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Solo lui

Solo lui conosceva il motivo per cui era piombato su quelle montagne, una delle ultime sere di primavera, quando ancora il fresco giunge benvenuto alla fine della giornata. Era stata la prima di una lunga serie di giornate afose, e mentre cenavo con mia moglie nel silenzio della familiarità domestica, lui aveva bussato alla nostra porta con forza rumorosa, e subito si era scusato con un enorme sorriso.

Solo lui sapeva come era piombato a casa nostra, una baita in mezzo alle montagne un po' più su della foresta, un po' più giù dei primi ghiacciai. Pensavo che sicuramente era stato indirizzato, anche se lui, sempre sorridendo, giurava di non essere stato al villaggio giù nella valle, anzi affermava di aver avuto solo fortuna ad averci trovato. In quel momento pensai che fosse venuto a prendere la mia donna e per qualche minuto la mia diffidenza verso di lui non era stata delle minori.

Solo lui sa come è riuscito a rassicurarci con il suo sorriso largo, con la sua barba ben curata, folta ma non troppo, nera ma allegra. Alto, robusto, ben equilibrato, aveva delle grandi spalle e grosse mani, ma non callose: non era un lavoratore, ricordo di aver pensato, scuotendo la testa. Ora, ripensandoci, mi accorgo di quanto fosse affrettato quel giudizio. Dopo che quelle mani avevano portato avanti il duro lavoro del boscaiolo, sono sicuro di non aver visto nemmeno il più piccolo indurimento o escoriazione duratura.

Solo lui potrebbe spiegare come è  riuscito a convincermi ad aiutarlo a farsi una casa vicino alla nostra. Aveva da scegliere un'intera montagna, anzi una catena montuosa, abitata da pochissime persone, e sembrava strano che volesse stare accanto a noi. Normalmente, chi ha una donna o una famiglia, abita lontano dagli scapoli come lui. Ma anche lei, mia moglie, era convinta che non fosse un tipo pericoloso e non aveva voluto sentire storie. E io avrei fatto tutto per mia moglie: non eravamo riusciti ad avere dei figli e lei se ne doleva moltissimo. E il suo dolore la ravvicinava sempre di più a me, come il mio a lei.

Solo lui sa come è riuscito ad imparare il mestiere prima che me ne fossi accorto. E in breve tempo passò dal chiedermi in cosa consisteva il mio lavoro a quando riusciva a far cadere un albero ancora prima io ne avessi avuto l'intenzione. Grosse risate e pacche sulle spalle: lo ricordo così, gioviale, sempre pronto ad aggiudicare alla fortuna se riusciva in poco tempo a ripulire un tronco gigantesco o se impiantava in un solo pomeriggio un'intera parete della sua nuova casa.

Solo lui può spiegare come fosse riuscito a dormire nella sua casa per due o tre settimane senza stufa o coperte. E come riuscì a tornare su dal villaggio carico come un mulo, con la nuova stufa, il pentolame e gli attrezzi appena acquistati. A volte la sua forza e la sua tenacia mi stupivano: mi ricordo che la prima volta lo avevo osservato afferrare un tronco e sollevarlo, mentre io stavo cercando di spiegare come legarlo per trascinarlo al fiume. Lui si fece una grossa risata, lo lasciò andare, lo legò e lo trascinò. E così ogni volta che la sua forza poteva mettermi in soggezione o la sua abilità suscitare invidia, subito lasciava andare e con una pacca sulle spalle rifaceva il lavoro allo stesso mio modo.

Dopo tre lunghi mesi di lavoro fatto insieme calarono le prime avvisaglie dell'inverno; lui mi accompagnò a valle a vendere il legname raccolto sul fiume. E non volle nemmeno accettare la mia offerta di dividere equamente il guadagno. A lui sarebbe toccato il settanta per cento, vista la mole di lavoro che aveva portato avanti, ma lui sorridendo diceva che io avevo una famiglia da mantenere.

Fu quella sera che gli dissi, davanti al focolare, assieme a mia moglie, che sicuramente non avremmo mai avuto una famiglia completa. Ormai eravamo sposati da nove anni e disperavamo che ci fosse qualche speranza di avere un figlio. Avevamo rinunciato ad averne uno adottivo, perché i giudici avevano ritenuto non adatta la vita tra le montagne e magari avevano anche ragione.

