30. Move Along
When all you got to keep is strong, move along, move along like I know ya do,
even when your hope is gone
⭐️
Avevo voglia di tornare in sella alla mia Monster ma avevo promesso che non l'avrei toccata fintanto che non avessi avuto la patente, che avrei acquistato con i soldi del mio lavoro; per pagare il corso dovevo però trovare un lavoro. E la crisi economica di questo 2008 non aiutava.
Agli occhi di mia madre avevo fallito; mio padre neppure sapeva che ero tornato, dato che non rispondeva al telefono. Da qualche parte qualcosa lo avrei trovato, dovevo solo rimboccarmi le maniche.
- Hai provato al centro per l'impiego? - domandò mamma mentre stava asciugando le tazze della colazione. Annuii. Già fatto.
- Vado a dare un'occhiata ai giornali di annunci... - non terminai la frase perché il telefono suonò e andai a rispondere.
- Lorenzi? - domandò la voce maschile all'altro capo. Confermai cercando di riconoscere chi fosse ma non ci riuscii. - È l'istituto Blake. Desideriamo incontrarla nuovamente questo pomeriggio per discutere di ciò che è successo -. Era il preside. - Abbiamo una proposta per lei -. Rimasi sorpreso da quelle parole e accettai. Salutai e riattaccai. Mamma non aveva sentito nulla.
- Chi è? -
- La scuola. Mi vogliono vedere oggi pomeriggio. - risposi serio. Cecilia alzò un sopracciglio attendendo qualche notizia in più. - Vogliono solo parlarmi, non illuderti. -
Mamma chinò lo sguardo sullo strofinaccio. - Comunque vada, sono riuscita a mettermi in contatto con tuo padre, l'ho informato del tuo ritorno. Forse verrà a trovarci e chiederà al suo titolare di assumerti. - sentenziò seria. Rimasi sorpreso dalla sua iniziativa: con che sguardo mi avrebbe guardato mio padre? E io, con che occhi avrei guardato lui?
***
Rimuginai per tutto il pomeriggio su quella storia, insieme a qualche pensiero sul discorsino che il preside voleva farmi. Questa volta in jeans e felpa: non c'era più nessuna parte da recitare.
Potevo sentire la tensione nel respiro di mia madre, nei suoi occhi spalancati, nel petto che le si alzava in modo quasi innaturale, facendo palpitare la vena sul collo. Mia madre non aveva smesso di crederci. Sperai solo non crollasse.
C'era lo stesso stormo di cornacchie ad aspettarci al banchetto. Avevo immaginato un discorso in pompa magna da parte del preside ma rimasi sorpreso del suo silenzio, mentre la voce che aprì il discorso, fu del coach Pazzini.
- È successa una cosa strana, sai Francesco? -. Mi adagiai allo schienale della sedia e lo scrutai in silenzio, studiando ogni sua parola ed espressione. - I ragazzi del club di basket hanno saputo che sei tornato e anziché odiarti per quello che hai fatto a Mirko, hanno avuto un'idea. Ti andrebbe di darti ai servizi sociali? -.
Spalancai gli occhi incredulo. - Non capisco. -
Il coach accennò un sorriso. - In parole povere, pulizie. Si tratterebbe di rimettere a posto la palestra dopo gli allenamenti quotidiani dei club di basket. In questo modo la scuola risparmierebbe risorse economiche e tu saresti riammesso. -
- In questo modo, - intervenne il preside - non perdiamo di credibilità anzi, daremo un ottimo esempio di reintegro in società di un ragazzo disagiato che fino al giorno prima era un teppista. Al giorno d'oggi, alla gente piace sentire queste storie. -
Nell'ufficio calò il silenzio. Guardai uno a uno quei codardi incapaci di perdere, che avevano nascosto il loro orgoglio e la loro superiorità dietro a quella stupida motivazione. Capii che non avevo nulla da temere, che per quanto fossi marcio dentro, al mondo c'era sempre qualcuno che lo era più di me, nonostante io avessi ferito a morte un essere umano o spacciato droga. Faticai a nascondere un sorriso.
- Voi come osate trattare mio figlio in questo modo! -. Mia madre si alzò di scatto dalla sedia, la rabbia che le usciva dagli occhi bistrati di nero.
