27. Waiting For The End - Parte 3
La voce della sconfitta inferta a Castillo si sparse in fretta in periferia e nel giro di poche settimane, diversi clan del narcotraffico iniziarono a proporci alleanze in segno di rispetto e timore: il gruppo crebbe, portando maggiori introiti, autorità e soprattutto, riconsegnando a Nero il titolo di capobanda.
Tuttavia, dopo tanti scontri, non ero riuscito a trovare Riot. Avevamo ritrovato il potere, il rispetto di tutti e nonostante il mio ruolo di braccio destro di uno dei più importanti pusher di Milano e provincia, continuavo a vivere con uno strano senso d'infelicità: era davvero ciò che volevo?
Mi dicevo che avrei trovato la risposta nel nome di Riot. E una volta che lo avessi trovato e sconfitto, picchiato fino a spezzargli tutte le ossa, consegnandogli un biglietto di sola andata per il cimitero, come lui aveva quasi fatto con me, cosa avrei ottenuto? Mi sarei sentito a posto con me stesso? Completo?
- Alla mia nuova copertina! - esclamò Debbie alzando in alto il bicchiere per brindare. Avevamo fatto pace e per festeggiare il suo ultimo successo, ci concedemmo una serata in un locale nei pressi di Porta Venezia. Al terzo Mojito, Debbie mi propose di andare a ballare.
- Non ballo. - le dissi.
- Ho qui qualcosa che ti farà cambiare idea -. Estrasse dalla borsa un sacchettino di alluminio colorato, lo aprì e me ne offrì.
- Che roba è? - domandai prendendo la sostanza scura dalla consistenza di corteccia essiccata.
- Funghi. Roba leggera. - disse ingoiandone una manciata. La sua scala per il paradiso.
Feci altrettanto e nel giro di qualche secondo, una sensazione di euforia mi invase. Cominciai a ridere, a sentirmi allegro e lo stesso faceva Debbie. Mi prese per una mano e mi trascinò in pista dove cominciammo a ballare, il suo corpo che si strusciava contro il mio.
L'effetto svanì e mi sentii vuoto ma desideravo ancora spassarmela. - Ne vuoi degli altri? - mi anticipò la ragazza. Annuii. Debbie mi trascinò in un angolo del locale e tirò fuori dalla borsa un'altra busta. - Questi sono più forti, mi ha detto il venditore. -
Presi il sacchetto senza tante storie, lo aprii e ne trangugiai una manciata.
- Ehi, con calma! - esclamò in una risata la ragazza.
L'effetto fu ancora più forte e immediato di prima ma all'euforia iniziale, seguirono altri effetti: vidi le persone al nostro passaggio separarsi in due, i loro sguardi allargarsi e fissarci, l'oro dei gioielli risplendere come stelle.
Io e Debbie cominciammo a ballare, il suo corpo ancora contro il mio, che si strusciava e stimolava ogni mio desiderio, mentre le mie mani vagavano ovunque sui suoi fianchi, sulle sue braccia stringendola a me. La ragazza si liberò dalla mia stretta e si girò, cominciando a scuotere i capelli che da biondi divennero neri. Mi guardò e lei era lì: gli occhi da gatta sottolineati dal trucco nero, le labbra rosso fuoco come le ciocche comparse in mezzo ai capelli. La baciai senza pensarci, portando a me il suo corpo, per possederla, per amarla anche lì, in mezzo a tutti.
All'improvviso piovve, il viso della ragazza davanti a me che si confondeva con quello di Debbie, i capelli tornati biondi. - Ti avevo detto che dovevi andarci piano! - esclamò la ragazza ridendo. Mi ritrovai nel bagno del locale con la faccia bagnata.
- Cazzo è successo? -
- Avevi le allucinazioni e l'unico modo per farle passare è farti bere o mangiare qualcosa. Ho optato per la soluzione più veloce. -
Presi i fazzoletti di carta dal dispenser e mi asciugai con fare seccato.
- Senti, una curiosità: chi è Sarah? - Rimasi per un istante immobile prima di riprendere ad asciugarmi.
- Perché me lo chiedi? -
- Prima non facevi che ripetere il suo nome insieme ad altre sconcerie mentre mi baciavi. -
- Avrai capito male, non conosco nessuna ragazza con quel nome. - risposi.
