A chilometri di distanza
[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]
Sei anni,
cinque mesi
e tredici giorni prima
Simone pensò di essere arrossito persino sulle orecchie.
Anzi, era molto probabile, tanto che Laura gli aveva chiesto se stesse bene. Si era limitato ad annuire, trattenendo il fiato.
La campanella della ricreazione, per sua fortuna, suonò poco dopo. Attese che tutti i compagni uscissero in corridoio per, letteralmente, braccare Manuel, chiudendo la porta dell'aula prima che l'altro potesse uscire.
Manuel se lo trovò davanti. Sobbalzò appena, ma un sorriso gli venne fuori sulle labbra. «Vedi che stamo a scola, non se pò fà niente» fu il suo commento, accompagnato da una lieve risata. Simone si limitò a fissarlo con gli occhi spalancati e il respiro corto. «Per questo mi hai mandato quella foto?» sbottò.
«Che foto?» l'altro fece finta di niente. In realtà lo sapeva benissimo a quale foto si stesse riferendo, dato che l'aveva scattata la sera prima. Aveva in mente di inoltrarla subito, poi era finito per addormentarsi sul divano e aveva rimandato.
«Come che foto!» Simone si ritrovò ad urlare e finse un colpo di tosse per tornare ad avere un tono di voce normale. Si guardò attorno, per accertarsi non ci fosse nessuno nei paraggi – ovviamente non c'era nessuno, aveva chiuso la porta e ci si era piazzato davanti per impedire a chiunque di aprirla. «Quella foto» specifica «Quella del tuo... Del tuo – coso!».
A Manuel venne da ridere. «Del mio coso?» commentò «Cioè, stiamo insieme da sei mesi e lo chiami ancora coso?».
Simone alzò gli occhi al cielo. Non seppe se sentirsi più mortificato o arrabbiato. O felice. Insomma, se mai fosse stato possibile. Manuel lo guardò di sottecchi. «Se te dà fastidio, non te ne mando più» fece presente.
«Me l'hai mandato durante latino».
«Sì, beh, era piuttosto noioso».
«Manuel...».
«Eddaje, me andava de mandartela» sbuffò Manuel. Non era davvero irritato, sebbene si sforzasse di dare tale impressione. «Te devo avvisà prima?».
«No» mugolò Simone e abbassò lo sguardo «E poi se qualcuno l'avesse vista?».
«L'idea è che la vedi solo tu, funziona così».
«E se qualcuno m'apre la galleria?».
A Manuel sfuggì una risata. «Te devi fà l'album privato» spiegò in breve.
«Che?».
«L'album privato in galleria e ce metti la password».
Simone lo fissò ancora per un istante, perplesso. Manuel si passò una mano sul viso: sì, aveva un ragazzo un po' cretino. «Non hai mai fatto l'album privato co' e foto zozze?» lo sbeffeggiò – con ilarità, perché poi gli faceva persino tenerezza da un lato.
L'altro scosse il capo e abbassò lo sguardo.
«C'ho er ragazzo che è un angioletto sceso in terra» ridacchiò Manuel «Eppure l'altro giorno non sembrava che...».
«Perché, tu hai l'album privato?».
«Certo che c'ho l'album privato, se chiama Simone».
«Col nome mio?».
«Col nome tuo, ce stanno foto tue, che nome dovevo mette?» si lascia andare ad un lungo sospiro «Mo ce metto l'emoji dell'angelo, ce sta mejo».
Simone gli lanciò un'occhiata di rimprovero, ma Manuel a stento se ne accorse: mantenne il sorriso sulle labbra, le stesse che si posarono lievi su quelle del compagno per un bacio fugace.
«Seh, ce sta popo bene l'angioletto» sussurrò.
«Fanculo».
«Attento a come parli» lo sbeffeggiò ancora «E ricordate de mette la password».
**
Quella casa gli sembra estranea.
Come tutto, del resto.
Ogni persona che ha intorno ha un volto che non riconosce, inclusi i propri genitori.
Ed è strano.
Strano e assurdo.
Quella casa, poi, pare tutto eccetto casa.
Se ne sta seduto al tavolo con una tazza di caffellatte davanti, fumante e piena di zucchero. Gliel'ha preparata sua madre per colazione, ma lui non l'ha toccata, né quella né i croissant alla marmellata di albicocca che sono sistemati sulla superficie piana. Che gli fa pure schifo la marmellata di albicocca.
Simone è da una settimana a Roma e non si è mai sentito più fuori posto.
«Amore, non hai toccato niente» è Floriana a parlare, mentre siede anche lei a tavola, versandosi del caffè in una tazza «Vuoi che ti preparo qualcos'altro? Un tè?».
Simone tiene il capo basso. Vorrebbe dirle che apprezza molto il suo essere gentile, anche se tutto quello zucchero nel latte non gli piace. Solo che non vuole risultare troppo scortese, quindi si limita a sussurrare: «No, grazie. Non ho - molta fame».
«Sicuro?».
«Sì, io...» sospira e fa una breve pausa «Vado a stendermi, io... Mi gira un po' la testa».
Non aggiunge altro. Si alza dal tavolo, abbozzando un sorriso di circostanza, intanto che abbandona la cucina. La sua andatura è piuttosto lenta, trascina i piedi sul pavimento.
Quella casa è decisamente più grande rispetto all'appartamento di Milano: è su due piani, una villetta indipendente con addirittura il porticato e la sua camera da letto si trova al piano superiore. È lì che è diretto in tal momento. Ha salito un solo gradino quando una voce lo ferma: «Simone?».
In un primo attimo pensa sia ancora Floriana che lo richiama per proporgli qualcos'altro per colazione. Tuttavia, quando si volta, davanti alla porta di ingresso vede un'altra persona: è una ragazza, non molto alta, con lunghi capelli castani e la frangetta; sui due lati, dalle tempie, fuoriescono due ciocche biondo chiaro.
Simone non sa come abbia fatto ad entrare, forse Dante gli ha aperto la porta o c'è un altro accesso di cui non è a conoscenza.
Non ne ha idea, ma non si pone ulteriori domande.