- Accetto. - risposi senza mezzi termini. Cecilia si girò verso di me sconvolta.
- Francesco ma... -
- Tranquilla, mamma - le dissi poggiandole una mano sul braccio per farla calmare e tornare a sedere - questi signori vogliono farmi ricominciare dal basso. Non c'è problema. Qualcuno di loro - mi soffermai su quel bastardo di Mariani - ha detto che non bisogna biasimarsi per gli errori fatti. Ok, procediamo. Non ho paura a ricominciare da zero -.
Lessi delusione negli occhi di tutti quei bastardi tranne che in quelli di Pazzini: a dire il vero, sembravano sorridere. Nessuno credeva che avrei mai accettato a quelle condizioni, forse avevano pure scommesso su quanto tempo sarei durato.
Nel giro di due giorni tutta la parte burocratica era stata fatta e da lunedì sarei tornato a seguire le lezioni al mattino e a pulire la palestra nel pomeriggio fino a sera. Un'ora al giorno, per tutta la durata dell'anno scolastico. Ero pronto alla sfida.
***
"Keep calm and carry on". Me lo ripetei spesso quel lunedì. Avevo letto quel messaggio stampato su una canottiera di Debbie quando ero a Milano, una sorta di pensiero Zen che lei mi aveva tradotto dall'inglese. "Rimani calmo e continua ad andare avanti". Le avevo detto che era una cazzata ma appena misi piede nel cortile della scuola, sentii una voce nella testa ripetere quel pensiero.
Passare inosservato era praticamente impossibile: chi non mi conosceva, riceveva il mio biglietto da visita da qualcuno che gli era accanto, che mi presentava come "il matto che ha occupato la scuola".
Il mio vecchio gruppo non esisteva più, l'unico superstite era Cico, che ora girava con ragazzi della sua età. Mi aveva visto ma non si era mai avvicinato nè salutato. Non vi badai: almeno aveva dato ascolto al mio consiglio.
Pensavo che il peggio fosse questo ma in realtà non l'avevo ancora vissuto. Non fu tanto traumatico imparare a fare le pulizie, a usare stracci, scope e moci per lavare il pavimento.
L'umiliazione vera e propria fu vedere la squadra di basket. E soprattutto vedere Andrea, il mio ex migliore amico, giocare come un vero campione. Ci passammo a fianco: lui usciva dal campo, io vi entravo per cominciare il mio turno di pulizia. Sembrava ci stessimo dando il cambio, come avevamo fatto tante volte, ma non ci eravamo dati la mano. Io ero lontano dal suo mondo milioni di chilometri ormai.
Concetta, la bidella che mi seguiva, mi esortò a darmi una mossa. - Che qui nun ce sta tempo a perdere! - esclamò. La raggiunsi togliendo lo sguardo di dosso ad Andrea e mi preparai a lavare il mio primo pavimento.
Quando tornai a casa quella sera, dissi a mamma che non avrei cenato ma mi sarei fiondato diretto in doccia e poi a letto. Non pensavo che fare le pulizie fosse così faticoso. E avevo pure i compiti da fare, oltre alle lezioni da recuperare. Avevo bisogno di un caffè.
Uscii dalla doccia e indossai l'accappatoio, soffermandomi a guardare la mia immagine allo specchio: stentai a riconoscere Prinz. Era due metri sottoterra e avrebbe riposato lì per sempre.
- Jimmy died today. He blow his brain down into the bay - ripetei a bassa voce guardando la mia immagine riflessa.
Era una canzone dei Green Day che Sarah mi aveva fatto ascoltare e tradotto. "Assomigli al personaggio di Jesus of Suburbia" mi aveva detto una volta "ma non diventare come Saint Jimmy, ok?". Le chiesi il perché. "Jesus molla tutto e diventa Saint Jimmy, una sorta di cattivo personaggio. Poi alla fine si suicida, ma solo idealmente, per tornare se stesso, Jesus". Le risposi prendendola in giro e ignorando le sue parole e invece, ero diventato davvero il personaggio cattivo. E le avevo fatto del male.
Chissà ora come stava, se sapeva che ero tornato. Passai una mano sul vetro appannato per tornare a fissarmi: anche lei era il mio passato. Mi vestii e mi preparai a fare i compiti ma prima avevo bisogno del caffè.