Debbie cominciò a specchiarsi e a sistemarsi i capelli. - Eri molto convincente, allora. -
Appallottolai l'ultimo fazzoletto e lo gettai nel cestino. - Hai ancora quei deliziosi funghetti? - domandai. Debbie annuì. - Che ne dici di andarli a provare a casa mia? -
***
"Nobody likes you, everyone left you, they're all out without you. Having fun" *
Non era più successo, solo quella volta in discoteca. Presi quei funghi quasi tutte le sere ma il viso di Debbie rimaneva sempre lì, anche se le allucinazioni erano altrettanto forti.
Sarah era riapparsa per un istante nella mia vita ed era bastato per farmi vacillare. Perché? Diedi la colpa alla droga e non ci pensai più.
Quella sera ero riuscito a ottenere il pass per un famoso locale sui Navigli, il Lumen, piuttosto esclusivo e pieno di gente con soldi da spendere in droga. Il mio lavoro si era parecchio ridotto: guadagnavo il cinquanta per cento degli incassi affidandomi a due ragazzini appena più piccoli di me, che si accontentavano del dieci per cento, mentre il restante andava a Nero.
Ero lì per osservare il loro lavoro, godendomi la musica dal vivo di una band chiamata Rage&Love: era quel genere ibrido tra pop e rock che piaceva a Debbie, con il cantante nel ruolo del belloccio di turno. A quanto pare erano piuttosto famosi nell'ambiente milanese. Beh, mi stavano sul cazzo. Erano finti come i denti del sorriso di Nero e le ragazze sotto il palco si strusciavano come gatte in calore attorno a quel ragazzo con le braccia tatuate.
- Grazie mille per essere qui stasera. - disse il cantante. Quanto avrei desiderato spaccargli quel sorriso con un pugno - stiamo partecipando a un importante concorso, il Brand New Contest. Se vi siamo piaciuti, vi preghiamo di continuare a seguirci e sostenerci: se arriveremo in finale, sarà anche grazie a voi. -
Una lampadina si accese a quel nome. Possibile che fosse lo stesso concorso? La curiosità mi spinse ad abbandonare i preconcetti e al termine dell'esibizione, cercai di raggiungerlo per scambiare due chiacchiere con lui ma un paio di mani mi agguantò e trascinò indietro. Lottai per liberarmi e girarmi, quando due uomini alti come me, dai tratti sudamericani, mi bloccarono la strada. Capii che ero circondato.
Le mani mi lasciarono e mi girai, trovandomi faccia a faccia con un certo Chavez, capo di un clan argentino molto temuto in zona. - Ahy que ablar - disse in spagnolo facendo un cenno con la testa, agitando i lunghi capelli ricci raccolti in una coda bassa.
Lo seguii fuori, scortato dalle sue guardie del corpo e mi portò in un vicolo lontano dal locale. Mi preparai a ricevere il biglietto da visita: non erano certo lì per fare amicizia. Mi misi in guardia, convinto di uno scontro a corpo libero, mentre in realtà due dei suoi segugi si avvicinarono a me con una mazza e mi colpirono, uno alle gambe facendomi cadere a terra e l'altro alla schiena, obbligandomi a piegarmi.
- Escuchame bien - disse Chavez avvicinandosi - hai osato vendere la tua lurida merda a mio primo e ora è in ospedale -. Oh cazzo, questa non ci voleva!
- Che vuoi da me? Io ho fatto solo il mio lavoro, è stato lui a venire da me. E appena Nero saprà di tutto questo... -
- Cajate, cabron. - disse avvicinandosi e pestando con violenza la mano sinistra. Trattenni le grida per non dargli la soddisfazione anche se il dolore era allucinante. - io non mi chiamo Castillo. So cosa gli è successo e non sarai tu a riferire quel messaggio a quel bastardo di Nero, ma il tuo cadavere. -
Chavez fece scroccare le dita e si allontanò. Le mazze scesero di nuovo su di me, colpendomi diverse volte. Mi portai le mani alla testa, accartocciandomi su me stesso, in cerca di una protezione che non potevo dare al mio corpo da quei colpi che mi stavano martoriando, strappandomi aria dai polmoni e grida di dolore a ogni percossa.
