Capitolo 2 : Babel Sin
Un enorme ragno peloso zampettava allegro nell'angolo del soffitto, trafficando con le proprie zanne. Stava arrotolando nella biancastra saliva un innocente insetto anoressico, filando su di esso un bozzolo. Lo teneva ben saldo fra le appendici ad uncino di cui era fornito, riversando in quel minuscolo corpo una dose massiccia di neurotossine, in modo da paralizzarlo. Mi avevano sempre affascinato gli aracnidi, fin da piccola mi ero sempre incantata ad osservare i loro movimenti sinuosi. Li trovavo affascinanti. Ultimamente, poi, se ne vedevano fin troppo poco. Mi sporsi dalla brandina a castello, allungando una mano verso quel grosso ragno nero ed arancione. Aveva appena lasciato in sospeso il pasto, non avrebbe mangiato subito, ma lo avrebbe comunque divorato vivo. Così sadici e letali, attirano le prede nelle proprie trappole, ragnatele tessute con grazia ed impegno maniacale, per poi banchettare con la vittima ancora in vita. Il ragno sollevò le zampe anteriori, credendosi minacciato, ma restai immobile con le dita sospese in aria, aspettando pacata una sua mossa. Fece scattare fra loro le due mascelle a tenaglia color petrolio, ma poi si avvicinò, camminando lentamente sul dorso della mia mano. Non dite così, queste bestioline hanno un cuore. Non fanno schifo, sono splendide. Sarete voi quelli inguardabili. Purtroppo non vengono considerati adeguatamente. Marciava sui miei palmi, alternando una zampa dietro l'altra. Sul letto sotto, Trevon si mosse, girandosi sul fianco. L'intera struttura vibrò alla sua azione. Posai l'aracnide sul materasso e mi lasciai scivolare a terra sulle punte dei piedi. Sulla parete accanto, Booker e Keetan ronfavano come belve col cimurro. Sgattaiolai fuori dalla stanza, chiudendo la porta alle mie spalle. Mancava ancora qualche ora alla partenza, ma ormai avevo perso il sonno. Mi stiracchiai, controllando il bracciale. Feci una scansione del sangue di routine. Tutto negativo. Un soldato uscì dai bagni, camminando nel corridoio appena illuminato dalla luce rosata dell'alba. Teneva stretto alla vita un asciugamano, mentre petto e gambe erano scoperte e ancora bagnate. Lo ignorai, cominciando a fare le flessioni mattutine sul posto. No, non sono una di quelle fissate col fisico scolpito, ma quegli esercizi mi aiutavano a sciogliere i muscoli. Oltre che, ovviamente, tenermi comunque in forma.
-Zeta. – salutò con un cenno – Già di prima mattina?
Ricambiai il buongiorno, sedendomi per fare una serie di addominali.
-È sempre il momento giusto. – risposi secca.
Sorrise e sparì nella propria camera. Probabilmente avete ragione, non sono una grande chiacchierona, ma che ci devo fare? Odio perdere tempo in inutili conversazioni futili a se stesse. Mi limito allo stretto necessario per una convivenza pacifica con tutti. Come siete pignoli. Lo ammetto, non ho molta pazienza. Sì, il cadavere sul retro ne è la conferma, ma sono fatta così gente. Prendere o lasciare. Non appena ebbi terminato la mia scheda mentale, mi recai nella zona docce. Fortunatamente era vuota. E dico fortunatamente perché le docce erano comuni. Non era predisposto un ambiente differente per le donne. Afferrai un asciugamano pulito dalla pila, o meglio, speravo vivamente che fosse pulito, ma con Herman il dubbio era solito non mancare. La stanza era abbastanza squallida, come tutta la locanda del resto. Pavimento e mura erano piastrellati di mattonelle perfettamente quadrate. Credo fossero bianche un tempo. Tutto sommato, fidatevi, era paragonabile ad un hotel di lusso. Mi privai della maglia grigia slargata, dei simil leggings altezza ginocchio e dell'intimo. Poggiai tutto in uno dei molteplici armadietti metallici. Ogni condotto della doccia era separato dall'altro attraverso dei muretti bassi che fungevano da séparé. Coprivano, per modo di dire, le zone sensibili. In realtà, bastava allungare l'occhio per scorgere e godere del panorama altrui. Ovvio che anch'io ero solita dare una sbirciatina, che diamine, mica sono una suora. Azionai il getto. Il bocchettone tremò e parve tossire. Dopo qualche scossone generale, però, riuscì a versare dell'acqua gelata. Quelle piccole gocce pesanti come macigni si infransero fra i miei capelli corvini, scivolando fin lungo il fondo schiena. Com'era il mio crine? Niente di sensazionale. Rasato ai lati, mentre al centro era completamente intatto, morbido e setoso oltre le spalle. Potevo tranquillamente spostarli da un lato all'altro del volto, nascondendo uno dei profili tosati. Vi passai le dita, districando i nodi. Adagiai i capelli sulla spalla, continuando a pettinarli. La porta sussultò. Booker apparve con il solito stuzzicadenti fra le labbra. Mi fece un cenno e si apprestò a spogliarsi. Distolsi lo sguardo, affondando la faccia proprio in mezzo al getto. Chiusi gli occhi, lasciando che quell'acqua calcarea mi inondasse. Non appena udii il rumore di un secondo bocchettone, sollevai le palpebre, voltando il viso lentamente a sinistra. Booker sfoderò un sorrisetto insolente, strusciando i palmi sul proprio petto scolpito.
