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10. Running Up That Hill

It doesn't hurt me, do you wanna feel how it feels?
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Avevo aperto gli occhi dopo più di un mese passato in uno stato di semi incoscienza. Così diceva mia madre. Coma, invece, lo chiamavano i dottori. Non ricordavo nulla di quel periodo: era stato come un lungo sonno senza sogni o incubi. Era la pace.

Quando mi svegliai ero solo. Nessun parente, nessun amico. Solo la stupida infermiera bionda e carina di turno a darmi il benvenuto.

- Bentornato. Dormito bene? - Avrei voluto prenderla a calci nel culo ma ero immobile. La ragazza mi rassicurò. - Tranquillo, qualche giorno e tutto torna a funzionare. Sai che sei appena resuscitato? Qui tutti ti davamo per spacciato. Sei stato fortunato. - disse strizzandomi l'occhio. La guardai sorpreso. - I medici hanno appena finito di visitarti e tutto va bene. Vado ad avvisare i tuoi. Ci vediamo tra un po'. - aggiunse uscendo dalla camera.

Mia madre arrivò dopo circa un'ora perché era di turno. Di mio padre, invece, nemmeno l'ombra. Avrei scoperto di lì a poco il perchè. I miei avevano deciso di separarsi e la causa ero io.
Le prime parole di mia madre non furono "stai bene", accompagnate da lacrime di gioia: mi disse che se avessi fatto un'altra cazzata mi avrebbero cacciato di casa e che era colpa mia se la nostra famiglia si era disintegrata, il tutto accompagnato da lacrime di rabbia. Fu richiamata al lavoro senza darmi il tempo di comprendere le sue parole.

Provai una sensazione tremenda: volevo gridare, dire la mia, difendermi e capire cosa fosse successo e invece non potevo fare nulla. La testa mi faceva male, avevo il buio completo davanti a me. Non capivo perché ero lì e il mondo intero sembrava avercela con me.

Nel giro di qualche giorno recuperai i ricordi dei miei ultimi istanti di vita: una sensazione di vuoto mi attraversò quando ripensai a Sarah ma la ricacciai subito indietro; fu invece la rabbia nei confronti di Riot per ciò che mi aveva fatto a farmi perdere il controllo. Aveva cercato di farmi fuori ma ero sopravvissuto e avevo passato gli ultimi mesi della mia vita in un ospedale circondato da persone che nemmeno sapevano chi fossi, imbottito di farmaci e incosciente.

Avevo compiuto diciott'anni e nemmeno me ne ero accorto. Quel dannato mi aveva privato di un pezzo di vita. I medici non capivano le mie grida, continuavo a ripetere che dovevo parlare con Nero per metterlo in guardia del tradimento di Riot, dire a tutti che io non c'entravo niente.

Per farmi stare zitto, i medici mi somministravano morfina e io scivolavo in un sonno popolato da incubi che avevano il nome di Sarah, Riot e mia madre.

I giorni passarono. Capii che se volevo andarmene da quel posto dovevo stare zitto: mi sarei ripreso la mia vendetta una volta uscito di lì con le mie gambe.

Candy (così avevo soprannominato l'infermiera) non faceva che ronzarmi attorno. Era l'unica a tenermi compagnia. Presto ricominciai ad alzarmi dal letto, a muovermi. Stavo tornando quello di prima. E presto me ne sarei andato da quel posto pidocchioso che puzzava di vecchio e disinfettante per tornare dai miei amici.

***

Il giorno in cui venni dimesso mia madre fu la sola ad aiutarmi. Prima di uscire dalla camera, Candy mi diede un biglietto con il suo numero sopra. - Se ti senti solo, chiama. - disse strizzandomi l'occhio. Una ragazza di venticinque anni che cercava divertimento con un diciottenne? Le sorrisi e misi il suo numero in tasca.

Più di una volta mi aveva detto di vivere da sola in un appartamento in periferia e aveva aggiunto che potevo andare a trovarla quando volevo. Inizialmente pensavo a uno scherzo ma lei continuava a ripeterlo in tono serio, sottolineando che lei era solo una stagista lì e che, una volta uscito dall'ospedale, io ero una persona come tante. - Solo più bello della media. - amava ripetere, mordendosi il labbro.