Ero sicuro che quella sarebbe stata la mia fine. Stavo morendo. Avrebbero trovato il mio corpo senza vita in quel vicolo lurido e puzzolente di Milano, lontano da casa mia, lontano da mia madre, dai ragazzi che mi conoscevano, da Sarah... .
In quell'istante pensai che Dio esistesse davvero e che mi avesse sempre voluto bene, nonostante gli errori che avevo fatto. Una volante della polizia passò poco distante da lì per un giro di ronda e Chavez e i suoi se ne andarono, per evitare di essere scoperti. Dovevo farlo anche io.
Rimasi immobile, facendo credere ai miei nemici di essere svenuto, e appena se ne furono andati, mi tirai su a fatica e appoggiandomi alla parete, cercai di allontanarmi il più in fretta possibile. Non avevo nulla di rotto, solo dolore, lividi e sangue in tutto il corpo.
Recuperai la moto e a fatica mi issai sopra, accesi il motore e mi diressi verso Porta Ticinese, in direzione centro, dove sapevo avrei trovato Nero. Lui era in una specie di privè di un locale di striptease, con una birra in una mano e la sigaretta nell'altra, sorridente mentre guardava lo spettacolo insieme a qualche suo amico.
Andai dritto verso di lui, incurante degli sguardi di tutti addosso, forse più per il sangue sui vestiti e sul mio volto, piuttosto che la mia giovane età. Appena Nero mi vide, spalancò gli occhi sorpreso. - Prinz, che cazzo hai combinato? -
- Che cosa c'è dentro quelle paste? - Nero mi guardò serio e non mi rispose. - Chavez mi ha quasi ucciso perché ne ho venduta una a suo cugino e ora è più morto che vivo. Dimmi: che cazzo c'è dentro quelle paste! -
- Sarà cambiata la formula, - si giustificò - la roba pura costa. L'avranno mescolata con gesso, oppure borotalco, che ne so. -
Scossi la testa: ero stato colpito quasi a morte perchè la formula chimica, studiata da menti eccelse con lo scopo di far sballare la gente, era stata addizionata a semplice gesso o borotalco del discount da chimici da quattro soldi, per risparmiare sulla materia prima e guadagnare di più.
Denaro. La mia vita valeva il denaro che riusciva a guadagnare. E se fossi morto in quel vicolo, sarei stato sostituito da qualcun'altro, che la sera dopo avrebbe venduto la stessa merda e ricavato gli stessi profitti. Ero un numero su un libro matricola, come tutti gli altri.
Non mi trattenni più. - Beh io non vendo più nulla. Non voglio più rischiare la vita. -
- Ora hai due bambini sotto di te... -
- Non hai capito, Nero, io non voglio più essere lo schiavo di nessuno. Mi cerco un lavoro onesto. -
- Stai scherzando? -
- No, non sto affatto scherzando. Ho giocato a scacchi con la morte, mezz'ora fa. Stavo per rimanere secco in quel vicolo di merda. -
Nero sbattè la bottiglia di birra sul tavolo e si alzò in piedi. - Non ho voglia e tempo di scherzare. Ti ho già sentito dire queste stesse parole e ti ho anche visto tornare. Vatti a fare un giro e rinfrescati le idee. Smettila di fare il ragazzino e tira fuori le palle. Qui nessuno scherza. -
Me ne andai dal locale senza replicare, carico di una rabbia che non era odio, ma rimorso: per il tempo perso, per il mostro che avevo creato con le mie stesse mani. Salii in moto e girai verso il centro, senza una meta precisa. Solo la strada e me stesso.
La testa macinava mille pensieri. Fino a quel momento avevo giocato a fare l'adulto ma in realtà non ero che un ragazzino. Un diciottenne che non sapeva che fare della propria vita ed era fuggito già anni prima per non crescere. Ero venuto qui credendo di diventare qualcuno, di ripetere la stessa vita che facevo a Ferrara ma in meglio. Mi mancavano le corse in moto, gli amici, il cazzeggiare senza rimorsi, le scorribande per i locali.
Fermai la moto al semaforo: proprio a fianco a me sul marciapiede, due ragazzi di colore cercavano di smuovere il corpo di un loro compagno privo di sensi a terra. Lo trascinarono per i piedi e poi lo sollevarono prendendogli anche le braccia e visto che continuava a non muoversi, attraversarono la strada sotto gli occhi di tutti e fermarono il filobus, obbligando il conducente ad aprire le porte e a farli salire, amico svenuto annesso.