Ovviamente non riconosce il suo viso e lei ne è consapevole, difatti gli sorride e «Lo so che non ti ricordi di me, tranquillo» dice «Manuel me l'ha raccontato che è successo».
Simone aggrotta le sopracciglia. Lascia perdere le scale e barcolla nella sua direzione, stringendosi nelle spalle.
«Sono Chicca» esclama la ragazza. Non ha levato il sorriso.
Simone lo trova piuttosto rassicurante. Gli passa per la testa l'idea di presentarsi, ma sarebbe piuttosto inutile. E stupido.
Si ferma proprio davanti a lei. «Noi come...» bofonchia «Come ci conosciamo?».
«Andavamo a scuola insieme» replica Chicca «Poi ci siamo un po' persi di vista, ma siamo rimasti comunque in contatto».
«Oh» sospira Simone «Sono - passati altri... Vecchi compagni, ma se pure tu vuoi raccontarmi cose del liceo e pretendere che mi torni in mente qualcosa, io non ti faccio perdere tempo e...».
«No, non so' venuta per questo» ridacchia lei «Poi il liceo è stato pure un periodo de merda, l'ultima cosa che voglio è ricordà i vecchi tempi».
«Allora perché sei qui?».
«Perché sei mio amico» è la prima risposta che fornisce la ragazza. Poi traffica nella borsa, ne tira fuori un quaderno dalla copertina morbida e opaca, spesso e con post-it di colori fosforescenti che fuoriescono dai bordi. «E poi t'ho portato questo» esclama e gli porge l'oggetto.
Simone esita nell'afferrarlo. Si limita a scrutare dapprima il quaderno, in seguito il volto della ragazza che ancora gli sorride con fare speranzoso. «Cos'è?» biascica.
«Qualcosa che mi hai chiesto di fare qualche mese fa». Chicca tiene ancora a mezz'aria il quaderno, che Simone prende tra le dita qualche secondo dopo. La ragazza gli fa un cenno col capo verso il divano a tre posti ricoperto da un telo beige, sul quale si accomodano uno accanto all'altro.
Simone soppesa ancora l'oggetto. Con timore ne sfiora la copertina che risulta leggermente ruvida sotto ai polpastrelli. Lo sfoglia in maniera lenta, notando come le pagine siano riempite da disegni di silhouette di due ragazzi e parole ad accompagnarle.
«Cosa sono?» sussurra.
«Sono - tutte poesie che Manuel ha scritto per te» spiega Chicca «Mi hai chiesto di metterle su carta e provare a illustrarle. Ho fatto un po' in digitale e un po' a matita così da scegliere quel che preferisci. Non è ancora finito perché poi - beh, non m'hai più risposto».
Simone si ritrova a trattenere il fiato, mentre continua a girare tali pagine perfettamente disegnate da forme e frasi che non ha mai letto prima - non nella sua nuova vita, perlomeno.
Quelle parole sono belle, lasciano trasparire amore, devozione, tutti sentimenti che non sa come metabolizzare. «Perché me lo stai dando adesso?» gli viene spontaneo chiedere.
«Beh, come t'ho già detto, perché so cosa è successo, sia l'incidente sia quel che è accaduto l'altro giorno co' Manuel».
«Intendi quando mi ha lasciato solo in mezzo ad un parcheggio?».
A Chicca sfugge una risata del tutto priva d'entusiasmo. «Manuel ne fa de cazzate» commenta «Però sta a pezzi, davvero. Quello che state passando è qualcosa di davvero tanto difficile pe' lui».
«Per lui?» obietta Simone e poggia il quaderno aperto sulle proprie cosce «Io so il mio nome perché delle persone che non riconosco me l'hanno detto ed è - difficile per lui?».
«Per entrambi, Simò» Chicca insiste e sospira sommessamente. «V'è capitata 'na cosa orribile» prosegue «E mò dovete rimettere insieme i pezzi».
«Non capisco per quale motivo tu...».
«Ti ha chiamato in sti giorni e non hai mai risposto».
«Questo non...».
«Sei arrabbiato con lui per come ti ha trattato, ma non ti sei mai soffermato sul fatto che...». Chicca smette di nuovo di parlare, soltanto per un attimo. Lancia un'occhiata al quaderno aperto, su una poesia in particolare, quella che recita:
M'adagio al tuo fianco
Sotto il cielo stellato
Mentre mi prendi la mano
E m'accorgo adesso d'aver iniziato
A respirare
«Quando guardi Manuel, forse tu non vedi niente» sussurra Chicca «Ma quando lui guarda te, vede tutto il suo mondo che è andato a pezzi».
Simone si sofferma sulle sue parole, probabilmente perché non ha mai pensato a quel che l'altro ragazzo possa aver provato in quelle settimane. Non l'ha fatto di proposito. È che non si è mai concentrato su ciò che non fosse la propria memoria difettosa.
«Che dovrei fare?» chiede, in un sussurro. La domanda la pone con occhi spalancati e lucidi, osservando Chicca e desiderando da lei una risposta che possa tener a bada il magone che gli opprime il petto.
«Non posso mica dirtelo io, Simò» replica la ragazza, smorzando una risata «Ma magari trovi la risposta in quel quaderno».
**
Un anno,
quattro mesi
e diciotto giorni prima
Simone venne svegliato dai raggi del sole che filtravano timidamente dalla finestra - eppure si ricordava di averle chiuse le tende, forse non troppo bene. Tentò di girarsi dall'altra parte per poter dormire ancora cinque minuti, ma senza successo. Gli bastò sollevare una sola palpebra per vedere Manuel in piedi accanto al letto, con un vassoio in mano con sopra due tazzine di caffè, fette biscottate, marmellata all'albicocca e due brioche Pandistelle.
Non sbuffò più, allora, anzi: un sorriso gli si dipinse volto alla visione dell'altro ragazzo con addosso soltanto i boxer e una canotta da basket che gli stava pure grande. «Buongiorno» biascicò, tirandosi su a sedere sul materasso. «Buongiorno» replicò Manuel. Con ancora il vassoio in equilibrio sui palmi aperti, si sporse verso il compagno per reclamare un bacio a stampo senza il quale non riusciva ad iniziare la giornata - il che era un briciolo melenso, ma da quando stava con Simone lo era diventato; alcuni avrebbero detto fin troppo, però della loro opinione non gliene fregava poi molto.