- Mamma, mi prepari... -. Mi interruppi. Al tavolo della cucina era seduto mio padre. Erano ormai nove mesi che non lo vedevo e notai che le rughe sul suo volto si erano fatte più marcate, qualche capello bianco era spuntato sulle tempie. Mio padre era invecchiato tantissimo in quegli ultimi anni e io non me ne ero mai accorto.
Mi sedetti all'altra estremità del tavolo e mamma fece lo stesso mettendosi di fianco a me. Entrambi mi fissavano e io guardavo loro. Gli occhi di mio padre parlavano per lui: odio, amore, delusione, felicità, rabbia, sicurezza... non sapevo quale sentimento prevalesse sopra gli altri, sapevo solo che li stava provando tutti e quanti insieme.
- Ciao, - dissi. Papà non rispose. - sono tornato -. Ancora silenzio. Feci per dire qualcos'altro ma papà mi zittì alzando la mano.
- Ti chiedo silenzio, Francesco. Devo riflettere. Devo pensare a cosa dirti perché ho tante cose nella testa. Vorrei ammazzarti di botte per quello che ci hai fatto passare ma non posso perché tu sei mio figlio e un buon padre, non può che perdonare la propria creatura, soprattutto se è tornata in ginocchio. Ero pronto a farti arrestare, a cacciarti di casa ma tutto mi aspettavo, tranne che tu tornassi qui come mio figlio. Ero sicuro di averti perso del tutto e invece, - papà si alzò dalla sedia e mi venne vicino - invece, ho ritrovato il mio Franz -. Mi alzai e lui mi abbracciò: mi accorsi solo ora che lo avevo superato in altezza di almeno una spanna.
- Scusa, papà. -
- Non voglio sapere cosa hai fatto. Ricominciamo da adesso, ok? -
Feci come mi aveva detto e risposi alle loro domande su come era andata la giornata, davanti a una tazza di caffè. Papà rimase fino a tardi ma poi se ne andò via: viveva in affitto in un appartamento nei pressi di Cocomaro di Focomorto da quando si era separato da mamma.
Forse un giorno sarebbero tornati insieme, forse no. Era difficile ricucire qualcosa che si era spezzato. E io ne sapevo qualcosa.
***
Prendevo servizio ogni giorno alle cinque, quando gli allenamenti finivano. Concetta mi aveva seguito per una settimana e non c'era molto da imparare, così mentre lei puliva dentro la scuola, io mi occupavo della palestra.
Gli allenamenti non finivano mai in tempo, in particolare quelli di basket e dovevo stare per quasi mezz'ora con le mani in mano. Non potevo allontanarmi né lavorare, dato che i ragazzi facevano allenamento. Mi dava fastidio vederli allenarsi, constatare che Andrea era diventato un mostro e Vito il suo secondo. Tuttavia, il vero dolore e umiliazione, era assistere allo sguardo che Pazzini mi lanciava ogni volta che faceva canestro: uno sguardo silenzioso, pieno di sfida. Non ero pronto a tornare. Non avevo nemmeno intenzione di farlo: il basket era morto.
Finalmente l'allenamento terminò e i giocatori lasciarono il campo. Cominciai raccogliendo i palloni, sparsi agli angoli del campo.
- Lasciateli pure li - disse il coach - oggi ci pensa il nostro sgargino a raccoglierli. - proseguì con aria di superiorità, lanciandomi un'occhiata. Era una sfida in piena regola. Che stronzo.
Presi il cesto e cominciai a raccogliere i palloni controvoglia: era la prima volta che mi faceva fare da raccattapalle. Iniziai velocemente per finire il prima possibile poi qualcosa dentro di me scattò e rallentai. L'ultimo che presi lo rigirai tra le mani e lo fissai a lungo, pensando cosa farci.
Che cazzata. Una voce dentro mi diceva di provare. Ero ben al di fuori dalla linea dei tre punti. Scossi la testa e mi mandai a quel paese. Che cosa volevo fare? Guardai ancora il pallone in silenzio e alzai lo sguardo. Ero solo.
