+2. Treat me like I'm your property
Ma certo che no. A Harry non bastava.
Harry aveva imparato che non aveva chiunque. Non poteva. No, perché avrebbe avuto modo, un giorno, di imparare a gestire con giudizio la volontà di possedere.
Harry era famelico. Harry aveva deciso che avrebbe preso con più leggerezza tutto ciò che gli sarebbe capitato. Harry avrebbe ribaltato le regole. Avrebbe preso a morsi il mondo. Avrebbe ottenuto ciò che voleva. Sempre. E comunque. E poi basta! Non c'era più spazio per le eccezioni, pensava.
E' che lui desiderava e bramava tanto, con molto ardore e passione. Ed erano poche le cose che non voleva. Non era perché ambisse al lusso, quanto al libero arbitrio di poter invece scegliere tra questo e quello (e nel mezzo ogni genere di possibilità immaginabili). Una vera ossessione, nessun tipo di vizio. Solo che questo tormento di possedere di più (sempre di più) non lo mollava.
Ma, eccetto per il forte desiderio di volersi prendere ciò che agognava, Harry aveva tanto da dare, eccome se ne aveva – così decise che Janes avrebbe fatto parte della sua vita ancora per un po'. Che le avrebbe tenuto testa coi suoi stessi atteggiamenti e l'avrebbe ripagata con la stessa moneta.
A Harry non importava – diceva a Savannah – "Se me la scopo è perché mi annoio". Ma Harry ammetteva a se stesso che non era del tutto vero, che era ancora geloso delle attenzioni che Phoenix non poteva più concedergli. Ed era geloso delle mani che l'avevano toccata soltanto la settimana scorsa, o probabilmente il giorno prima. Che quando lei s'alzava la gonna stretta e gessata fin sopra le cosce – poi le anche e oltre i fianchi – appena prima di sfilarle l'intimo, lui guardava la carne di Phoenix, le sue forme, lo splendido color latte annacquato della sua pelle, ma c'era una profonda invidia in quel suo sguardo. E quel male che provava lo passava nei piccoli gesti inconsulti di quando facevano l'amore. Anche perché c'era sempre questa stramaledetta consapevolezza che poi, forse domani o forse tra un paio d'ore, quella stessa pelle tondeggiante avrebbe sfiorato le anche impazienti di Luke mentre se la scopava da dietro (o Lucas, come cazzo si chiamava a Harry non importava), o forse del supplente di biologia.
A Harry quel pensiero l'accendeva, però. E invece di tenerla lontana, la prendeva con tutte le sue forze. Harry dedicava a Phoenix tutte le sue energie. La mandava in estasi – s'impegnava, quasi, pur di mandare avanti il suo progetto; fare in modo che si sarebbe convinta di quanto lui fosse speciale, farla innamorare e, una volta ottenuto l'effetto desiderato, l'avrebbe ferita. L'avrebbe umiliata, pensava. Ma Harry sapeva che non ci sarebbe mai e poi mai riuscito. Harry non ammetteva che il suo desiderio più recondito era in realtà quello di dissuaderla dai sentimenti che lei credeva di provare per gli altri uomini. Harry sapeva che Janes amava l'amore – amava il desiderio – aveva imparato a capirla e a conoscerla, ma era consapevole del fatto che non avrebbe mai convinto Phoenix a stare con un diciassettenne.
Anche sua mamma, l'ultima volta che l'aveva vista, in quella sua casetta deliziosamente antiquata e dai colori pastello, gli disse: "Harry, sei cambiato – è per colpa di una ragazza?" E poi, "Se qualcuno ti ferisce, ricorda che la vendetta non è la scelta giusta. T'avvelena il cuore, poi invade e danneggia tutto di te."
La mamma è sempre la mamma, si ripeteva Harry, ma non posso lasciare l'opera a metà.
Alla fine i suoi occhi avevano trattenuto troppe lacrime. S'era impantanato – avrebbe voluto non infatuarsi mai, perché la gelosia lo faceva soffrire. Lui non lo sapeva proprio mai cosa stesse facendo lei, sapeva solo che era libera di fare tutto ciò che avrebbe voluto, perché lui non avrebbe mai avuto tanta importanza nella vita di Phoenix da poterle chiedere di chiudere o limitare i propri orizzonti. E la loro relazione, che lei diceva di non essere neanche tale "Non funziona così, Harry", cercava di dissuaderlo.