Quando entrai in casa, mi accorsi che le tracce lasciate da mio padre erano del tutto scomparse: l'armadio vuoto, l'appendiabito senza il suo cappello preferito... mamma disse che era tornato dai nonni lasciando a noi due l'appartamento intestato a lei. Non durai un attimo di più e uscii: la sensazione di oppressione era diventata più insopportabile di prima.

Andai in garage e tirai via il telo dalla mia moto: pensavo che non l'avrei più guidata né tanto meno vista, dato che ai miei non andava a genio quel "rottame rubato" e alla prima occasione minacciavano di cacciarla via.

Vi salii sopra e l'accesi: cantava ancora come quando l'avevo lasciata. Misi il casco e uscii in strada; mi limitai a un giro nel quartiere per non strafare. Avessi potuto, non sarei più sceso.

***

Dopo un mese e mezzo di ospedale, i medici avevano detto che dovevo stare a casa altre due settimane in osservazione. Non mi era permesso stancarmi troppo; al massimo potevo guardare la tv.

Roba da pazzi. Io ero guarito. La fasciatura al busto per le costole rotte non c'era più, solo qualche benda leggera avvolgeva il braccio sinistro. Così appena mia madre usciva per andare al lavoro, io andavo dagli altri e rientravo prima del suo ritorno.

I primi che mi accolsero a braccia aperte furono i ragazzi del mio gruppo: Cico mi strinse la mano nel nostro particolare saluto, mentre Alex, Gin e Byte mi salutarono con una specie di inchino.

- Bentornato - disse Alex dandomi una pacca sulla spalla. Nessuno di loro si era interessato a me per tutto quel tempo ma ora mi stavano mostrando tutta la loro stima. Nero fu l'ultimo a venirmi incontro e io abbassai la testa davanti a lui.

- Il Principe è tornato - disse con la solita aria di potere.

- Non me ne sarei mai andato se qualcuno non avesse provato a farmi fuori. - risposi guardandomi attorno. Rimasi sorpreso quando non vidi Riot e i suoi lecchini. - Dov'è quel bastardo? - chiesi a Nero mentre la rabbia cresceva dentro di me.

- Se ne è andato qualche settimana fa -. Sperai fino all'ultimo che fosse in ritardo o spuntasse all'improvviso da dietro gli altri per ammazzarlo con le mie stesse mani ma lui non c'era.

Non ci fu bisogno di spiegare la natura del mio odio verso quel bastardo: Nero aveva già capito tutto prima ancora che mi chiamasse in un angolo per raccontargli di quel fatidico pomeriggio. - Sapevo che era una mina vagante e che prima o poi sarebbe scoppiata, - disse senza mezze misure - e quando non ti ho visto tornare, ho capito che quel momento era arrivato. Non avresti mai mancato un mio ordine -.

- L'hai cacciato? - chiesi curioso. Nero guardò l'orizzonte.

- Era venuto da me con l'intenzione di sfidarmi. Glielo avevo letto negli occhi ma non aveva osato farlo. Ero da solo ma non aveva osato toccarmi -. Nero accese una sigaretta e rimise l'accendino in tasca. - anche se in ritardo, aveva capito chi comandava. Poi se ne è andato e non l'ho più visto. -

- Perché l'hai lasciato andare? Ha tentato di ammazzarmi e voleva fare fuori anche te! - esclamai deluso da quello strano comportamento. Non era da Nero perdonare in quel modo.

- Non pensi che temesse di essere scoperto? Un assalto identico in tutto e per tutto al tuo: se tu eri in ospedale, non potevi essere di certo incolpato dell'attacco a me -. Il ragionamento sottile di Nero mi fece ammutolire.

Era quello il vero motivo per il quale aveva lasciato libero Riot: una mente così brillante per quanto malvagia non poteva morire. Abbassai la testa, inchinandomi non solo al mio capo ma anche al mio nemico, Riot. Sapevo che la partita con lui non si sarebbe mai chiusa.

***

Avevo ancora il potere, avevo ancora gli amici. Ma non avevo più Sarah. Pensavo a lei girando per la città, andando per locali e ogni volta mi ripetevo di aver fatto la scelta giusta, cercando di allontanare quegli stupidi pensieri da sfigato ma lei sapeva sempre come tornare.

Non era passata nemmeno una settimana da quando mi avevano rispedito a casa e venni chiamato in questura.

