenzuola sgualcite e le loro t-shirt stropicciate abbandonate sopra. C'è il computer chiuso, ma ancora acceso, appoggiato sul pavimento, davanti ad uno dei comodini di legno chiaro che ha un cassetto mezzo aperto.

Manuel rimane immobile, ad osservare quei dettagli che, senza Simone, sembrano inutili e fugaci.

Tiene in mano il suo cellulare. Un agente di polizia glielo ha restituito in una busta di plastica dove era presente anche il portafoglio e le chiavi di casa. Il telefono ha lo schermo rotto, deve essere successo nell'impatto.

Funziona ancora, però, anche se non ha quasi più batteria per restare acceso a lungo.

Il suo cervello gli sta fornendo gli impulsi più logici, ossia di chiamare Dante e Floriana, i genitori di Simone, per...

Come dici a due genitori che loro figlio potrebbe morire da un momento all'altro?

Che ne potrebbero perdere un altro, affrontare nuovamente un dolore simile?

I medici in ospedale hanno cercato di convincerlo del fatto che non deve per forza accollarsi un peso del genere, che qualcun altro può effettuare quella chiamata al suo posto.

Non ha sentito ragioni.

Deve e vuole essere lui ad avvertirli.

Non è più un ragazzino perso, non è più l'immaturo che non sa cosa fare nella vita.

Adesso è un adulto e quella è una cosa da adulti che può fare.

Eppure sono almeno trenta minuti che fissa lo schermo del cellulare, pieno di crepe, con la percentuale di batteria che è scesa al due per cento.

Muove qualche passo dopo, si costringe a farlo soltanto per raggiungere il materasso e ci si lascia cadere sopra di peso.

In un flash, gli passano davanti i momenti precedenti l'incidente, gli istanti in cui guardava Simone, il suo volto, i suoi occhi che tentavano di rassicurarlo sul fatto che tutto andasse bene.

Vorrebbe riprovare le medesime sensazioni anche ora che ogni cosa gli sta crollando addosso, come sotto a macerie che non è in grado di scansare.


**


«Dante lo ha chiamato?» Aureliano lo sussurra appoggiandosi alla porzione di muro accanto alla porta bianca socchiusa.

Dentro a quella stanza d'ospedale, riesce a scorgere Manuel seduto accanto al letto in cui giace Simone, ancora attaccato a qualsiasi genere di macchinario che lo aiuta a restare in vita; gli stringe la mano con delicatezza, di tanto in tanto deposita un lieve bacio sul dorso o sul lato interno del polso oppure si sbilancia un po' in avanti per sussurrare qualcosa al suo orecchio.

Giulio è seduto sulla panca di metallo sistemata in quel lungo e asettico corridoio. Poggia i gomiti sulle cosce e si passa distratto una mano sul volto. «Sì, lo ha sentito qualche ora fa» comunica «Dovrebbe prendere il treno stasera insieme a Floriana, massimo saranno qui in serata».

«E secondo voi lui ha dormito?» domanda Aureliano, mentre discosta lo sguardo dall'interno della stanza «C'ha un aspetto di merda, rischia di svenire da un momento all'altro». Si riferisce a Manuel, ovviamente, sebbene l'aspetto di merda ce l'abbiano tutti.

Hanno tutti lividi e tagli sparsi per il corpo, seppur meno gravi.

«Così ha detto» bofonchia Giulio «A me non sembra».

«Tanto tra un po' l'infermiera lo caccia, è quasi finito l'orario di visita».

«E mica va a dormire, si apposta qua sotto finché non cominciano di nuovo le visite».

Matteo ascolta in silenzio il loro dialogo. Se ne sta seduto accanto a Giulio, nella medesima posizione, tenendo il capo basso. Ha un grosso livido sotto l'occhio destro ed è l'unico ematoma presente sul suo corpo a non essere stato causato dall'incidente. Gratta con l'unghia dell'indice un punto indefinito del gesso che gli ricopre il braccio sinistro. «Possiamo parlargli di nuovo» suggerisce.

Aureliano arriccia il naso, interdetto. «Tu meglio che non gli rivolgi proprio parola» borbotta.