Così Harry era arrivato al quattordici febbraio di quell'anno che aveva fatto una stronzata bella e buona, anche se non era poi così sicuro.
La serata di San Valentino erano soliti abbandonare ogni tipo di droghe, anche quelle leggere, e racimolavano quanto più alcol scadente gli era possibile – quella era una tradizione che avevano originato le ragazze, in particolare Savannah con quella loro vecchia compagna di classe che aveva dovuto cambiare scuola causa trasloco alla fine del secondo anno. Ma poi, l'anno dopo, a Savannah l'idea di sfanculare la tradizione praticamente sul nascere non piaceva proprio. Così Savannah inaugurò quello che loro, nella loro piccola cerchia che col passare degli anni veniva deturpata da troppi sconosciuti durante le loro serate, chiamavano e definivano semplicemente Valentino Alcolico. E Valcoholic era per gli intrusi – che quell'anno, a quella serata, ce ne sarebbero stati molti – e Harry l'aveva già capito dalla faccia costantemente afflitta di Savannah.
Zayn era Zayn. Lui con Harry avevano già partecipato fin da subito. Nicholas Grimshaw – Grimmy è come si faceva chiamare – era okay. Avrebbero portato quel Joshua, l'atleta (che ne avrebbe portati altri, cazzo se ne avrebbe portati). E poi Zulay. Che tra le cheerleaders era colei dalla quale le altre avrebbero preso esempio e così via.
E insomma quel quattordici febbraio del 2000 sarebbe stata una serataccia, ribadiva Savannah a Harry e a Zayn. "Troppa gente, troppa gente! Io odio tutti. E odio anche voi". Niente alcol, niente divertimento, diceva Savannah ai due amici (specialmente a Harry, perché quando si lamentava Zayn non la stava a sentire quasi mai), solo corri di là e corri di qua a fare da baby sitter per quelli a cui piace strafare.
Quella festa, alla fine, aveva assunto un retrogusto piccante per chiunque; c'erano un po' tutti tra gli invitati, persino qualche sfigato del club di scacchi.
La location era una mansarda. L'aveva messa a disposizione il Grimmy, che alle feste gli piaceva essere l'anima folle, forse lui avrebbe fatto il deejay pensava Harry. O forse qualcosa del genere. Ma comunque quella sera non gliene fregava proprio un cazzo di chi avrebbe fatto cosa quando e dove, voleva soltanto prestarsi a ogni tipo di distrazione e, alle lacrime che non aveva mai versato per Phoenix Janes, non voleva proprio pensarci. Harry lo sentiva che era agli sgoccioli, che tutta quella merda gli infestava il cuore che aveva sempre tenuto leggero. Harry era un ragazzo bello, sereno e felice.
E poi, boom, c'era una volta l'amore che t'ammazza il cuore. Ti uccide dentro. Logora il buon senso – e forse anche tutto quel popò d'orgoglio che facevi finta di portarti dietro, lasciandoti pure senza un briciolo di dignità.
E che cazzo, vaffanculo, maledetta bastarda e così via, pensava Harry. Aveva già la mente annebbiata di liquore e solo bestemmie e parolacce uscivano dalla sua bocca e vagavano e gli rimbalzavano nella sua corteccia cerebrale. Cazzo! Non voglio più, non voglio più, non più... E, per sua fortuna, tra gli atleti c'era uno dei tossici (strano sì, ma alla fine chi siamo davvero non è dettato quasi mai dallo status quo a cui apparteniamo). Harry sapeva che questo 'atleta' pusher si era portato dietro altri tossici.
Alla fine Harry non si ricordava per davvero più di che ore fossero. Cosa e quanto avesse bevuto. Era quasi del tutto certo di aver ingurgitato mezza boccetta di sciroppo per la tosse – lo aveva fatto Zayn, allora voleva provarlo pure lui. E cazzo se gli faceva schifo lo sciroppo, eppure quella sera, in quello stato, avrebbe potuto fumare dieci sigarette una dopo l'altra senza sentirne neanche lontanamente il pungente sapor di nicotina, tanto aveva bevuto. Era proprio intorpidito, quindi via di sciroppo per Harry e Zayn. E poi gli sfattonati avevano fastidiosamente insistito che i veterani del Valcoholic più il deejay (a Savannah dava tremendamente fastidio che storpiassero il nome del loro affezionato evento) dovessero provare la loro MDMA.