Soltanto allora Manuel posò il vassoio sul comodino, sebbene ci stesse a stento e prese posto seduto accanto all'altro ragazzo, in quel letto ad una piazza e mezza troppo piccolo per loro due - ma se lo facevano bastare. «Ho quasi beccato tu' padre de là» disse, mentre recuperava una fetta biscottata e ne addentava un boccone.
«Beh, tanto ti vede sempre qua» ridacchiò Simone «Si preoccupa il giorno che non ti vede».
«Sì, lo so» replicò Manuel, masticando «E nun me dà fastidio, anzi, però potremmo pure prende qualcosa de nostro».
In un primo momento, a Simone non parve di aver capito bene. Aveva passato fin troppo tempo, in precedenza, ad illudersi delle cose che quella volta ebbe bisogno di assimilare e metabolizzare meglio la sua frase. Quindi chiese: «Che intendi?».
Manuel scrollò le spalle. «Beh, tra poco te ne devi annà a Milano» spiegò «Pensavo de venì co' te. Ci prendiamo un appartamento. Piccolo, eh, che i prezzi de Milano me fanno venì voglia de buttamme nel Tevere».
Fece tutto quel discorso senza guardare in faccia Simone, forse perché se avesse avuto davanti i suoi due grandi occhi scuri a scrutarlo così da vicino, non avrebbe spiccicato parola.
E Simone, d'altra parte, si sentì morire perché sì, aveva capito fin troppo bene. Deglutì rumorosamente. «Mi stai chiedendo di diventare coinquilini?» incespicò.
Manuel alzò gli occhi al cielo. In quell'attimo ebbe il coraggio di guardarlo in viso. «De vive insieme, Simó» esclamò «Te sto chiedendo de anná a vivere insieme».
«E me lo chiedi così?».
«Beh, che voi? Una lettera su carta intestata?».
«No».
«Quindi? Ce voi venì o no?».
Il cuore di Simone cominciò a battere all'impazzata. Se solo ripensasse a quel ragazzino di sedici anni che andava dietro al - parole sue - più bello, stronzo e etero di tutta la scuola - gli verrebbe voglia di abbracciarlo, dicendogli che tutto sarebbe andato bene perché il più etero di tutta la scuola cinque anni dopo gli avrebbe chiesto di vivere insieme.
Gli venne quasi da piangere.
Quasi.
«Sei pazzo» disse, con il sorriso che si apriva sulle sue labbra «Ma come fai con - cioè lasci Roma? E tua madre e...». Le sue parole vennero interrotte da Manuel che posò, delicatamente, una mano sulla sua guancia. «Mi madre sa già tutto» ribatté «E non vede l'ora de sbatterme fuori de casa, tra parentesi. E Roma - Roma non è un problema».
«In che senso?».
«Nel senso che pó esse Roma, Milano, Venezia o Reggio Calabria. Non me interessa. Perché per me casa è dove stai tu».
Simone si sentì morire di nuovo. Non era nemmeno la prima volta che il compagno si lanciava in simili dichiarazioni, eppure quando capitava, lui faticava sempre a reagire e a controllare le proprie emozioni. Difatti, nonostante gli sforzi, le lacrime sopraggiunsero. Si ritrovò a ridere e piangere al contempo, se mai fosse possibile.
«Sto ancora aspettando una risposta, comunque» fece notare Manuel.
Simone lo attirò a sé, tirandolo dalla canotta da basket che indossava. Lo bació lievemente sulle labbra e «Sì» sussurrò «Sì, ce vojo venì».
Manuel sorrise, ancora sulla sua bocca e sospirò di sollievo poiché ad un rifiuto non si era preparato. «Mo me dovrai sopportà ventiquattro ore al giorno» commentò «Só cazzi tua».
«Basta che vai tu a fà la spesa».
«Ce vai tu a fà la spesa».
«No».
«Sì».
«Sì, invece».
Risero entrambi frattanto che i baci ricominciavano e, quella mattina, nessuno dei due fece davvero colazione. Non subito, perlomeno.
**
«Sì, mà, ho mangiato, sta tranquilla. Mò sto tornando a casa. No, in metro, non la sto prendendo la macchina».
Manuel è al telefono con la madre Anita, mentre tenta di aprire la porta di casa. Mantiene il cellulare in equilibrio tra l'orecchio e la spalla.
Sta blaterando qualcosa, una serie di raccomandazioni alla donna su come trattare la motocicletta che le ha lasciato a Roma, quando si accorge che la serratura non ha più i tre usuali scatti che dà quando viene chiusa e che si apre con uno solo.
È stranito da tale avvenimento perché è sicuro di aver dato tutti e tre gli scatti quella mattina. «Mà, te posso richiamà più tardi? Devo fa' na mezza cosa, okay? Seh, cià, cià».
In un primo momento pensa ai ladri, ma si dà mentalmente dello stupido poiché i ladri mica aprono in maniera delicata la serratura, l'avrebbero spaccata o fatto qualche danno.
Cerca di varcare la soglia di ingresso nella maniera meno rumorosa possibile, chiudendosi la stessa porta alle spalle. Nota che la luce è accesa soltanto in camera da letto - che poi ci sarebbe l'unica cosa di valore che potrebbe essere rubata, il computer. Altro per guadagnarci in quell'appartamento non c'è.
Più razionalmente pensa che potrebbero essere Aureliano e Giulio a cui ha dato una copia delle chiavi di casa per ogni evenienza e non sarebbe la prima volta che si presentano nell'appartamento senza preavviso.
Trascina i piedi sul pavimento, stanco, perché di passare un'altra serata con loro che lo costringono a stare davanti ad un videogioco per distrarsi non ne ha voglia quindi è già pronto a dir loro di andarsene, se non fosse che...
Che nella stanza non ci sono loro.