A tale replica, Matteo tace, un po' perché non sa cosa dire, un po' perché a ripetere la scena accaduta poche ore prima non ci tiene: se solo medici e infermieri non si fossero precipitati in suo soccorso e non avessero fermato Manuel...

Sarebbe bloccato in un letto d'ospedale anche lui.

«Dobbiamo solo aspettare» sussurra allora Giulio «Tanto se arrivano - i genitori di Simone, loro... Sapranno che fare, no? Sicuramente più di noi. Noi non possiamo fare niente».

«Sì che non possiamo fare niente, abbiamo fatto noi 'sto casino».

Matteo solleva il capo quando recepisce tale frase. Vorrebbe dire che non è vero, che non è colpa loro, che è solo colpa sua che si è distratto quando non doveva. Che di cazzate ne ha fatte tante, ma mai di così gravi, mai qualcosa per cui sentirsi in tal modo, a pezzi, devastato.

Vorrebbe chiedere perdono in quel momento: a loro, i suoi amici, a Manuel, a Simone.

Soprattutto a Simone.

Però rimane in perfetto silenzio, svuotato, frattanto che Aureliano e Giulio continuano a parlare - di cosa gli sfugge, ha smesso di ascoltarli o forse il suo cervello ha smesso di farglieli sentire per lasciarlo ancora più solo nel senso di colpa che si mescola perfettamente col dolore e con la consapevolezza di aver sbagliato anche quella volta.

«Si sveglierà?» gli esce di bocca quel quesito che fatica a pronunciare. Lo sguardo degli altri due ricade su di lui.

Matteo trema appena. "Hanno detto tante cose, i medici" biascica «Che ci dobbiamo preparare al peggio, ma io non voglio prepararmi al peggio. Quindi - quindi voi pensate che si sveglierà?».

Una risposta non arriva, non subito. Forse perché nessuno può darla con certezza.

Aureliano annuisce e «Certo che si sveglia» attesta «Daje, stiamo parlando di Simone! È forte, certo che si... Si sveglia». A quelle parole stenta a crederci persino lui che le ha appena pronunciate.

Gli altri due, tuttavia, non osano contraddirlo poiché vogliono crederci, vogliono illudersi che quella sia la realtà per quanto non tangibile, per quanto frutto della loro immaginazione.

Perché la realtà nuda e cruda è più grande di loro e fa troppo paura.


**


Manuel è rimasto solo.

Ha abbandonato la stanza di Simone dopo esser stato costretto dalle infermiere di turno, ha atteso seduto su una panchina ai lati del parcheggio dell'ospedale che fosse di nuovo orario di visita per rientrare e tornare accanto al letto, in un posto fisso che non ha intenzione di lasciare.

Ha sonno e percepisce le palpebre pesanti. Ci ha provato a dormire, con scarsi risultati poiché non appena sente di stare per perdere il controllo, va nel panico, il cuore gli batte troppo forte e allora si rimette in sesto con uno scatto.

A quel punto è solo questione di ore prima che il suo corpo si arrenda alla stanchezza.

Immagina aspetterà che accada senza opporre resistenza.

La visione di Simone, dei suoi tratti martoriati da tagli e lividi lo destabilizza. Crede che ricevere una palla di cannone in pieno stomaco, probabilmente, farebbe meno male.

Cerca di vivere in un altro sogno quando lo guarda, fantasticando sul fatto di essere nel loro appartamento, abbracciati nel loro letto a continuare la maratona di film Marvel mentre gli pone centinaia di domande su ogni scena e Simone si lamenta di questo, ma poi lo bacia e ridono insieme.

Invece crolla quando realizza di essere bloccato in quel contesto che lo sta smantellando pian piano.

Lui, loro.

«Ciao, Manuel».

Al ragazzo è sufficiente sollevare di poco il capo per notare la presenza di Dante sulla soglia della porta. Lo vede con il viso stanco, gli occhi spenti. Un po' riflette la propria immagine in quel momento.

«Salve, professó». Lo chiama in tal modo anche se il liceo lo ha finito da un pezzo e ormai fa parte della famiglia Balestra. Gli è rimasta l'abitudine.