-Hai bisogno di coccole? – punzecchiai, riferendomi al fatto che fosse appiccicato alla sottoscritta.
Riuscii a nascondere un tono infastidito. Fra tutte le cabine disponibili, il biondino aveva deciso di mettersi proprio al mio fianco. Non fraintendetemi, non ero molto sorpresa. In fin dei conti non era certo la prima volta che mi vedeva nuda, anzi. Ma ero consapevole del fatto che ogni sua parola, azione e gesto fossero dettati dal desiderio di importunarmi, avente come unico scopo quello di innervosirmi da mattina a sera. Devo ammettere che difficilmente falliva nell'intento.
-Non darti tante arie, Zeta. – schernì, arruffandosi le ciocche dorate sotto il fiotto ghiacciato – Da una come te non vorrei proprio niente.
Il solito simpaticone.
-Strano, Booker. – dissi, abbassando la manopola per chiudere il getto - L'ultima volta parevi di tutt'altra opinione.
Mi rinvolsi nel telo di spugna, tornando ad armeggiare con l'armadietto per riprendere i miei effetti.
-L'ultima volta ero ubriaco. – allegò, passandosi le mani sul volto – E non è stato granché.
Chiusi gentilmente lo sportello di metallo, fingendo di non essere affatto infastidita dai suoi commenti saccenti.
-A chi lo dici. – affermai, uscendo in corridoio – Pensa che ho dovuto fare tutto da sola.
Borbottò qualcosa, ma chiusi la porta affinché le sue parole potessero sbattere all'interno di quelle quattro mura ammuffite. Raggiunsi quella che poteva essere definita la nostra stanza e mi vestii velocemente, indossando gli stessi stracci del giorno prima. Purtroppo c'era bisogno di elemosinare con gli outfit. Svegliai i due pelandroni rimasti e diedi loro appuntamento al pian terreno, nel salone. Mi affrettai per le scale, facendo più gradini alla volta. Uno, perché quella scalinata di legno marcio pareva essere sul punto di spezzarsi da un momento all'altro. Due, perché erano così ripide e strette da farti prendere un coccolone ad ogni passo, oltre che temere di finire col culo a terra. Non appena sbucai dal corridoio, scorsi Herman lucidare con uno straccio il bancone. Ora, avrei da ridere sul termine 'lucidare', dato che fra le dita stringeva una pezza unta e chiazzata di nero. Ma, probabilmente, egli credeva davvero nell'azione svolta, visto il grosso impegno che vi metteva ad ogni passata. Qualche tavolo era già occupato da alcuni gruppetti di soldati intenti nello scolarsi boccali di sbobba color mogano. Doveva essere una sostanza nuova, qualcosa di simile al caffè. Herman si divertiva a giocare al piccolo chimico con le poche risorse rimaste ed ogni tanto se ne usciva trionfante con qualche nuova miscela. Le sue lenti ambrate incontrarono le mie iridi grigie e le labbra si piegarono lateralmente, formando un angolo ricurvo sul volto. Mi chiamò a gran voce, gesticolando affinché mi avvicinassi. Sbuffai, accendendo la prima di tante sigarette, e lo accontentai.