Manuel rimane immobile sulla soglia della porta della camera da letto. Vede Simone di spalle intento a sistemare un filo - uno di spago, a quanto pare - al quale sono attaccati dei fogli simili a cartoline; questi fili sono sistemati come festoni alle pareti di tutta la stanza, sopra al letto sfatto, davanti alla finestra, sono ovunque. C'è scritto qualcosa su di essi, ma non riesce a leggerli.
Manuel non sa cosa dire, non gli esce fuori mezza parola di bocca. Il cuore gli batte forte nel petto, tanto da rischiare di esplodergli. «Simó?» riesce soltanto a soffocare.
Forse sta sognando e non se ne rende conto. Rimane convinto di star dormendo ancora in metro. Torna alla realtà quando Simone si volta e nota le cicatrici sul suo viso.
Non è un sogno perché, quando sogna, le cicatrici non ci sono mai.
Simone tenta di sorridere. Gli riesce difficile, considerando che il taglio sul labbro gli impedisce di farlo correttamente, quindi il suo sorriso è sempre a metà. «Ciao» dice. Anche il suo, di cuore, sta accelerando i battiti.
«Ciao» replica Manuel. Ancora non si muove, ma osserva meglio i fogli appesi che spiccano nella stanza.
«Sono poesie» esclama Simone, senza che la domanda gli venga posta «Le tue poesie».
Manuel vorrebbe chiedergli come le ha avute, come le ha trovate, come sa che son sue e una serie infinita di altri quesiti che gli frullano nella testa. Fa mezzo passo avanti. «Quando...» mormora «Come hai fatto a...».
«Mi ha aiutato Chicca» spiega Simone e, paradossalmente, dà la risposta ad ogni cosa. «Cioè, io... Le chiavi di qui le avevo, lei mi ha - aiutato a fare i biglietti del treno e a convincere i miei a farmi partire. Non erano molto propensi, comunque, ma lei sa essere molto convincente».
A Manuel sfugge una risata. Ha ben presente come Chicca sa essere convincente in qualunque discussione. «E questo, invece?» chiede, facendo un cenno col capo ai fogli appesi.
«Sempre Chicca» Simone prosegue «Gliele aveva mandate... Io. Prima. E lei le ha illustrate. È molto brava, meglio delle mie tele».
«E cosa vuol dire?».
È Simone, ora, a compiere un passo verso l'altro ragazzo. Lo fa in maniera estremamente lenta quasi avesse paura ad avvicinarsi troppo. «Quando mia madre mi ha detto che mi avrebbe riportato a Roma, non c'ho pensato mezzo secondo a dire di no. Ho pensato fosse la cosa più giusta e che - forse là sarei stato meglio, avrei ritrovato una parte di me, mi sarei riconosciuto in qualcosa. Però non è stato così». Fa una breve pausa, sbattendo rapido le palpebre. I suoi occhi si sono fatti appena lucidi.
«Non mi sentivo davvero a casa» va avanti «Poi Chicca mi ha portato questo quaderno con tutte ste poesie e... Non lo so, è scattato qualcosa. Non so dirti cosa, io - manco lo so spiegare. Il punto è che ho realizzato che... Forse a casa mi ci sento solo se ci sei tu nei paraggi».
Manuel non ha idea di come reagire. Forse un modo più opportuno non esiste, anche perché è probabile dovrà scontrarsi di nuovo con Floriana o con Dante o con chissà chi. Per il momento, comunque, non importa poiché ha Simone davanti, nel loro appartamento quando pensava non sarebbe più successo.
«Quel che ho detto al parcheggio» aggiunge Simone «Che non sono lui» fa una breve pausa, grattandosi distrattamente dietro l'orecchio sinistro «Nel senso che - molte cose che mi raccontate di come era... Di com'ero prima, io non... Non mi ci sento così. E non so se potrò mai esserlo e se questo ti andrà mai bene. Però se ti va possiamo - provarci a far funzionare le cose».
Manuel rimane in silenzio per un attimo. La discussione al parcheggio non l'ha dimenticata, quel riferirsi perennemente al Simone di prima con un lui come se si trattasse un'altra persona gli viene difficile da comprendere e lo rende piuttosto...
Triste.
Non sa se triste sia la definizione più corretta, ma forse quella più appropriata.
«Ci possiamo provare» afferma, in un sussurro. Un sorriso si dipinge sulle sue labbra, felice e malinconico al contempo. «Mi dispiace» biascica dopo «Per averti lasciato solo al parcheggio quel giorno».
«Non - non fa niente».
Non è vero che non fa niente. Fa tutto e questo lo sanno entrambi, però risulta quasi meglio lasciarsi scivolare addosso scuse e accettarle che discuterne ancora. Può essere un giusto compromesso per evitare di provocarsi nuove ferite che nessuno dei due sarebbe in grado di sopportare.
«Ho messo a cucinare della pasta» esclama poi Simone, preferendo cambiare completamente argomento «È quella surgelata, io – il freezer è pieno di pasta surgelata».
A Manuel sfugge una risata. Si passa una mano sul viso. Accetta quella fine forzata al loro dialogo, col petto che gli trema ancora. «Sì, lo so» biascica e vorrebbe dire che è per colpa sua, ma si trattiene.
Per il momento non ha importanza.
Importa solo che Simone sia tornato a casa.
**
Il caldo, quella notte, è soffocante.
Manuel non sa se è perché le temperature si sono nuovamente alzate sebbene siano in autunno o è soltanto lui che sta soffocando in quel momento.
Non riesce a dormire. È agitato e percepisce il battito del proprio cuore vibrare nelle orecchie in un rumore fastidioso che non può, ovviamente, fermare. Volta appena il capo, quel che basta a scorgere Simone che dorme accanto a sé, raggomitolato su un fianco, dandogli le spalle. Pare tranquillo e immerso nel sonno, non ha problemi col clima attorno.
Sono tornati a condividere lo stesso letto per accordi comuni – principalmente Simone si è impuntato sostenendo che su quel divano ti spezzi la schiena e Manuel ha accettato senza opporre alcuna resistenza.
Col senno di poi, avrebbe dovuto.
Perché è difficile stare così vicino a Simone, eppure così lontano.