Lui fece qualche cenno di comprensione, poi cambiò discorso e continuammo a parlare dell'inverno prossimo a venire.

Stranamente né io né mia moglie ci eravamo posti il problema di chiedere qualcosa di lui, e quando lo facevamo riusciva ad evitare tanto abilmente quanto amabilmente il discorso che non ci ricordavamo più le nostre intenzioni.

Bellissime erano comunque le chiacchierate davanti al camino, con le fiamme traballanti e le ombre allegre sulla parete opposta, i racconti roboanti nell'aria e le risate alle panzane più grosse. Fra noi era nata la gara di chi avesse preso la trota più grande o abbattuto l'abete più dritto e le descrizioni erano così divertenti, quanto inverosimili, che alla fine piangevamo tutti dal ridere.

Era bello stare con lui. In realtà sembrava non sapesse nulla della vita o almeno dava l'impressione di sapere tutto ma non aver mai provato a far niente. Voleva sapere, conoscere, fare. Gli insegnai a costruirsi una canoa per andare su e giù per il fiume, a preparare delle trappole per avere qualcosa di meglio da mangiare, anche a pescare con la lenza, figuratevi. Bisogna pure dire che dopo avergli spiegato una cosa, magari nei dettagli più inutili, egli diventava imbattibile. Ma la sera metteva allegramente tutto in ridicolo, come se la sua capacità di imparare fosse tutto frutto della fortuna, evidenziando piuttosto la sua ignoranza in tutti i campi.

A volte era come un grosso bambinone, guardava per ore le manguste sui pendii o il calare lento del sole in un tramonto colorato. A volte voleva sapere di tutto e fare tutto, la volta dopo la sua saggezza era infinita, le parole dette al momento giusto e la barba nascondeva il giudizio corretto. Era come un uomo vissuto che non ricorda più come si fanno le cose, ma era giusto e previdente, non sbagliava una parola.

Tutto era andato in modo stupendo fra di noi, l'atmosfera era sempre brillante,  i primi fiocchi di neve ci colsero spensierati. Ma non poteva durare.

È ovvio, le cose belle non durano mai molto. Ma è anche vero che non vanno mai via definitivamente, lasciano sempre un ricordo di sé.

Alla fine di ottobre, un paio di giorni prima di novembre, accadde l'incredibile. All'inizio sembravano due visitatori qualsiasi, non che ce ne fossero molti, ma passavano sempre dei cacciatori o esploratori da quelle parti. Questi arrivarono a cavallo.

Alti, due figure imponenti, ne vedemmo all'inizio solo la testa. Poi all'orizzonte sorse il loro sussultante corpo ed infine il cavallo, come se invece di venire da lontano sorgessero da terra. Eravamo sul davanti della casa, quando vedemmo uscire pure lui sul davanti della sua.

Ci guardò con uno sguardo fermo, ma con un lampo di tristezza. Era la prima volta che lo vedevamo non sorridente, ma il suo atteggiamento era di attesa di un fatto noto. Lui sicuramente sapeva chi erano costoro. Ci guardammo con mia moglie e al volo ci capimmo, come sempre: anche lei pensava che forse lui non era del tutto a posto con la legge e ora la legge lo cercava.

Lui ci guardò e ci gridò, come se avesse sentito i nostri pensieri:

- Non è la legge che pensate voi, amici miei, ma legge è.

Non feci in tempo a rispondere, che lo scalpitìo dei due a cavallo mi fece girare a guardare l'orizzonte. Erano molto più alti di quanti mi aspettassi; una volta scesi da cavallo si diressero con passi imponenti e calma sovrana verso la sua casa. Non avevano uniforme, notai. Che razza di persone erano quelle?

Provai a gridare qualcosa nella loro direzione, ma uno di loro mi prevenì e guardandomi con un sorriso di compassione, mi paralizzò. Ma non solo per modo di dire.. mi paralizzò fisicamente, e uguale fu l'effetto su mia moglie al suo sguardo. Assistemmo alla vicenda come due spettatori e non ci riuscì più di dir nulla.

Si avvicinarono a lui:
- Salve, Etorrus.

Etorrus? a pensarci bene, non mi ricordo più come lo avessimo chiamato fino a quel momento.

- Salve, Messaggeri. Cosa volete da un uomo? - disse lui con parole sicure e sguardo fermo.

- Uomo.. e lo sostieni pure. Ma la tua avventura è finita l'altra sera, lo sai.

L'altra sera? Era stato con noi nelle ultime due settimane, a meno che non andasse al villaggio a notte inoltrata per tornare prima del mattino. Che ne sanno loro due, di quello che avrebbe fatto l'altra sera?

Uno di loro due si girò verso di me e disse, rivolto sempre a lui:
- E perché hai lasciato a questi due la facoltà di ascoltarci? Non ti sembra un po' inutile, ormai? Magari credi che ti possano aiutare in qualche modo, Etorrus?

- Perché mai dovrei nascondere loro qualcosa? E anche se la raccontassero in giro, chi credete gli crederà, o miei fidi Messaggeri?

- Basta. Sai cosa siamo venuti a fare e quindi è inutile ogni discussione. Però mi sembra strano che sia successo a uno come te, uno dei più antichi.

- Diventare uomini non è una punizione. Come fai a giudicare, parlare, dire saggezze se non hai mai provato a vivere? Guardate, io ho finalmente vissuto!

I due Messaggeri si guardarono l'un l'altro, con lo sguardo di chi non capisce ed è tentato piuttosto di compiangere.

- Ho imparato più cose in questi tre mesi, che voi negli ultimi tre millenni. L'osservazione è bella, la divinità è potenza, ma solo l'umanità è felicità. Se non hai mai provato dolore, se non hai conosciuto un uomo che non ti prega, se non hai mai dovuto sudare per ottenere il pane da mangiare, hai veramente vissuto? Nella stasi dei tempi immortali non c'è differenza fra passato e futuro, invece se vivi scopri che il presente è più reale, anche se scorre via nel momento stesso in cui lo guardi.

- Forse hai ragione, Etorrus. Ma hai sbagliato e sai che un dio che commette un errore non può esistere.

- Lo so, lo so. Ci ho pensato molto. Ma la mia umanità, o almeno, la parte che voleva vivere come umana è consapevole della contraddizione. L'errare non è umano, d'altronde? Ma io ho provato molta gioia nel mio errore, sapete...

- Gioia nell'errore!? - i due erano sbalorditi, visibilmente stupefatti.

- Sì, lo so. Noi dei rimaniamo tali perché non sbagliamo. E adesso comprendo perché tutti gli dei che hanno voluto vivere da uomini prima o poi hanno fatto un errore, perdendo il diritto di essere dei. Questa è una storia a cui non credevo neanch'io.. ma che ora conosco perché l'ho vissuta e capisco.

- Vivere da uomini... puah! E intanto tutti quelli che hanno detto "voglio vivere da uomo" poi dopo un po' ti fanno il loro miracolo, ben sapendo che le nostre leggi non permettono di mantenere la divinità dopo un siffatto errore. E si che dopo vivrai da uomo, se vieni cacciato dal pantheon.

- Non è una punizione, Messaggeri. Essere costretto a rinascere e morire come uomo non sarà una punizione. Lo so, adesso per voi potrebbe sembrare una vita di inferno, ma potrò finalmente provare tanto felicità quanto il dolore che sopporterò, e non sarà felicità contemplativa.. quella la lascio a voi.

- Non ti capisco, Etorrus. Un dio saggio come te, un'eternità di saggezza, e poi come tanti altri ci sei cascato.. - disse il più anziano.

Etorrus scosse la testa e proseguì: -Andiamo amici, è stato un miracolo piccolo, piccolissimo, ma sono contenuto di averlo fatto!

I due, intanto, avevano preso sotto braccio Etorrus si allontanavano, col più anziano che andava borbottando "gioia nell'errore.. mah"

Io, attonito e stupefatto, continuavo ad arrovellarmi per cercare di capire tutto questo discorso che avevo ascoltato, ma che facevo fatica a credere di aver sentito. E un dubbio mi si aggirava in mente: che miracolo aveva fatto quel dio caduto in disgrazia? Che miracolo? Girai gli occhi attorno a cercare qualche segno di quel miracolo, poi abbandonai l'idea, visto che ero ancora paralizzato.

Ad un certo punto, la domanda "che miracolo?" fu così forte nella mia mente, che uno dei due si girò, mentre Etorrus era di spalle: - Avrai un figlio, uomo!

Solo lui sa quanto quel miracolo valesse la sua divinità.

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