Davanti a me c'era l'ispettore Castelli: studiò il mio aspetto, il mio comportamento, girandomi attorno come fossi stato un carcerato con quel suo sguardo così penetrante e fastidioso; io lo fissavo a mia volta, troppo orgoglioso per staccare i miei occhi dai suoi, finchè non si sedette e l'interrogatorio cominciò.

Me lo immaginavo: era stato aperto un dossier per ciò che era avvenuto e Castelli mi aveva chiamato lì per capire il motivo dell'attacco a Vito.

- Se le dicessi che non sono stato io? - risposi guardandolo con aria di sfida. Castelli mi osservava impassibile mentre i due poliziotti alle sue spalle scrivevano a macchina la confessione.

- Abbiamo testimonianze che affermano il contrario. Questa volta sei con le spalle al muro. - Feci un respiro e gettai un'occhiata a lato. Potevo immaginare chi fosse uno dei testimoni. - C'entra Sarah, non è vero? -

Castelli non cambiò espressione. - Rispondi alla mia domanda -.

Alzai lo sguardo e lo fissai di nuovo con aria di sfida. - Vuoi la verità? È vero, ero andato a scuola per dare una lezione al mio vecchio amico Andrea Pazzini perché aveva parlato troppo ma quando sono arrivato, ho trovato Vito già malmenato per mano di Antonino Riotti, un ragazzo del mio gruppo. Lo stesso che ha ucciso quel poliziotto -.

Per un attimo l'espressione di Castelli cambiò, sembrava che quelle rivelazioni lo avessero davvero toccato nel profondo: vidi davanti a me un uomo come tanti, carico di rabbia e rimorso ma al tempo stesso vuoto, perso. Non durò molto: l'autorità tornò a sovrastare l'essere umano.

- Peccato che non abbiamo prove a sufficienza per scagionarti. - rispose Castelli sistemandosi gli occhiali sul naso - lo sai che se menti ora sei perseguibile dalla legge con pene molto più severe di quando eri minorenne? -. L'arroganza di quell'uomo sfociò appieno in quelle parole ma qualcosa sembrava ugualmente frenarlo: sentivo il suo odio e al tempo stesso una sorta di dispiacere nei miei confronti.

- Non ho paura di te e dei tuoi due lecchini, - risposi alzandomi dalla sedia, seguito a ruota da Castelli e dai poliziotti - non so nemmeno più cosa è la paura -.

L'ispettore fece cenno ai due topolini di stare fermi e mi fissò con aria di superiorità. - Se hai voglia di finire dietro le sbarre, ti accontenterei subito ma purtroppo sono un uomo con ancora dei princìpi al contrario di te, e sono questi princìpi a impedirmi di farlo. Continueremo a investigare a entrambi i casi in cerca di prove e se troveremo qualcosa che ti incastrerà, ti scorterò di persona in cella -.

- Arrivederci, ispettore - dissi girando sui tacchi.

- Ci rivedremo presto, Lorenzi - rispose Castelli.

Ero pronto a scommettere che fosse proprio Sarah il testimone di cui parlava. In fondo, chi altri poteva sapere che ero lì a scuola nei panni del carnefice anziché della vittima?

***

L'ispettore non si era più rifatto vivo e iniziavo a dubitare che il teatrino dell'interrogatorio fosse tutta una specie di finzione per incastrarmi o magari scoprire la verità.

Altri giorni, altro tempo buttato via con il gruppo. Erano i primi di settembre e a breve la scuola sarebbe ricominciata ma io non avevo intenzione di tornarci e anche i professori avevano pensato lo stesso: il consiglio degli insegnanti capeggiato dal preside aveva chiamato me e mia madre per discutere della mia posizione.

Era nell'ufficio del preside, alla presenza di alcuni professori che si era deciso di consumare il mio processo. Imputati davanti a giudici corrotti. Ciò che era successo mesi prima non poteva passare indifferente e avevano deciso di espellermi per aggressione.

- Ma non c'è nessuna denuncia contro mio figlio! - esclamò mia madre alzandosi in piedi di scatto alle parole del preside.