Pensa sia la cosa più complicata e dolorosa che abbia mai affrontato. Dormire uno accanto all'altro lo ha considerato un piccolo e minuscolo traguardo, il punto è che gli fa fisicamente male non poter toccare Simone, non poterlo baciare o abbracciare. Non lo fa poiché non ha idea di come l'altro possa reagire e ha paura di ogni possibile reazione.
Ha paura del suo rifiuto oppure che gli conceda di spingersi oltre e che non sia lo stesso. Non più.
Guarda l'ora sullo schermo del cellulare abbandonato sul comodino. Sono le due e mezza di notte quando decide che non ce la fa più, che deve per forza alzarsi e abbandonare quel letto. Cerca di fare il più piano possibile, per non scuotere troppo il materasso e non svegliare l'altro.
Trascina i piedi nudi sulle mattonelle che paiono bollenti a contatto con la pelle e abbandona la stanza, socchiudendo la porta. Si butta sui cuscini del divano, lasciandosi cadere di peso. Si sente esausto e non è per la mancanza del sonno.
Sta per minuti interi a fissare il soffitto, a fare assolutamente niente aspettando che il proprio corpo si calmi e lo lasci in pace, che lo faccia addormentare - per sfinimento quantomeno.
Tutto ciò non accade, anzi.
Il contrario.
Forse è puro istinto quello che lo conduce a prendere in mano il telefono che si è portato dietro. Apre i vari social network, in maniera distratta e non prestando troppa attenzione alle immagini di vita perfetta degli altri che gli scorrono davanti.
L'ultima foto che ha pubblicato lui sul proprio profilo Instagram risale a tre giorni prima dell'incidente: è uno scatto che ritrae Simone con gli occhi socchiusi e con addosso il grembiule scuro che gli ha regalato in precedenza.
Di solito le foto di Simone da solo non le pubblica mai. Raramente fa una eccezione.
Non saprebbe spiegarne il motivo, ma è come se inconsciamente volesse che alcuni scatti dell'altro ragazzo siano solo per sé e per nessun altro, come un tesoro prezioso da custodire.
È probabile sia a causa della visione di tale foto che Instagram lo chiude e apre la galleria. Lo fa in maniera automatica, di riflesso e non ci pensa quando apre l'album rinominato con una emoticon a forma di angelo e inserisce il codice a cinque cifre per sbloccarne il contenuto.
Sono settimane che non compie quel gesto, che quell'album segreto all'interno del proprio cellulare non lo apre perché provoca nuove ferite farlo.
Eppure in quel momento le foto in esso racchiuse le osserva ed è come vederle per la prima volta - e sono foto ben diverse da come ha immaginato fossero al momento della creazione dell'album.
Ci sono scatti rubati a Simone - misti a video - dove compie le azioni quotidiane come lavarsi i denti o infilarsi una maglietta, altri dove dorme, a volte appoggiandogli la testa sulla spalla o sul petto.
Un sorriso gli si delinea sulle labbra. Lo fa in maniera spontanea.
Si ritrova con delle calde lacrime che gli rigano le guance, frattanto che sul piccolo schermo appare un video di loro due in montagna, sotto la neve, mentre semplicemente camminano dapprima uno accanto all'altro, dopo Simone lo abbraccia da dietro, ponendogli le braccia attorno al busto e finiscono per capitombolare a terra nel manto bianco.
Ride e piange insieme.
Non sa se sia possibile provare angoscia, felicità e malinconia al medesimo tempo, ma è ciò che percepisce al centro del petto.
Comincia un altro video: stavolta l'inquadratura comprende soltanto Simone; il suo viso è poco illuminato e ha gli occhi assonnati e "Mi stai facendo un video?" biascica "Dai, sei uno stronzo, sono orribile", alza una mano per tentare di coprirsi e si intravede un braccio di Manuel che gliela scansa con delicatezza. Sopraggiunge anche la voce di quest'ultimo che prima ridacchia, dopo dice "Dimmelo di nuovo".
"Che?" replica Simone e si ode ancora Manuel ridere, poi torna serio e "Quello di prima, devo immortalare il momento". Nei frame che scorrono, Simone esita ancora. Guarda oltre l'obiettivo perché i suoi occhi sono concentrati sul volto di chi riprende. "Che ti amo" sussurra, piano.
"E poi?".
"Che ti sposo".
Si sente Manuel sospirare e "Tutto questo per un delirio da febbre, ma ci accontentiamo". Simone scuote il capo. "Non è febbre" biascica, in modo a stento comprensibile "Sono serio".
"Seh? Me sposi?".
"Ti sposo".
"Poi me devi sopportà tutta la vita".
"Farò questo sacrificio".
Nella realtà, fuori dallo schermo, il viso di Manuel risulta completamente bagnato dalle lacrime ed è strano perché non è solito piangere, evita di farlo per quanto gli sia possibile. Però non riesce a trattenersi. Non può e forse nemmeno vuole. Non più.
Manda indietro il video, lo fa ripartire da capo, concentrandosi sui lineamenti del volto del compagno, sul suo sorriso stanco, ma al contempo splendente, con quel piccolo spazio tra gli incisivi, sul suo sguardo colmo d'amore nei propri confronti e si inebria del modo in cui mormora che lo ama e che, addirittura, lo vuole sposare. Ricorda che quando ha registrato quel video, scoppiava di felicità e incredulità perché un conto è stare insieme, un altro è prometterselo a vita. E lui non ha mai considerato di valere così tanto, di valere un per sempre.
Torna indietro di nuovo nella barra di riproduzione. Lo fa per due, tre, cinque volte, allo stesso punto per farsi entrare nelle orecchie ancora quel ti amo, ancora quel ti sposo.
Che ti amo.
Che ti sposo.
Che ti amo.
Che ti sposo.
Che ti...
«Manuel?».
Manuel sussulta quando la voce di Simone risulta incredibilmente più vicina e non un eco in fondo ad un telefono. Gli è sufficiente spostare di poco lo sguardo per notare la presenza del compagno in piedi sulla soglia della porta.
Preme pausa al video in riproduzione e si passa una mano sul viso, spossato. «Ti ho svegliato?» domanda, per quanto possa essere ovvia la risposta.