-Come mai così allegro all'alba? – chiesi, accomodandomi sullo sgabello a lui di fronte – Finalmente qualche bella soldatessa ha ceduto alle tue lusinghe?
Scosse la camicia giallo canarino, alzando il bavero sul collo, e negò con un cenno di testa. Si voltò per afferrare un bricco semi arrugginito e mi servì un bicchiere fumante della sua nuova opera.
-Purtroppo anche stanotte ho dovuto lavorare di mano. – ridacchiò, giocherellando con i grossi anelli incastonati alle dita – Ma ho apportato qualche miglioria al caffè.
Mi osservò soddisfatto, avvicinando l'oggetto dell'attenzione alle mie mani. Lo presi a malincuore, specchiandomi in quel liquido bollente. Non mi stupii di intravedere un solco ben pronunciato intorno agli occhi.
-Spero tu non stia cercando di avvelenarmi, Herman. – scherzai, prima di appoggiare le labbra al bicchiere – Lo troverei alquanto disdicevole.
Si limitò a sorridermi, appuntando gli occhiali alla bianca canotta a coste. Mentre sorseggiavo titubante la forte bevanda, mi persi ad osservare le palme stampate sulla camicia del locandiere. Davvero kitsch.
-Allora? – domandò sporgendosi, avendo notato la mia fronte aggrottata – Sapore troppo deciso?
Deglutii a fatica ed aspirai in fretta un po' di nicotina, sperando di mascherare il saporaccio rimasto al palato.
-Niente male. – mentii, pregando che ciò lo facesse smettere di creare nuovi intrugli.
Ne parve entusiasta e mi passò il posacenere. Diedi un leggero colpetto al filtro della sigaretta e la cenere crollò sulla superficie vitrea che attendeva di accoglierla. Herman cominciò a parlare del più e del meno, degli sfollati incontrati la settimana scorsa, dei mercenari che avevano trovato un'ala ospedaliera ai limiti della città, delle munizioni che cominciavano a scarseggiare, degli ultimi scambi di merce effettuata. Le sue labbra si muovevano velocemente, mentre le tozze dita sottolineavano i vocaboli attraverso la gestualità convinta. La buzza, il ventre rigonfio e tondo, sussultava quasi agli impeti del discorso, facendomi venire la nausea. Fumavo incurante delle chiacchiere che mi erano rivolte, gettando nell'aria cospicue nuvolette bianche. Sebbene Herman fosse un buon amico, spesso mi faceva rintronare il cervello. Perché continuavo ad ascoltarlo? Semplice. Se ciò mi consentiva di ricevere armi sottobanco, sigarette ed alcool, avrei fatto questo ed altro. Insomma, tanto valeva lasciarlo parlare da solo per ore, rischiando di condannare a morte alcuni dei miei neuroni, pur di ottenere ciò che desiderassi, no? Mi sembra abbastanza equa come cosa. Di punto in bianco, notai che la sua voce si era interrotta e che le sue braccia erano costrette al petto. Ottimo, mi ha rivolto una domanda. Se tu imparassi ad ascoltare, Zeta. Già mi pare di sentirvi.
-Tu non dormi abbastanza. – formulò, ipotizzando che la mia distrazione fosse dovuta dalla stanchezza, e non dalla carrellata di informazioni inutili da lui esposte.
Sollevai leggermente le spalle, spegnendo la cicca. Soffiai l'ultimo ammasso di fumo intrappolato nei polmoni e finalmente gli rivolsi parola.
-Stronzate. Dormire è una perdita di tempo.
-Ne riparleremo quando un giorno crollerai sul pavimento.
Mi sfuggì una smorfia di dissenso. Il locandiere era un uomo alquanto singolare, ma pareva aver sviluppato una certa simpatia nei confronti della sottoscritta e dei miei compagni. Si comportava quasi come un padre in determinate occasioni. Forse era questo il motivo per cui, nonostante le innumerevoli stronzate dette o fatte, egli si reggeva ancora in piedi sulle proprie gambe.
-Facciamola poco lunga, Herman. – tagliai corto – Ripetimi la domanda.
-Ti ho chiesto della missione. – informò, servendo un uomo brizzolato – Di cosa si tratta stavolta?