Dante sforza un sorriso e muove qualche passo lento nella stanza. Fa il giro del letto per ritrovarsi accanto a Manuel. Da una simile posizione, riesce a poggiare una mano sulla sua spalla. Non è in grado di scrutare troppo i lineamenti del figlio, preferisce tenere l'attenzione altrove poiché poi non può mostrarsi debole. Deve essere forte per Simone. E per il suo ragazzo. «Come stai?» chiede, in un sussurro.

A Manuel sfugge una risata sull'orlo dell'isterismo. Non è una domanda a cui può rispondere.

Non è una domanda a cui propriamente c'è una risposta.

Perciò non dice nulla. Si limita a volgere lo sguardo verso l'uomo e schiudere le labbra. Nessuno dei due dice nulla. Restano in silenzio dapprima a guardarsi.

Dopo è Manuel il primo a crollare, per aver trattenuto forse troppo. Scoppia in lacrime e singhiozzi.

Si abbandona tra le braccia di Dante, in una presa affettuosa che sa di casa, che un briciolo rappresenta quella figura paterna che non ha mai avuto - lo ha sempre detto, da quando è divenuto il ragazzo di Simone, che Dante è come un padre.

Lo è davvero, quindi non si stupisce del fatto che si sente sollevato da quel contatto ritrovato, percepisce un velo di conforto, sicurezza e sollievo che aveva smarrito.

Sa che non basta a risolvere le cose, sa che Simone non si sveglierà miracolosamente e d'improvviso, ma almeno può condividere quel dolore con qualcuno.


**


Passano ventitré giorni.

Lunghi, duri, infernali.

Il più delle volte Manuel si addormenta sulle sedie della sala d'attesa. Torna poche volte a casa perché in quel bilocale ci sta male, ogni cosa è troppo da sopportare e gli manca l'aria.

Il fiato gli si smorza a vedere i vestiti nell'armadio, le tele sporche di pittura che Simone ha sistemato in un angolo della camera da letto, i surgelati nel freezer, il computer ancora acceso.

Non vuole vedere niente di tutto ciò.

Si limita ad andare avanti per inerzia. Va al suo lavoro part-time quando ha il turno - fa il cameriere in un ristorante di zona Brera - e dopo torna in ospedale. Ha messo in pausa lo studio perché non ha abbastanza concentrazione per quello.

È il ventitreesimo giorno e lui è appena uscito dal lavoro dopo il servizio del pranzo. Non ricorda neppure dove ha parcheggiato: solitamente per andare a lavoro utilizza la metro, ma gli occorrerebbe troppo tempo tornare a casa, recuperare l'auto e farsi mezz'ora di strada per andare all'ospedale dove è ricoverato Simone. Preferisce partire direttamente da quel luogo e fare prima.

Ha le chiavi in mano e sta ancora cercando il proprio veicolo - una vecchia Peugeot 207 che dovrà essere rottamata a breve - quando gli squilla il cellulare. Lo recupera dalla tasca posteriore dei jeans e risponde senza manco guardare prima chi è che lo sta chiamando. «Pronto?».

«Manuel?». È Dante.

«Vieni subito in ospedale».

Manuel non decifra il suo tono di voce. È piatto, non ha nessuna inclinazione, quindi non riesce a decifrarlo. «È successo qualcosa?» chiede, con leggera agitazione.

«Vieni e basta, ci vediamo lì».

La chiamata viene interrotta prima che possa replicare.

Lui non è mai stato il prototipo di persona ottimista, ragion per cui nemmeno per un momento la propria testa ritiene quella telefonata qualcosa di positivo.

No, anzi: per l'intero tragitto si lascia divorare dall'ansia, le mani gli sudano sul volante, percepisce il cuore battergli in gola e nelle tempie.

Quando raggiunge l'ospedale, corre per le scale per essere al quinto piano nel minor tempo possibile. Nel corridoio, a qualche metro dalla porta della stanza di Simone, nota che lui è l'ultimo ad essere arrivato.

Ci sono già Dante, la sua ritrovata moglie Floriana, Matteo, Giulio e Aureliano.

Sono tutti lì e si maledice per essere l'ultimo.

Si tratta di Simone, non dovrebbe essere lui l'ultimo a sapere le cose. Qualunque esse siano.