- Sta di fatto che Lorenzi era sul luogo dell'accaduto e... -

- Potrebbe essere stato anche l'altro ragazzo ad attaccarlo! - cercò di giustificarmi. Era da quando ero piccolo che non vedevo mia madre lottare in quel modo: l'ultima volta avevo quattro anni e mi stava difendendo da un gruppo di bambini più grandi che mi aveva rubato la palla in spiaggia. - Non potete fargli questo! - gridò sbattendo i pugni sulla cattedra.

- Si calmi, signora Lorenzi - quel bastardo del professor Mariani parlò. Stava godendo appieno della nuova carica di vicepreside assegnatagli giusto qualche giorno prima. Mia madre gli lanciò uno sguardo carico di rabbia.

- Signora, mi duole sottolineare che suo figlio ha già dei precedenti per aggressione e alla luce di quanto è accaduto, è difficile pensare sia innocente. - sottolineò il preside. Mia madre tornò a sedersi disfatta: stava lottando una battaglia persa.

- Mi rivolgerò ad altri istituti se non lo vorrete più qui. Gli manca solo un anno al diploma, è un suo diritto ottenere quel pezzo di carta! -

- Tecnicamente, sarebbero due gli anni, - la voce viscida di Mariani ricordò a Cecilia che ero stato bocciato - e non so quanti e quali altri istituti saranno disposti ad accogliere un ragazzo problematico... -

- Mio figlio... problematico? - ripeté mia madre esterrefatta - ma... -

- Senza contare che è già maggiorenne e ha il diritto di fare ciò che vuole. Sa, ora è adulto. - terminò Mariani.

Se mi fossi trovato da solo con quei finti moralisti, li avrei fatti fuori uno a uno. Non mi interessava tornare a studiare, avevano centrato l'obiettivo, ma l'arroganza che avevano sfoggiato mi aveva fatto incazzare parecchio. Guardai mia madre a testa china, una mano appoggiata alla fronte per darsi forza.

- D'accordo, non risolvo nulla qui ma ci rivedrete e sentirete presto tramite il nostro avvocato. - disse raccogliendo le sue cose e alzandosi dalla sedia. Feci lo stesso e senza nemmeno salutare uscimmo dall'ufficio del preside.

- Arrivederci. - sibilò quel bastardo di Mariani.

Aspettai di arrivare nel cortile prima di parlare con mia madre. - Hai davvero intenzione di andare da un avvocato per questa storia? - domandai.

Mia madre mi guardò. - Vorrei tanto, lo sai, ma non riusciremmo ad affrontare le spese. Mi tocca lasciar perdere e sperare che cambino idea. - rispose senza alzare mai lo sguardo da terra. Conoscevo quel comportamento: si stava chiudendo a riccio nel suo dolore.

- Ti avevo detto di lasciare stare. Non voglio tornare a scuola. -

Cecilia si fermò di colpo e si girò a guardarmi. - è questo che vuoi? Smettere di studiare e buttarti via del tutto? - domandò esterrefatta. Ecco, era tornata quella vecchia storia che non mi aveva mai abbandonato.

Ma era la verità, avevo altri progetti per il futuro: più di una volta Nero mi aveva offerto di mollare tutto e trasferirmi a Milano per fare soldi.

- Sono maggiorenne, posso fare quello che voglio ora e di certo non tornerò qui dentro -. Alzai la voce e indicai l'edificio alle mie spalle. Cecilia rimase seria e impassibile: sapeva meglio di me che era finito il tempo delle regole e dei giochi.

- Speravo che fossi cambiato e invece, sei solo peggiorato -. Delusione e tristezza si mescolavano nel suono delle sue parole, nella testa bassa, nel passo veloce che aveva ripreso in direzione dell'auto. Si sedette alla guida e non disse nulla quando si accorse che io non l'avrei seguita verso casa.

Presto il mio addio sarebbe stato definitivo.

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Il ritorno alla vita di Prinz, anzichè in discesa, è in realtà in salita.
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Se pensavate di esservi lasciati alle spalle la parte più difficile, vi sbagliate: le continue privazioni e scelte discutibili forgeranno un nuovo Prinz; così come Sarah, anche lui cambierà. E non in meglio.
~*~

Ps: "Running up that hill" è diventata molto famosa grazie a Stranger Things... in realtà, la versione a cui mi riferisco è dei Placebo ed è tratta dalla serie O.C. In questa serie tv degli anni 2000, fa da sottofondo a una scena molto importante. Chi se lo ricorda?
~*~

Stay Tuned!

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