Tuttavia, Simone non replica a ciò, si limita a muovere qualche passo, lento, e gli siede accanto sul divano. I suoi occhi ricadono sullo schermo del cellulare che l'altro tiene ancora in mano. «Che stavi facendo?» chiede.
«Niente, io...».
«Posso?».
In un primo momento, Manuel vorrebbe dirgli che non è una buona idea, che forse non è pronto a vedere quelle immagini, che devono andare per gradi, che per quanto sia felice che sia di nuovo a casa, non è più lo stesso e adesso non sa che fare. Però poi prevale un aspetto appena più egoista, che lo spinge a credere che guardare quei video e quelle foto possa farlo tornare indietro, ridargli i suoi ricordi. È in maniera arrendevole che gli passa il telefono.
Simone lo afferra e lo tiene in equilibrio tra le dita. È lo stesso video di meno di un minuto a partire.
Durante la riproduzione, si sente esattamente come quando in ospedale ha ammirato le foto sul proprio telefono: vuoto, assente, nonostante tutto l'amore che proviene dallo schermo.
Non ha ancora capito quali sentimenti nutre nei confronti di Manuel: sa che lui, quello di prima, lo amava in modo viscerale e incondizionato e veniva ricambiato sotto ogni aspetto, come si nota in quel video.
Ma il Simone di adesso, quello del dopo...
Non sa cosa prova. Sa che è presente dell'affetto, della compassione e che desidera vedere l'altro ragazzo felice.
Perché in tutti i racconti degli amici è così che viene descritto Manuel: felice e allegro, nonostante le avversità, mentre ora pare il fantasma di ciò che è sempre stato.
«Ti manca?» mormora. Tiene ancora per un attimo lo sguardo sul telefono, prima di spostarlo sul viso del compagno. «Lui».
«Mi mancherà sempre» confessa Manuel. Si pente un briciolo dopo aver pronunciato una frase simile, che è al pari di ammettere che un lui di prima esiste per davvero, come quella volta al parcheggio. Si morde il labbro inferiore, scuote il capo e riprende il telefono dalle mani dell'altro, premendo il tasto di blocco.
Simone si limita ad osservarlo, con un peso che comincia ad opprimergli il petto e nuove sensazioni che non decifra. Nota come Manuel sia evidentemente teso, come stringe i pugni e contrae la mandibola. Si concentra sul suo profilo, sul modo in cui sta evitando il proprio sguardo per quanto possibile.
Allunga una mano, in modo estremamente lento. Con la punta delle dita va a sfiorare il mento dell'altro ragazzo, lo tira appena per farlo voltare.
Manuel pensa di poter morire in quel preciso istante per tale minuscolo contatto, poiché non accade da settimane che Simone lo sfiori. Socchiude le palpebre e si lascia andare ad un sospiro sommesso.
Sono nella penombra. L'unica fonte di luce è quella che filtra dalla piccola finestra di quella stanza, dal lampione per strada che colora ogni cosa di un tenue arancione.
Con un leggero timore, Simone si sporge nella direzione del compagno. Ha gli occhi ben aperti quando poggia le labbra sulle sue, in un bacio asciutto e incerto. Manuel quasi non ci crede che stia compiendo un atto simile, tanto che gli manca il respiro. «Simo...» fa in tempo a mormorare nel breve istante in cui l'altro si distacca, ma è un intervallo brevissimo poiché segue un nuovo bacio, stavolta più spinto, aggressivo e sconclusionato. Simone usa troppa foga, troppa frenesia, troppo tutto, tanto da aggrapparsi alla t-shirt bianca che Manuel indossa e strattonarla. È quest'ultimo che tenta di fermarlo, allora: afferra entrambi i suoi polsi, stringe appena la presa su di essi; deve usare un briciolo di forza per staccarlo di qualche centimetro.
Simone prova di nuovo ad avvicinarsi, ma invano: viene frenato senza poter raggiungere le sue labbra. Gli sfugge uno sbuffo. «Perché?» mugola «Non vuoi questo?».
A Manuel viene da ridere, con isterismo. «Sì» esclama e scuote il capo «Ma non così».
Non specifica cosa significa quel così. Si limita a rilasciare la morsa in cui ha racchiuso i suoi polsi e a spostare una mano sul suo viso. Con un pollice gli sfiora lo zigomo.
«Non così» ripete, a bassa voce, che vuol dire non così mentre sono a pezzi – perché è già successo che si sia lasciato andare in quel modo senza alcun controllo e tra di loro, all'epoca, non è finita bene – e non così mentre non sei tu.
Un briciolo gli manca il fiato quando interrompe ogni contatto tra loro. Si rimette in piedi lentamente e «Vai a dormì, Simó, è meglio» esclama.
Simone non fa in tempo a replicare con qualcosa - qualunque cosa - che Manuel ha già abbandonato la stanza.
Una porta viene sbattuta e chiusa a chiave. Simone ne sente il rumore, presume sia quella del bagno.
Gli passa per la testa l'idea di seguirlo, di piazzarsi davanti a quella porta e bussare fino a farlo uscire o rimanere lì ad oltranza.
Tuttavia, non fa nulla di tutto ciò.
Rimane seduto sul divano dai cuscini scomodi, con i pugni chiusi così forte da conficcarsi le unghie nei palmi e lo sguardo fisso in un punto vuoto.
**
Simone è solo quella mattina.
Capita spesso che lo resti, specialmente quando Manuel va a lavorare ed ha raddoppiato i turni con la scusa delle bollette troppo alte.
Lo sa che, in parte, sta mentendo ed è una buona ragione per stargli lontano.
Cerca di non badarci troppo, di ritenerlo un momento e, come gli ha suggerito Chicca, di concedergli spazio per assimilare le cose, elaborare la situazione ed abituarcisi.
Anche se sono trascorse settimane e nulla è cambiato, eccetto il fatto che lo sente sempre più distante.
Le cose non stanno proprio funzionando.
Simone sta seduto sul divano del minuscolo salotto, con la tv accesa. Le immagini scorrono sullo schermo: c'è un programma di cucina che non sta davvero seguendo, anche perché lui non è bravo a cucinare. Per niente.