Alzai il pallone all'altezza della fronte, poggiandolo sulla mano destra, gomito piegato, mentre l'altra mano lo teneva in equilibrio. Piegai le gambe per compiere un salto e trasmettere forza e spinta al movimento dal basso verso l'alto, verso la mano che teneva il pallone.
Presi di mira il canestro e tirai. Mi avevano insegnato così la prima volta che avevo preso in mano un pallone ma io non ci ero mai riuscito. Neanche ora, quattro anni dopo l'ultima volta che l'avevo fatto.
- Quante volte ti ho detto che non devi seguire le regole? -. Era il coach Pazzini. Aveva assistito a tutta la scena e ora mi stava raggiungendo. Dio, avrei voluto cancellare quegli ultimi cinque minuti. Credevo di essere solo e invece c'era proprio lui.
- Gabriele, lasciamo perdere, ok? - esclamai seccato, raccogliendo da terra un altro pallone per metterlo nel cesto. Io e suo fratello Andrea eravamo gli unici che potevamo chiamarlo per nome: mi conosceva da quando giocavo ancora con le macchinine.
- Franz, vuoi tornare a giocare? - domandò senza mezzi termini. Mi fermai per un istante.
- No, - dissi - ho chiuso quel capitolo. -
- Sei rimasto cocciuto come quando eri piccolo. Proprio non vuoi capire, ma soprattutto vedere o sentire. - esclamò mettendo le mani in tasca. - Chi pensi che abbia avuto l'idea di farti fare le pulizie in palestra dopo gli allenamenti? -. Che cazzo stava dicendo?
- I ragazzi e tu, per divertirvi a umiliarmi. - risposi seccato, continuando a raccogliere i palloni.
- È stato Andrea -. Mi girai sorpreso verso Gabriele con il pallone tra le mani. - Non ha mai smesso di credere che tu potessi tornare -. Gettai il pallone nell'angolo e mi appoggiai al cesto di metallo. Cazzo, le sue stesse parole. Chiusi gli occhi e scossi la testa.
- No! - gridai - non me ne frega più niente del basket. -
- Ho visto, infatti - commentò sarcastico - o forse è paura di fare una nuova figuraccia? Un ex campione come te non può permettersi di sbagliare -. Sentii la rabbia salirmi dentro. Non volevo più saperne, era finita quattro anni fa, non potevo rimangiarmi la parola. - Non ne sei più capace, vero Franz? Hai perso il tuo talento in questi anni. -
Gabriele mi stava provocando di proposito, voleva che reagissi, che la prendessi come una sfida perché sapeva quanto le amassi e quanto fosse forte il mio spirito competitivo. Scagliai il pallone che avevo in mano all'altro capo della palestra con rabbia.
- Si, non ce la faccio. È questo che vuoi sentirti dire? Non ne sono più capace. -
- Ma tu lo vuoi, - disse porgendomi un altro pallone dal cesto - tu lo vuoi più di ogni altra cosa. Ho visto con che occhi guardi i ragazzi giocare: lo stesso sguardo di quando stavi in panchina. -
Volevo andarmene ma qualcosa mi teneva lì. Provai rabbia, frustrazione, delusione ma anche volontà, voglia di reagire e soprattutto, voglia di tornare a giocare. Perché continuavo a nasconderla? Era sempre stata lì, non l'avevo mai seppellita, solo coperta. Era parte di me.
Presi il pallone dalle mani di Gabriele e provai a tirare di nuovo, senza seguire le regole che mi avevano sempre voluto inculcare, lasciando i miei muscoli muoversi da soli, riscoprire quei movimenti che tante volte avevo compiuto con naturalezza.
La palla si sollevò, una parabola perfetta, si poggiò sul bordo, fece un giro ed entrò.
- Bentornato in squadra, Franz. Ci sarà un bel po' di tempo da recuperare. La prossima partita ti aspetta. -
Sorrisi. - Agli ordini, coach. -
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E così, Prinz è rientrato in squadra.
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La volontà di rimettersi in gioco ha vinto sull'idea di arrendersi
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Lo vedremo presto con la divisa del Blake 😜
Riuscirà a tornare la Stella che era stato in passato?
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Prima però c'è un altro quesito che lo attende e sono sicura che state aspettando questo momento da diversi mesi!
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Se la storia vi piace, accendetela di stelline e commenti!
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Stay tuned!
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