Guardai d'istinto il bracciale, osservando il piccolo schermo rettangolare nero.
-Niente di estremamente complicato o divertente. – esposi, massaggiando l'attacco del naso con indice e pollice – In laboratorio hanno terminato i campioni per gli studi, serve un altro rifornimento di sangue zero negativo.
Herman mi guardava increspando gli occhi, quasi avesse qualche dubbio al riguardo. Poggiò tutto il peso sulle braccia, avendo i palmi ben distesi sul bancone.
-Mi chiedo quando quei cretini dell'Ordine riusciranno a combinare qualcosa.
Gli afferrai la manica e lo strattonai in avanti con uno scatto felino, facendogli perdere l'equilibrio di proposito. La sua fronte crollò sul duro legno da poco spolverato e una serie di imprecazioni furono sussurrate a denti stretti. Lo alzai, sollevandolo per il collo della camicia.
-Abbi l'accortezza di parlare a bassa voce almeno, brutto coglione. – ringhiai in un sibilo – O vuoi farti ammazzare?
Ci sono tante regole, ma una su tutte vige maggiormente. Mai, e dico mai, dire una stramaledettissima parola di troppo sull'Ordine, almeno che non si abbia la malsana idea di morire. Purtroppo gli alti capi non hanno di buon occhio gli insulti, scorgono il peggio dietro un vocabolo storto. Non mi sento di darvi torto, sono parecchio suscettibili, ma vi consiglio di tenere per voi ogni opinione che potrebbe mettere in pericolo la vostra vita. Non c'è margine di errore. La parola sicurezza non esiste. Non puoi mai sapere chi hai intorno. Qualcuno potrebbe fare la spia. Il motivo chiedete? Beh, c'è chi crede che Nimrod possa risarcire le informazioni con un trattamento di riguardo. Per il momento, però, non ho prove al carico.
-Porca puttana. – farfugliò Herman, tastandosi un abbozzo di bernoccolo – Dovresti rivedere i tuoi modi, cazzo.
Avrà anche ragione, ma quest'idiota non impara mai a tenere chiusa quella maledetta fogna. Passai le dita fra la lunga chioma, percependola ancora umida. Puntai poi le pupille sulla parete destra, osservando la situazione all'esterno oltre gli spessi vetri delle finestre.
-C'è stata un'altra stronza delle solite. – riferì il barman – La sabbia si sta posando adesso.
Nell'angolo di mondo in cui Babel Sin potesse mai insinuarsi, Herman aveva fatto fortezza proprio nella steppa. Unico luogo lontano dallo schifo della città, unico posto dove sfollati e ribelli non osavano avvicinarsi. Dopotutto, per quanto riguarda i ratti, c'erano troppe miglia da percorrere a piedi. Troppa strada sotto al sole cocente. Zero alberi, zero ombra. Zero edifici dismessi, zero razioni. Insomma, questo perimetro era stato raso al suolo, bruciato al contatto delle armi nucleari.
-Io non mi lamenterei. Ultimamente le tempeste di sabbia stanno diminuendo.
Non parve del mio stesso parere, ma cambiò discorso.
-Vedi di tornare intera. – parlò pacato, quasi si fosse dimenticato dell'enorme bozzo sulla fronte.
Seguii il suo sguardo, notando la mia squadra già pronta alla porta. Fucili d'assalto, borsone con gli esplosivi, equipaggiamento ordinato. Se ne stavano in piedi ad aspettare il loro capitano. Feci loro un cenno con la mano, ruotando il polso per indicare la soglia. Annuirono incappucciandosi o portando sul naso alcuni stracci, affinché la densa nube di sabbia non fosse respirata, ed uscirono a preparare il mezzo.
-Sono mai tornata con un graffio? – sottolineai, sollevando un sopracciglio.
-Non fare tanto la gradassa, Mandorla. – replicò, aggiustandosi il riporto – Hai già dimenticato quando ti sei presentata da me con tre costole incrinate, gamba destra rotta, spalla lussata e polso slogato?
Inspirai, alzandomi. Estrassi dalla profonda tasca del cappotto il mio amato foulard rosso, intrecciandolo al collo. Sollevai il lembo di questo fino alle gote ed indossai gli occhiali circolari antisabbia.