È distratto, assente quando qualcuno suona al campanello.
Aggrotta le sopracciglia e non pensa sia Manuel dal momento che ha le chiavi ed è comunque troppo presto per un suo ritorno. Ad ogni modo, chiunque ci sia dall'altra parte non ha intenzione di arrendersi e, anzi, bussa pure. Simone deve arrendersi, alzarsi e trascinare i piedi fino all'ingresso per aprire la porta con uno scatto.
Davanti si ritrova un ragazzo biondo, con espressione afflitta sul volto che lo fissa come se fosse al cospetto di un fantasma. Ricorda di averlo visto in ospedale, la persona che ha discusso con Manuel il giorno in cui guardavano le foto. Rimembra i tratti del volto, ma non il nome.
«Ciao, Simó».
Simone lo fissa con aria interrogativa e accidenti non lo fa di proposito a scordare i nomi, la colpa è della sua memoria che ha definito pari a quella di un pesce rosso.
«Matteo» si presenta - per forza - il ragazzo.
Matteo, deve ripetersi Simone mentalmente, per cercare di imprimerselo nella testa. Annuisce e «Matteo» dice pure ad alta voce.
Matteo sforza un sorriso privo di entusiasmo. «Sei solo?» chiede e appura dal cenno di assenso col capo dell'altro che in casa non c'è nessuno. «Posso entrare?» aggiunge allora.
Simone esita per un istante, prima di scostarsi dalla porta e permettergli di varcare la soglia.
Matteo si guarda attorno. Nell'appartamento non ci è mai stato e a lui la copia delle chiavi non l'hanno fatta. Non che se lo aspettasse considerando che Manuel non gli parla e Aureliano e Giulio lo fanno a monosillabi. Risulta un briciolo masochista ad essere andato lì con la probabile ipotesi di trovare Manuel e il suo pugno dritto in faccia.
«Manuel non c'è quindi?» chiede, giusto per esserne certo.
Simone si è chiuso la porta alle spalle. Abbassa e solleva lo sguardo. «No, è a lavoro» replica.
«E tu che fai quando Manuel è a lavoro?».
«Aspetto che torni».
Sulle labbra di Matteo spunta un sorriso genuino e sincero. Lui è stato uno degli ultimi ad accettare la loro relazione nel gruppo di amici – non che ci fosse effettivamente bisogno che lo accettasse, considerando che la vita non è la sua, ma tra tutti è forse quello con la mentalità più chiusa e convinzioni più difficili da abbattere, passando anni a costruire muri attorno che pian piano si sono smantellati. E perché, principalmente, al liceo era un coglione – senza usare troppi giri di parole.
Ma ora è diverso e Matteo quasi lo invidia il loro rapporto.
«Uhm, vuoi – qualcosa?» farfuglia Simone «Tipo un caffè? Un tè?».
«Un caffè va benissimo».
Si spostano in cucina. Simone fatica a ricordare dove sono esattamente le cose, per cui apre tre sportelli dei mobili prima di riuscire a recuperare la caffettiera e preparare la bevanda.
Nel frattempo, Matteo prende posto al tavolo quadrato, con le spalle appoggiate al muro. Osserva l'altro ragazzo versare l'acqua nella parte inferiore della moka e poi riempirla, spargendo la polvere del caffè sul ripiano.
«Sono un po' un disastro quando faccio queste cose» commenta Simone, tentando di rimediare al danno che sta combinando «L'altra sera ho persino bruciato degli spinaci già cotti perché non ci ho messo l'olio sotto».
«Ah, io faccio di peggio, non ti preoccupare» lo rassicura Matteo.
La moka viene chiusa e dopo messa sul fuoco a fiamma bassa.
Simone si volta lentamente, rimane in piedi, a ridosso del piano della cucina, di fronte al lavandino.
«Sei venuto per parlare con Manuel?» domanda.
Matteo scuote il capo, in cenno di diniego. «No» replica «Per parlare con te, in realtà».
«Con me?».
«Sì, io...». Si accorge ora di come faccia fatica a guardare il suo viso. Quelle cicatrici che gli costeggiano la pelle non fanno che rimembrargli ciò che è successo e alimentano a dismisura il senso di colpa che prova e che non lo fa dormire da settimane. «Volevo scusarmi» prosegue «Dall'incidente e da quando ti sei risvegliato, non ho mai potuto, insomma - Manuel mi ha sempre tenuto lontano e...».
«Perché Manuel ti ha tenuto lontano?».
A Matteo sfugge una risata sull'orlo dell'isterismo. «Beh, puoi biasimarlo?» commenta «Sei ridotto – così per colpa mia».
Simone aggrotta le sopracciglia, perplesso. «Lo hai detto tu che è stato un incidente» fa notare «Nessuno ne ha colpa».
«Parli così perché non ti ricordi» Matteo soffoca e abbassa lo sguardo «Se ti ricordassi come è andata o se fosse successo qualcosa a Manuel, tu... Mi avresti ucciso». Il suo tono di voce si è abbassato, pronunciando tali frasi. Dire certe cose risulta diverso dal solo pensarle, i pensieri sono astratti e feriscono un briciolo meno dei suoni.
Forse.
Simone pare recepire quel dolore, quella cosa che sta dilaniando l'amico e un po' tutti quelli che all'incidente erano presenti. Sotto un certo aspetto, dovrebbe persino essere grato di non ricordare nulla. Compie mezzo passo avanti, quel che è sufficiente per spostare una sedia vuota, trascinarla sulle mattonelle e accomodarsi sopra. «Non è stata colpa tua, Matteo» sussurra e cerca di incrociare i suoi occhi. Ci impiega qualche secondo e molta fatica, scoprendoli lucidi e appena arrossati. «Un camion ci è venuto addosso, poteva capitare a chiunque e...».
«Ma io stavo guidando e ho fatto il coglione e adesso tu...» singhiozza l'altro «Mi dispiace, Simò. Mi - dispiace». Si passa una mano sul viso, tentando di ricomporsi.