"Almeno l'MD, stronzetti! Abbiamo troppa roba" Dicevano.
Harry, quindi, poco dopo la mezzanotte di quel San Valentino alcolico (appiccicoso di sciroppo e liquoroso e annebbiato di fumo), aveva di già completamente, irreparabilmente, perso la ragione. Non si era neanche preoccupato per la sua migliore amica Savannah – dove fosse e con chi.
E a quanto pare neanche per Zayn s'era dato noia, forse neanche si ricordava della sua faccia, perché alle quattro del mattino di quel quindici febbraio, Harry, aprì gli occhi che aveva le ossa del bacino ad esercitare pressione su quelle esposte di Zulay, sulle sue piccole anche insulse da stuzzicatrice di folle da stadio. E al suo fianco c'era Samantha che indossava soltanto la gonna stretta. E anche Gia e un'altra amica loro cheerleader, della quale non ricordava assolutamente il nome (entrambe con l'intimo indosso). Harry abbassò lo sguardo su Zulay. Lei era al suo fianco; aveva una scarpa al piede e l'altra chissà dove, le calze nere e velate fino alla vita e niente a coprirle il seno se non braccio penzoloni di lui su di lei. A Harry però non arrivava il messaggio al cervello, non poteva metabolizzarlo; non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile tale vicinanza tra il suo corpo e quello di Zulay. Stava con entrambe le sue mani piccole e abbronzate contro al petto di lui, e Harry invece con le braccia entrambe rilassate – una sul materasso sotto di lei, l'altra sul lungo il suo stesso fianco, e non a penzoloni come pensava a coprirle le tette.
Harry quindi non riusciva a capacitarsi di come fosse accaduto che Zayn se ne stava nello stesso letto in cui stava lui, giusto giusto dietro e appizzato a Zulay, a farle da big spoon e a coprirle le tette col suo braccio mollemente abbandonato lì. Alle quattro inoltrate del mattino Harry non poteva capire un cazzo di niente, tant'è che cominciò a chiedersi genuinamente, mentre fissava il viso bello e rilassato di Zulay, del perché ci fosse un letto tanto grande proprio in una mansarda; lo trovava insolito. Harry non si ricordava niente né cosa fosse successo, ma intorno a lui c'erano tre ragazze mezze nude, quattro contando quella schiena a schiena con Zayn. E poi anche un tizio in mutande che dormiva con la testa appoggiata al materasso e il culo sul pavimento.
Harry fiaccamente si alzò, smosse Zayn da una spalla e disse: "Siamo biniti inna rotazione?" Non sapeva neanche parlare, non poteva neanche percepire correttamente il panico che cominciava a invaderlo. Era stata una schifosissima rotazione, quella? Un patetico spettacolino anti igenico? "Diddinò". Disse, ma secondo lui a questo punto non emetteva nessun suono, perché né Zayn né nessun altro si stava smuovendo, malgrado lui fosse sveglio e in cerca di chiarimenti.
Decise che ci avrebbe pensato dopo al suo amico, allora. Che erano le quattro passate ed era imbottito di droga e sciroppo per la tosse, e anche tanta merda alcolica. E gli stava giusto venendo in mente che non si ricordava più quale fosse stata l'ultima volta in cui aveva visto Savannah in quella mansarda angusta. Harry aveva tutte le buone intenzioni di alzarsi e trovarla istantaneamente, con uno schiocco delle dita per placare quella sua preoccupazione improvvisa, ma purtroppo gli ci volle un po' per potersi riprendere e raccogliere tutte le energie necessarie. Quando riuscì a scrollarsi quel metro e settantatré che era quella gnocca di Sam da dosso, prese tutti i trench e i cappotti e i piumini e i cardigan e le giacche che stavano nella stanza o lì intorno, e così coprì le ragazze mezze nude, che il letto aveva a stento un copri materasso giusto sotto di loro – niente lenzuola, niente coperte.