«Che succede?» chiede ancor prima di appropinquarsi a loro «Oh, che succede?».

Dante gli va incontro, con le braccia allargate.

Manuel non decifra la sua espressione, non saprebbe dire se sia sollevata o affranta. Forse entrambe le cose.

«Che succede?» ripete, anche quando il professore lo stringe in un abbraccio e lui si ritrova con la guancia schiacciata contro il suo petto. Deve lottare per distaccarsi, cercando di nuovo lo sguardo di chi gli sta davanti. «Professó?» singhiozza.

È solamente allora che Dante dispiega le labbra in un mezzo sorriso. «Si è svegliato» sussurra «Simone si è svegliato».

Delle nuove lacrime solcano le guance di Manuel, per un motivo differente rispetto a quelle che ha versato nei ventitré giorni precedenti. Gli viene da ridere. Poi da piangere.

«Posso - devo vederlo» singhiozza.

Dante annuisce. «Dobbiamo solo aspettare un attimo, ci sono ancora i dottori dentro» spiega «C'era sua madre con lui quando è successo».

Manuel non sa neppure come elaborare la notizia. È probabile che un modo opportuno manco esista.

Non ha intenzione di trovarlo.

Non ha importanza.

Simone è sveglio ed è tutto ciò che per ora conta.


**


Occorrono altri trentaquattro minuti prima che permettano loro di entrare nella stanza di Simone.

Manuel li ha contati tutti.

Lo stesso medico dai capelli brizzolati che li ha ragguagliati in quei giorni infernali spiega loro le condizioni del ragazzo, quel che è successo e quello che faranno da quel momento in poi.

Manuel non ascolta mezza parola. Non gli interessa. Potrà sempre chiedere che gli venga spiegato di nuovo in seguito.

Vuole soltanto varcare la soglia e vedere gli occhi aperti di Simone e poi baciarlo e non lasciarlo andare mai più.

Ha un sorriso stampato in faccia che stona incredibilmente con lo sguardo stanco, le guance incavate e il pallore del viso. Onestamente non gli importa.

Simone non è più collegato a macchinari che lo aiutano a respirare, al suo posto c'è soltanto un sottile tubicino nel suo naso e dei leggeri ticchettii che scandiscono i suoi battiti cardiaci. La sua faccia è martoriata, una cicatrice rossastra gli attraversa l'occhio destro e un'altra si estende dall'angolo esterno della bocca fino al mento. Sono i segni più evidenti oltre gli occhi lividi.

Però non ha importanza.

Manuel a quei particolari non ci bada, anzi, lo trova sempre e comunque bellissimo.

Nella stanza sono entrati lui insieme a Dante e Floriana. Gli amici aspettano fuori.

Manuel è il primo a farsi avanti e i due genitori non osano fermarlo.

Si approccia in maniera lenta quasi stesse camminando su degli specchi rotti.

«Ciao» mormora con un fil di voce. Sta tremando. Si appoggia alla sbarra del letto per mantenersi in piedi. Vuole solo risentire la sua voce, la sua risata e pensare davvero che vada tutto bene.

Solo che quella felicità, quel momento di gioia dura incredibilmente troppo poco.

Va in frantumi nell'attimo in cui dalla bocca di Simone fuoriesce un flebile sussurro, a stento percettibile che recita «Voi chi siete?», accompagnato dalla sua espressione confusa e terrorizzata.

«Amore, che dici? Siamo... Siamo noi» è Floriana la prima ad avere il coraggio di dire qualcosa che purtroppo nemmeno serve. Se per lei, per tutti loro è logico affermare che sono loro, certo che sa chi sono, per Simone è trovarsi al cospetto di tre volti sconosciuti.

Manuel si sente sprofondare. Stringe più forte le dita alla sbarra del letto tanto da farsi sbiancare le nocche.

Vorrebbe parlare, vorrebbe svegliarsi sulle panchine del parcheggio e ricominciare da capo.

Perché in quella realtà non ci vuole stare.

In una dove Simone non sa chi lui sia, dove loro non esistono più.

Dove Simone non ha mai cominciato ad amarlo.











[Note autore:
Comunque ci tengo a dire che non voglio far soffrire sempre il povero Simone, è capitato...]

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