Tutto questo avveniva nella più completa indifferenza, nessuno che si fosse fermato per aiutarli o chiamare un'ambulanza. Il semaforo divenne verde e il traffico ripartì. Milano non era giusta: tanta bruttezza al fianco di tanta bellezza, ricchezza e povertà, indifferenza e bisogno.
Io non ero fatto per quella città e nemmeno per quella vita. Non volevo fare la fine di quel ragazzo di colore, non volevo morire né continuare a far morire. Non volevo più scappare dalla realtà, perché ogni volta mi sarei sentito solo peggio. Ero diventato un predatore: non volevo tornare preda.
Aprii finalmente gli occhi: l'unica cosa che potevo fare era andarmene, fuggire di nuovo. Avevo sempre usato la fuga per evadere dei problemi; questa volta, invece, li avrei affrontati.
Raggiunsi il Kamaleon e andai da Debbie. Stava lavorando e appena mi vide, mi fu subito addosso.
- Che ti è successo? - domandò spalancando gli occhi preoccupata.
- Regolamento di conti. -
Mi prese per mano e mi portò sul retro del bar, dove c'era il bagno privato. Tirò fuori la cassetta del pronto soccorso e cominciò a curarmi.
- È un miracolo che tu sia qui, quindi? - domandò mentre passava il disinfettante sulle mie mani.
- è questo che mi ha fatto cambiare idea -. Debbie si fermò e mi guardò. Aveva raccolto i capelli in una treccia laterale e sembrava una bambola. - me ne vado. -
La ragazza abbassò lo sguardo triste. - Dovevo immaginarlo che sarebbe finita prima o poi -. Debbie prese altri batuffoli di cotone e li intinse nel disinfettante, passandoli sulle ferite,
- Devo farlo. Non posso continuare a vivere così. -
- Tu non devi giustificarti. Hai solo diciotto anni, sei giovane ed è giusto così -. La voce cominciò a tremarle e riprese a passare il disinfettante, continuando a tenere lo sguardo basso. Non seppi cosa aggiungere e rimasi in silenzio. Debbie terminò le medicazioni, dandomi una pomata per gli ematomi e assicurandosi che io stessi bene.
- Ehi, piccola, guardami. - dissi prendendole il viso con una mano. I suoi occhi erano arrossati e tratteneva le lacrime - grazie di tutto. Mi mancherai. -
Debbie si slanciò verso di me e mi baciò. Solo in quel momento capii che per lei si era sempre trattato di amore; io invece, non lo avevo mai inteso così ma glielo feci credere, per non spezzarle il cuore fino in fondo.
- Se passi di qua, vienimi a trovare. Offro io. - disse accennando un sorriso.
- Tornerò quando sarai abbastanza famosa per firmarmi un autografo. - risposi. Guardai per un'ultima volta il suo viso e me ne andai.
Presi la moto e andai alla Barona per raccogliere le mie cose. Feci in fretta a racimolare i miei stracci in un borsone. Guardai quell'appartamento vecchio e mal conservato che avevo tanto odiato sin dal mio arrivo: mi sarebbe mancato. Gli ultimi quattro anni della mia vita erano stati frenetici ma a Milano ero cresciuto ancora di più, e sembrava fossi invecchiato di dieci anni.
Tirai fuori il vecchio coltello serramanico che Nero mi aveva regalato quando mi aveva nominato suo vice e lo appoggiai sul tavolo, come biglietto di addio.
Chiusi la porta alle mie spalle, salii in moto e me ne andai verso un posto chiamato casa.
Ora, un motivo per andarmene da qui, l'avevo finalmente trovato.
*"Letterbomb", Green Day, album "American Idiot"
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Bentornate Rockers!
~*~
Dite che Prinz ha capito il vero valore della sua vita e degli affetti? Sarà la volta buona che metterà la testa a posto?
~*~
Credo proprio di sì. In fondo, ora che se ne è andato anche da Nero, non ha più nessuno su cui fare affidamento o che può coprirgli le spalle.
Il viaggio verso Ferrara sarà lungo, credo che prima faremo una tappa intermedia da qualche altra parte.
Stay tuned!
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