A Zayn ci penso dopo, si ripeteva di continuo nel cervello – forse temeva di dimenticarsene. Forse voleva dimenticarsene, dato che l'idea d'esser lì con lui, con solo i boxer addosso proprio non gli piaceva e non riusciva a mandarla giù.
Ruzzolando nei calzini scesi fin sotto i malleoli arrivò all'angolo della cucina e prese più acqua che poteva, ma era solo un goccio; l'acqua alle feste non c'è quasi mai.
C'era un lamento in sottofondo, un suono costante che non aveva mai smesso da quando s'era svegliato, ma era ovattato e lontano, non è che gli importasse, ma forse era proprio quel suono che lo aveva svegliato? Forse era colpa di quella voce? La voce che gli aveva interrotto il sonno era quella di Savannah – Harry lo aveva capito solo ora, da quel punto specifico nell'angolo cottura, mentre lei aveva emesso un singulto inconfondibile. Harry fece bene a correre fino al bagno di quella mansarda, spalancando poi la porta per irrompervi, si sentiva un bradipo strafatto di coca, come se l'effetto vitale e adrenalinico fosse temporaneo. Gli piangeva il cuore vedere la sua amica piagnucolare e costretta con le labbra su quelle di un bruto. Lei continuava a lamentarsi, a scacciarlo via, lui continuava a tenersela stretta e a sollevarle la gonna della sua scamiciata. Savannah era lì, inerme e forse (sicuramente) sotto effetti stupefacenti. Malgrado ciò si ribellava, mai avrebbe lasciato deturpare il suo corpo da un viscido qualunque, Harry lo sapeva. Si affrettò quindi per poter approfittare di quello sprazzo d'adrenalina che la rabbia gli produceva in corpo. Una furia improvvisa gli concesse di mollare uno schiaffo sulla nuca del bruto, che si girò tutto intontito e con gli occhi velati di troppo alcol e stanchezza. L'adrenalina momentanea non l'aveva ancora esaurita, così senza dire niente, senza aprir bocca, spalmò le nocche sul naso del ragazzo con forza, trascinando un po' i movimenti. Il bastardo barcollò e si toccò il naso; sanguinava. Guardò le sue mani rosse ed evidentemente constatò nella sua mente che stesse sanguinando, ma la sua reazione fu quella di rimanersene con gli occhi fissi sulle piastrelle al di sopra del cesso.
C'era questo silenzio pazzesco, faceva paura. Nessun suono malgrado la scazzottata e gli eventi passati. Nessun rumore se non il respiro pesante di Savannah ed era perché nessuno dei tre effettivamente ci capiva un cazzo di niente – o almeno così dedusse Harry.
Lui e lei però volevano parlarsi almeno con gli occhi, ma ancora non ci riuscivano. Di lucidità non ne avevano ancora, ma il senno era evidentemente dalla loro, perciò Harry avvolse una mano in quella di Savannah che tremolava un po'. Lei era scossa e non disse niente, in tutti quei minuti; neanche una parola. Neanche quando Harry la portò in cucina, le mise una bottiglia di Budweiser in mano e poi l'accompagno nel mezzo dell'ingresso, giusto di fronte alla porta principale. Non le disse niente. La guardò come a dire "Resta qui", e se ne andò. Savannah, in quel frangente, non volle ricollegare gli avvenimenti; guardava la bottiglia e non capiva perché ce l'avesse, che lei voleva dell'acqua e aveva un buco allo stomaco e aveva voglia – no, aveva bisogno – di vomitare.
Non capiva del perché Harry l'avesse lasciata lì da sola, ma l'avrebbe aspettato. Il cuore nel petto lo sentiva solo ora. Faceva caso ai battiti cardiaci esageratamente accelerati soltanto perché adesso stavano rallentando. Savannah si stava chiedendo perché avesse avuto l'impressione che Harry non portava i vestiti addosso, prima, quando l'aveva abbracciata un po'. Quando sentì un piccolo singulto si voltò e trovò entrambi i suoi amici vestiti soltanto d'intimo. Ancora nessun rumore. Nessuna parola.
Solo Harry che muove la testa verso la porta; "Andiamo", sta dicendo a gesti, e Zayn che si stropiccia insistentemente gli occhi con i vestiti in mano e un calzino sì e l'altro no.
Poi, per fortuna, Harry aveva aperto la porta, chiamando così l'ascensore.
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