-Come dicevo, senza un graffio! – gli sorrisi, raggiungendo i miei compagni.
Booker perse una quindicina di minuti circa a ripulire il motore del nostro bolide, la sabbia si era insinuata in ogni dove. Era già tanto se non l'avevamo nelle mutande. Il furgoncino di cui disponevamo, non era altro che un cellulare, ex veicolo ad uso della polizia penitenziaria per il trasporto dei detenuti, riciclato e modificato. Avevamo debellato ogni traccia dei sedili posteriori, sostituendoli con due panche metalliche laterali. La vettura era stata inoltre rinforzata, resa praticamente blindata. Qua e là era visibile qualche ammaccatura, ma per il momento resisteva. Keetan fumava torturandosi di tanto in tanto il ciuffo scompigliato sulla fronte, camminando in circolo attorno al mezzo, giusto per controllare il lavoro del meccanico. Trevon, al contrario, rimase calmo e silenzioso al mio fianco, limitandosi come la sottoscritta ad osservare la scena. Finalmente, un pollice alzato sbucò da dietro il cofano sollevato e ciò fu il segnale che annunciò la nostra partenza. Molotov lanciò via la striscia di tabacco, sebbene non terminata, e si posizionò al volante. Stuzzichino occupò il posto del passeggero, mentre io e Gorilla rimanemmo sul retro. Il polveroso pezzo di latta sfrecciava sulle strade deserte, sussultando puntualmente ad ogni buca incrociata. Ogni qual volta che i pneumatici affondavano in una di queste, noi venivamo sbalzati in aria di qualche centimetro, a causa della velocità tenuta, e Trevon, povero energumeno, sbatteva la testa calva al tettuccio. Sebbene lo avessi sollecitato a sdraiarsi sulla panca, come giustamente avevo già provveduto a fare, egli pareva non darmi ascolto. Probabilmente riteneva opportuno scuotere le cervella in quella tortura infinita. Notai Keetan posare spesso le pupille grigio - cobalto sullo specchietto retrovisore, chiedendomi se non prendesse ogni fottuta buca di proposito. Non appena udii la risata soffocata di Booker, non ebbi dubbi al riguardo. Fin tanto che Trevon era bloccato qua dietro, quei due cretini erano salvi, ma non potevo dire lo stesso per quando avremmo posato le suole sull'asfalto della metropoli. Ad ogni modo, non è che fossi elettrizzata per la missione. Ultimamente l'Ordine ci stava rifilando lavoretti di poco conto. E menomale, starete pensando. Ma per una come me, no, non è affatto una fortuna, anzi, la più completa noia. Era passato all'incirca un mese dall'ultima vera missione degna di questo nome, per il resto solo bazzecole come il recupero di mercenari voltafaccia, di medici utili nascosti fra gli sfollati, di pulizia dei pochi quartieri militari rimasti. In parole povere, niente di eccitante. Oltretutto, odiavo andare a grufolare fra i rifiuti della città in cerca dei ratti, persone infette o inutili per il ripristino dell'umanità. C'era sempre il rischio di incrociare quegli esseri, bestie mutate a causa dell'esposizione forzata alle radiazioni. Avete mai visto cani aprirsi letteralmente in tre parti per divorarvi? Beh qui non mancano. Ed è solo uno dei tanti esempi. Girano diverse voci sui mostri che sono nati negli ultimi secoli, chi dà la colpa alle armi nucleari e chi dà la colpa alla scienza, ai tentativi falliti di cure subdole e dubbie. Qual è la realtà? Nessuno di noi ne ha la più fottutissima idea. In fin dei conti, parliamoci chiaro, farebbe qualche differenza? Cosa vuoi che te ne freghi di chi ha creato la bestia che sta divorando un tuo compagno, o se non peggio, te stesso? In sostanza, è inutile farsi troppe seghe mentali. E datemi retta, per una buona volta. Il rumore del lungo vetro rettangolare posto sulla parete dell'abitacolo, la quale fungeva da séparé fra noi e loro, mi distrasse. Booker fece scorrere quella lastra trasparente, richiamando la nostra attenzione.
-Siamo arrivati. – informò, posando lo stuzzicadenti sull'orecchio destro.
Trevon fece scrocchiare l'osso del collo con naturalezza, socchiudendo le palpebre.