Simone rimane in silenzio. Non sa come comportarsi, che aggiungere per alleviare le sue pene. È probabile che un modo neppure esista e che con i sensi di colpa dovrà conviverci per il resto della vita.
«Lo sai, quando – quando vi siete messi insieme al liceo, io all'inizio non ci credevo» esclama Matteo. Sta osservando un punto vuoto davanti a sé e il suo respiro è irregolare. «Non ci credevo perché con Manuel parlavo di ragazze ad ogni ora del giorno» prosegue «E tu ne avevi avute così tante da perderne il conto, per cui per me era – impossibile da credere. Pensavo ci stesse prendendo in giro, che fosse uno scherzo e poi mi nascondevo dietro battute di merda. Però poi qualcosa è cambiato, non so che cosa. Abbiamo fatto un gruppo studio per la maturità a casa di Aureliano e stavate pure voi. Tu stavi seduto sul divano con la Divina Commedia in mano e Manuel se ne stava sdraiato, con la testa appoggiata sulle tue gambe, mentre tu gli passavi le dita tra i capelli e dormiva perché aveva iniziato a lavorare la sera e di giorno era distrutto. Non stavate facendo niente di particolare, niente di strano, ma in quel momento, ai miei occhi siete diventati Simone e Manuel insieme e ho cominciato a pensare che non potesse esistere uno senza l'altro».
Inconsciamente, Simone si ritrova ad invidiare quella descrizione appena ricevuta perché di Manuel ha visto sì la sua versione premurosa e gentile, specialmente in ospedale, ma il resto...
Il resto no.
«Vorrei fosse ancora così» pigola.
È allora che Matteo si volta nella sua direzione e «In che senso?» chiede.
«Nel senso che - Manuel non è innamorato di me» ammette Simone e la voce gli si incrina appena «È innamorato di lui. Di una versione di Simone che non esiste più e che io non posso ridargli».
«È folle» è il commento che esterna Matteo «Dio, io penso che – Manuel sarebbe innamorato di qualsiasi versione di te, anche in un altro universo».
Simone vorrebbe credergli, davvero. Il problema è che ha smesso di riconoscere lo sguardo innamorato di Manuel e lo vede diverso da quello delle foto, dei video sul telefono. Adesso è ricoperto soltanto di nostalgia e angoscia.
Ed è terribile poiché è tornato a casa per farlo stare meglio, invece lo sta facendo stare peggio.
«Hai provato a leggere i tuoi diari?» Matteo esclama e ciò fa destare Simone dai propri pensieri, ribattendo: «Cosa?».
«I tuoi diari. Scrivevi tutto della tua vita perché te lo aveva consigliato la psicologa. Fino all'anno scorso, perlomeno».
«Manuel non mi ha mai detto niente dei diari».
«Forse perché non lo sapeva» sospira Matteo e finisce per pizzicarsi il labbro inferiore con i denti. Capisce di aver tirato fuori qualcosa che non doveva, un particolare di cui, effettivamente, Manuel non aveva idea. «O forse non ha voluto dirtelo per – non lo so, cioè, avrà avuto le sue ragioni».
Il borbottare della moka interrompe il loro dialogo – e Matteo ringrazia per questo. Passa l'ora successiva praticamente in silenzio, per non provocare altri danni, buttando giù il caffè bollente e bruciandosi la lingua. Spera che Simone non ci badi troppo a quella informazione quando abbandona l'appartamento.
Invece Simone ci bada fin troppo.
Mette a soqquadro l'intera casa per scovarli, poiché lì dentro può trovare la versione della storia dal punto di vista di lui e non solo e sempre da quello degli altri.
Ne trova tre, nei posti più disparati come un doppio fondo in un cassetto del comó o incastrato dietro ad una tela raffigurante un paesaggio di notte, col cielo stellato.
Hanno tutti la copertina nera e due di essi hanno le pagine ingiallite. Forse sono i più vecchi.
Quando li sfoglia, nota che lui non ha seguito con costanza il compito di annotare quotidianamente la propria vita: ci sono dei salti temporali anche di mesi con informazioni confuse e, a volte, flussi di pensieri sconnessi e privi di logica.
Su uno dei due diari dalle pagine consumate, le date sono le più vecchie e deduce appartengano ai tempi del liceo, forse il quarto anno.
Dalla quantità di volte in cui la parola Manuel viene associata a quella di stronzo capisce che è probabile non stessero ancora insieme all'epoca. Ci sono dei rimandi anche ad episodi precedenti privi di data, come una canna fumata sotto al cielo stellato e una macchina distrutta proprio da lui.
C'è persino la descrizione di uno dei loro primi appuntamenti al quale Manuel si è presentato in ritardo a causa della moto rotta ed è arrivato accompagnato dal nuovo compagno della madre, implorando scusa e con i mano uno stupido pupazzo a forma di coniglio che poi gli ha regalato.
Ciò che più lo colpisce è la devozione con la quale Manuel viene descritto in tali parole - sì, anche quando gli dà dello stronzo: non c'è mai odio, mai rammarico.
Solo puro amore.
E paura.
Nota che c'è tanta paura di perdere quel che hanno costruito, che Manuel di punto in bianco capisca che non è ciò che vuole e che se ne vada perché ci ha messo tanto a realizzare chi è davvero e quindi potrebbe cambiare idea.
C'è tanta paura di restare solo, abbandonato da tutti quelli che lo amano nella convinzione di non valerne la pena.
C'è tanto dolore in quelle frasi tremolanti scritte a penna.
Simone non sa se quelle sensazioni lui le abbia mai confessate a Manuel. Considerando che quest'ultimo non gli ha mai fatto accenno dei diari, pensa di no.
Decide di tenere quel genere di informazioni soltanto per sé; del resto, è un segreto che può condividere con lui e che è un briciolo anche proprio.
Note autore:
Grazie a chiunque abbia letto fin qui!
E grazie a chi si è andato a leggere pure Fragments (pazzi!), mi fa molto piacere.
La canzone che trovate all'inizio mi sta facendo da colonna sonora durante la scrittura. Qualora vogliate ascoltarla.
Alla prossima!
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro