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L'arte dell'amare

C'era una volta, ai tempi augustei di Roma, un Patrizio ricchissimo, che viveva in una meravigliosa villa sulla costa, dove l'aria era impregnata di salsedine e non vi era che la reggia per miglia e miglia.
Nella sua casa il Patrizio ospitava innumerevoli schiavi e bestie, creature tra le più belle e rare delle terre conosciute.
Passeggiando per i suoi terreni, si sarebbero potuti incontrare cavalli da corsa, cani purissimi, gatti egiziani, mucche pregiate, volatili dalle terre del nord e dalle terre del sud, coloratissimi, tartarughe, cervi, antilopi, asini robustissimi, conigli, volpi, orsi, capretti e pecore.
Nessuna creatura lì presente era stata scelta a caso: ognuna era stata selezionata con estrema cura, la più bella di ogni specie, le favorite dagli dei; ma tra tutte, le due creature più speciali nella sua collezione erano il suo gatto persiano ed Elena, la sua schiava personale.
Ella era bellissima, di una bellezza celestiale, che avrebbe fatto invidia a Giunone.
Il padrone le aveva affibbiato quel nome sin dal giorno in cui l'aveva comprata, molti anni prima.
Gli era costata una cifra altissima, quasi quanto il gatto! Ma, tutto sommato ne era valsa la pena: al suo arrivo aveva solo quattordici anni ed era piuttosto sottopeso.
Avevano avuto occhio, il signore!
Una volta sfamata come Giove comanda le erano venute certe curve...poi il tempo aveva malleato quel suo corpicino in forme deliziose, degna dei dipinti più allettanti.
Elena era così bella che il signore fu presto costretto a nasconderla, temendo che se i suoi amici di città l'avessero ammirata, lo avrebbero spronato ad affrancarla.

Quale fandonia! Rendere gli schiavi liberti era un vero disonore, agli occhi del padrone: perché buttare così un tale investimento? Perché è troppo intelligente? Perché è troppo bello? Fandonie! Neanche se gli avesse salvato la vita l'avrebbe lasciata andare! Neanche se fosse stato sua maestosissima altezza l'imperatore!
Lui ci teneva alle sue cose!

In realtà la ragazza nemmeno si ricordava chi fosse o cosa facesse prima di arrivare lì, diventare all'improvviso la serva del padrone aveva richiesto grande impegno e tutte le sue forze: doveva curare il suo aspetto, parlare latino come se fosse nata romana, conoscere l'etichetta, sapere come servire, sapere come prevenire e soddisfare ogni capriccio del padrone.
Non aveva contatti con nessuno, eccetto il signore.
Gli altri servitori non avevano il permesso di rivolgerle la parola, ed ella era stata sistemata nella stanza dei gatti, la più vicina allo studio del patrizio.

Un giorno, però, gli dei sembrarono sorriderle.

Alla villa era stato invitato un uomo, un pittore, il cui compito era quello di ritrarre e rendere eterna la bellezza di alcune delle bestie più preziose che il signore allevava.
Il giovane iniziò da una volpe ramata, direttamente dalla Gallia, poi toccò al suo pregiatissimo stallone spagnolo e infine l'amato gatto persiano.
Fu grazie a quel rognoso e viziato gatto, scappato a metà dell'opera, che il pittore iniziò a girare per la reggia, inseguendo la creatura come un disperato, fino ad entrare in una bizzarra stanza.
Da una parte vi era un bel letto, una toilette con delle porcellane e una panca con sopra una morbida coperta rossa.
All'altro lato della camera, invece, si ergeva una  strana struttura di cuccette, il cui ordine ricordava le ninfee.
In uno dei "fiori" più alti si era coricato il malizioso gatto, che si disturbò perfino a guardare il giovane con un'espressione sorniona.
Egli lo maledisse a denti stretti e si protese per prenderlo, ma il rumore della porta lo fece sobbalzare, distraendolo completamente.
Nella stanza era entrata la fanciulla più bella che avesse mai visto, davvero la più incantevole e angelica, la più divina e dai tratti più perfetti che avesse mai potuto ammirare.

La sua pelle sembrava liscia e morbida come quella dei bambini, i suoi occhi erano grandi e azzurri come un cielo terso, i suoi capelli lunghi erano castani, ma anche ramati, acconciati in modo impeccabile.
Le labbra erano perfettamente definire, carnose e dal colore intenso, come se le avesse macchiate di ciliegia.
Non era nulla di disordinato in lei, neanche se si fosse impegnato tutta la vita sarebbe stato in grado di immaginare una donna così bella, seducente e raffinata, sia pacata che con un affascinante guizzo di vivacità negli occhi.

Però, quegli stessi occhi, in quel preciso istante erano sgranati per lo sgomento di trovare uno sconosciuto nella propria stanza.

"Voi chi siete?!" Domandò intimorita, armandosi della prima cosa che le capitò in mano: una spazzola.
"So-sono il pittore...gatto..." cercò di dire lui, attonito da quello splendore.
"Che ci fate qui?"  Continuò lei.
"Gatto..." seppe solo ripete il giovane.
"Gatto? Oh, oh! Ulisse! Ma certo! Lo so, è molto capriccioso.
Quindi non mi farete del male?" Parlò incerta.
"No...no, no!" Esclamò.
"Davvero?" Chiese per sicurezza.
"Assolutamente." Confermò.
"Bene, vi prenderò il gatto, poi ve ne andrete prima che il padrone vi trovi." Affermò lei.
"Padrone?" Domandò il giovane, piuttosto confuso.
"Io appartengo al mio signore, il padrone di questa casa." Spiegò.
"Non ti ha affrancata? La tua bellezza è superlativa...dovresti essere una liberta."commentò sorpreso.
"Il mio padrone mi vuole al suo fianco, non rinuncerebbe mai a me." Ammise con una nota di amarezza.
"Non avevo mai sentito dire che il patrizio avesse una schiava tanto splendida." Constatò lui ad alta voce, mentre la donna gli metteva tra le mani Ulisse, il quale era visibilmente scocciato.
"Prendete il gatto e andatevene..." gli ordinò lei, tentennando sull'aggiungere altro.
Il pittore la scrutò, poi con un sorriso beffardo disse: "tornerò".
Ad Elena comparve un sorriso, mentre si appoggiava alla porta da cui lui era appena uscito.

Non le sembrava vero di poter parlare con qualcuno...un uomo libero!
Tante volte aveva provato vanamente a comunicare con le cameriere, ma queste non le rispondevano mai.
Doveva ammetterlo, vedere uno sconosciuto nella stanza l'aveva scossa, ma di fatto il suo atteggiamento impacciato e la sorpresa le avevano almeno assicurato che non fosse un'assalto programmato.
Le aveva parlato! Qualcuno le aveva parlato!
Come vale il prezzo di un suono sfuggente nell'aria, ma eterno nello spirito.
Aveva passato anni a vedere sempre le stesse persone, ed udire la voce di solo una.
Finalmente uno spiraglio sul mondo esterno, che era più di quanto il tempo le aveva lasciato sperare.
Quella piccola speranza le parve come una boccata d'aria dopo aver nuotato per innumerevoli secondi nelle acque più profonde di quel mare, tanto bello e tanto lontano, che poteva solo mirare dalla finestra dello studio.
Ci aveva pensato a lungo, con ardore, a cosa avrebbe fatto se fosse stata libera.
Ne era certa, ormai, avrebbe cambiato nome, costruito una casa con il proprio amore, avrebbe corso per i prati e sulla spiaggia, poi avrebbe coltivato moltissimo frutti diversi e avrebbe portato con se anche il povero Ulisse, che per quanto le stesse antipatico, era pur sempre il suo più caro amico.
Avrebbe fatto la sarta, in fondo si cuciva tutti i vestiti e si occupava del guardaroba del padrone.
Avrebbe avuto una famiglia tutta sua e avrebbe gestito la sua casa secondo i moti del proprio animo.
Avrebbe ballato e provato tutto quello che la vita le avrebbe offerto, senza rimorsi.
Si sarebbe appartenuta e il mondo sarebbe stato alla sua mercè, mai più nascosta in una stanzetta con Ulisse.

Quel gatto, viziato, permaloso, pigro, apatico, egoista, che passava le notti a russare e la mattina se lo ritrovava addosso, oppure le faceva vili dispetti, a cui in fondo in fondo voleva anche un po' bene, ma più per abitudine, le aveva fatto un gran bel regalo.
Come un messaggero di cupido, iniziò a guidare Elena e il Pittore ai loro incontro segreti.
Sotto i baffetti, sfoggiava sempre un sorriso malizioso e lo osservava con finta noia, mentre si avvicinavano, conoscevano, annusavano, squadravano, capivano.
Li canzonava, sbadigliando per la goffaggine dell'artista, o sbuffando per le reazioni della musa.

Furono le settimane più belle delle loro vite e il ritratto di Ulisse? Sembrava che fossero stati gli dei a guidare la mano del pittore.

Il padrone era così soddisfatto!
Lo pagò anche più di quanto avessero pattuito e lui prese i soldi con amarezza, mentre sentiva Elena sbirciare quell'incontro dalla fessura della porta.
Egli quasi implorò che gli venissero commissionati altri lavoro, che onestamente avrebbe fatto anche senza retribuzione, pur di crogiolarsi dello sguardo dell'amata, ma la sua permanenza nella villa del Patrizio era finita.

Sconquassato nell'animo e sconfitto nella mente, lasciò quel posto, scrutando ogni particolare e macchinando un modo qualsiasi, anche il più sciocco e disperato, per rivederla.

Intanto, nella casa, Elena si sentì come risucchiata dalla tristezza, a tratti simile all'annegamento negli abissi marini, per altri caotico come un tornato.
Ecco, era nel mulinello della tristezza.
La sua mente era così affollata dal pittore, che ogni suono sembrava attutito, la vista ritardata rispetto ai movimenti e il corpo non le apparteneva più.
La sua sbadataggine la portò anche a ferirsi con la carta, mentre assisteva fedelmente il padrone.

Lui la guardò, quasi sorpreso, mentre ella si portava il polpastrello alle labbra carnose, rosee e delineate.
Glielo prese furiosamente e lo fermò proprio davanti ai suoi occhi.
Il sangue cremisi le sgorgava piano piano, formando una cupola e poi espandendosi, sporcandola.
Vedendo la perfezione della sua pelle lenita da quel piccolo, innocuo taglio, un pensiero repentino gli attraversò la mente: il tempo, che fino ad all'ora l'aveva cullata, baciata e imbellettata, presto l'avrebbe picchiata, logorata e tradita.

Non la parola, ne il nome, ne i tratti o la natura la differenziavano dagli altri animali davanti al tempo e così, proprio come aveva fatto con ogni bestia preziosa della sua collezione, fece chiamare una pittrice alla villa.
Ovviamente, nessun uomo avrebbe potuto vederla oltre a lui, ma una donna...si, una donna si.
Così, una certa Flavia di Cartagine giunse lì e conobbe Elena.
Secondo gli ordini del patrizio, si sarebbero solo potute parlare per mere questioni sceniche e tutto accadde sotto lo sguardo attento di lui.
Quando ebbe finito il primo tentativo, molto sobrio e raffinato, piuttosto semplice e fedele, questo fu esposto nello studio del patrizio, che volle ragionare sulla effettiva realisticità.
"Sono i capelli" osò dire un giorno Elena, mentre serviva il vino.
"I capelli?" Rispose lui, sorpreso e offeso da quel primo atto di insolenza, ma anche curioso.
"I miei capelli hanno più sfumature e sono più lucidi...vorrei che li avesse fatti uguali a quelli originali, come il gatto riflette la luce in quel quadro." Spiegò lei, piano, soavemente, controllando una calma sconosciuta.
"Mai! Un uomo ha fatto quel quadro! Nessuno ti vedrà apparte me!" Sfuriò come Giove, prendendola per il braccio e scaraventandola nella sua camera vuota e silenziosa.
"Schiava" sibilò come conclusione, prima di sbattere la porta.
Ad Elena quel fiasco sembrò la morte di ogni speranza, ma qualcosa aveva fatto: instillato nel padrone il tarlo della scelta tra il pittore superlativo o la pittrice più brava.

La scelta di portasse per settimane, fino al giorno in cui Elena fu chiamata dal signore e, attraversata la soglia della porta, dovette trattenersi per non rincorrere l'amato.
Lui, la guardò come se fosse di nuovo la prima volta, ed effettivamente le parve più bella che nelle sue memorie.

Con gran riserbo, i due iniziarono il lavoro, sotto la severa sorveglianza del patrizio, che era solito lasciarli non più di un minuto solo se necessitava di andare in bagno.

Il primo minuto si salutarono, il secondo si baciarono e il terzo affrontarono la verità: il padrone non era solo solito far ritrarre i suoi pezzi da collezione più speciali, ma dopo ciò era anche solito ucciderli, come per rendere eterna la loro bellezza, bloccata nell'immagine e nel ricordo.

Il quarto minuto capirono che non vi erano piani brillanti da impratichire e il quinto non poterono che fuggire.
Grazie alla intima conoscenza di Elena della casa, riuscirono a svicolare e sul cavallo dell'artista vagarono fino a che non scese il buio.
Come pellegrini, passarono la notte in un piccolo tempio immerso nella campagna, dedicato a Venere.
Poi, consapevoli di non poter scappare a lungo, vi si rinchiusero e iniziarono a pregare, per sette notti e sette giorni, ignorando qualsiasi pulsione terrena.
Ed ella, protettrice degli amanti, lì ascoltò, simpatizzò per loro e li raggiunse in quel piccolo tempio, con un accordo da sottoporgli: li avrebbe sposati, poi i loro corpi sarebbero divenuti di marmo e lei avrebbe accompagnato i loro spiriti nel regno degli dei, per costruire insieme il loro per sempre.
Con un sorriso sereno, Elena e il pittore accettarono, venendo uniti dalla dea dell'amore in matrimonio e proprio durante il bacio dei baci, i loro corpi si indurirono, fino a mutare in marmo candido e puro.
Venere mantenne la promessa, portandoli con se e facendo anche loro omaggio di poter accogliere nella propria casa lo spirito del micio Ulisse, mentre, tra i mortali, il patrizio scopriva la statua e versava lacrime per il suo tesoro perso.

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