-La zona? – domandai, controllando di aver inserito un colpo in canna.
-Tutto calmo e silenzioso, al momento. – si aggiunse Keetan, spegnendo il motore.
Uscimmo dalla vettura, tornando a respirare un poco di aria fresca, sebbene contaminata, non se ne avvertiva l'odore. Analizzai la percentuale di tossicità attraverso il sensore di cui era dotato il bracciale. Non era elevata, perciò vi era una buona probabilità di incrociare qualche sfollato. Fortunatamente con le dosi eravamo a posto, immuni alla possibile infezione. Ci guardammo attorno, ritrovandoci per l'ennesima volta faccia a faccia col passato, macerie di una metropoli ormai caduta. Booker passò a tutti noi un fucile d'assalto. In questi casi era praticamente inutile fare appello alle proprie specialità. Se avessimo incontrato i ribelli, avremmo dovuto far fuoco all'istante. Calciai qualche frammento di cemento al suolo, sollevando un cumulo di polvere, costituito dai residui della città.
-Allora, Zeta. – parlò a labbra serrate Keetan, temendo che la sigaretta potesse scivolare – Da dove iniziamo?
Squadrai il circondario con un'occhiata fugace, prima di tornare ad imbracciare l'FN F2000, fucile bullpup dotato della capacità di sparare 850 pallottole al minuto. Perdonatemi i termini specifici, a volte dimentico che siete ignoranti del mestiere. Con bullpup si intende un'arma da fuoco in cui l'otturatore, il sistema di scatto ed il caricatore sono posti dietro il grilletto, all'interno del calcio. Ciò permette di avere un mitra od un fucile più corti a parità di lunghezza della canna. Sono ottimi per i spazi ristretti, dato che avremmo dovuto scandagliare i palazzi rimasti intatti.
-Uno vale l'altro, ho la sensazione che perderemo tutta la giornata in questa discarica. – proferii, osservando gli edifici.
-A te qualcuno ispira? – domandò Booker al fumatore, chiudendo gli sportelli posteriori del furgone.
Keetan si accigliò, cercando di scorgere i profili dei palazzi senza restare accecato dai raggi solari. Indicò quello più stabile alla vista.
-Questo belloccio qua a sinistra. – mormorò deciso.
Annuii, già facendo qualche passo in quella direzione.
-Sei d'accordo, Trevon? – aggiunse poi, affiancandolo.
-E ti aspetti una risposta? – rise Booker, raggiungendomi con passo svelto.
Keetan sollevò le spalle, piegando le labbra in una smorfia, mentre la vittima si limitò a restare impassibile, come se non fosse affatto importunato dalle chiacchiere del biondo. Soltanto quando fummo a quella che poteva essere chiamata 'entrata' , Gorilla si decise ad aprire bocca, sorprendendoci.
-Al ritorno guido io.
Ci superò e varcò la soglia. Guardai i due uomini rimasti, sorridendo loro. Ero convinta che avrebbero trovato il viaggio molto stimolante. Si scambiarono un'occhiata remissiva, dopotutto se l'erano cercata. Trevon ci fece segno che il piano terra era pulito, perciò ci affrettammo a salire le scale. Esattamente come sotto, il posto non era altro che uno sconfinato mare di robaccia di poco conto. Il locale doveva appartenere a qualche azienda in passato, visto la grande quantità di rottami di computer e pile cartacee sparse ogni dove. Le diverse porte più o meno ancora incollate ai cardini, parevano consentire l'accesso a molti uffici. Sarebbe stata una vera fatica perlustrare ogni angolo che potesse fungere da rifugio agli sfollati. Voglia zero. Non fraintendetemi, non sono una sfaticata. Purtroppo questo è il genere di missione che va per le lunghe. Speravo soltanto di poter tornare alla locanda in tempo. Per cosa, chiedete? Beh, per trovare Herman ancora in piedi. Odio dovermi servire l'alcool da sola.
Angolo autrice
Eccomi tornata con un secondo capitolo. Sì, qui c'è meno azione, ma l'ho fermato proprio in questo punto perché nel prossimo si entrerà nel vivo della missione. Diciamo che questo è concentrato su Herman e, più in generale, sui possibili caratteri del team.
Cosa ne pensate per il momento?
Non mancate a lasciare un opinione, un bacio.
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