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7. Sangue sulle mani e sul petto, che il cuore s'è spezzato

Le quattro settimane seguenti si trascinarono avanti lentamente.

Il fatto che Harry avesse esplicitamente chiesto a Dalia e Joe di sorvegliarmi, e agli altri ragazzi di non portarmi con loro da nessuna parte, implicava che sarei dovuta rimanere confinata dentro quattro mura per chissà quanto tempo. Liam, Louis, Zayn e Niall uscivano presto tutte le mattine, per tornare tardi alla sera, a volte con qualche ammaccatura, o con le nocche scorticate, o con qualche graffio in viso, che non potevano non farmi pensare; non avevo mai chiesto nulla, comunque, per cercare, almeno quel poco che potevo, di non causare guai.

Harry era un'altra storia. Lui passava da giorni in cui se ne stava a casa a riposare, tenendomi compagnia con la sua muta presenza, a giorni in cui non lo vedevo perché stava lavorando come un povero diavolo. Si era riappacificato con Zayn e Liam, e pure con Niall, ma a me non aveva ancora rivolto la parola, e quei nostri silenzi stavano diventando parecchio imbarazzanti. Certo, poi era dovuto andare fuori città, e dopo tre giorni in cui era partito, ancora non era ritornato a casa.

Joe e Dalia, comunque, vedevano che mi annoiavo, e quindi passavo il mio tempo con loro; aiutavo lei con le pulizie, o leggevo i suoi libri, e Joe ed io tagliavamo la legna nel cortile sul retro, quando le scorte in casa iniziavano a scarseggiare -almeno respiravo un po' d'aria fresca. In quel mese, avevo scoperto quanto quella coppia fosse buona e gentile, e quanto pesasse a Dalia vivere a Smoke Town. Lei era fatta per i viaggi, mi aveva detto, voleva esplorare e visitare posti nuovi, e lo avrebbe fatto se non avesse conosciuto Joe, molti anni prima, decidendo di sposarlo e di stanziarsi nella città natale di lui.

E poi c'era Niall, che mi aveva fatto i complimenti, dicendomi che il loro appartamento non era mai stato tanto pulito, e Zayn e Liam avevano concordato con lui, aggiungendo che non dovevo per forza riordinare i loro macelli; sarebbe stato ipocrita da parte mia, non farlo, quindi avevo risposto con un sorriso e una scrollata di spalle disinvolta, che tanto non mi pesava sistemare i loro averi, o spolverare, o lavare il pavimento e il bagno.

Ciò che mi infastidiva, però, era Harry. Sembrava farlo apposta per innervosirmi, entrando nell'appartamento con le scarpe infangate, e sbattendo le suole sulle mattonelle appena pulite, che ancora odoravano di detergente, quello alla lavanda che mi aveva dato Dalia. E poi, non c'era una volta in cui abbassasse la tavoletta del water, da maschilista che era, e quando gli avevo cortesemente fatto notare che avrebbe dovuto farlo, aveva iniziato a lasciare anche i resti della sua barba rasata nel lavandino, un vizio che gli altri ragazzi si erano lasciati alle spalle da quando ero arrivata io.

In ogni caso, tutto era in perfetto ordine da quando era partito da Smoke Town, per andarsene chissà dove, a fare chissà cosa, per ordine di chissà chi, e ciò mi andava quasi perfettamente bene. Harry, in fondo, mi mancava parecchio, perché la sua presenza, per quanto mi facesse irritare, era confortevole -la compagnia di Niall, che si riposava lo stesso giorno in cui si era riposato Dio, era completamente diversa da quella di Harry, che si riposava ogni qualvolta gli girasse di farlo.

Il secondo sabato di novembre, fu il giorno in cui tornò.

Prima di vedere lui, o Louis o gli altri, sentii il loro vociare da dietro la porta, più agitato del solito, che mi spinse automaticamente ad alzare la testa dal libro che stavo leggendo. Non era poi così interessante, quel volume, e la minima distrazione era sufficiente per farmelo chiudere e poggiare sul tavolino del salotto: figuriamoci, poi, la voce di Harry, che non sentivo da giorni. Quella sì che era una distrazione bella e buona.

Un giro di chiavi nella serratura da parte loro, e io ero già in piedi, pronta a chiedere com'era andata a lavoro a Liam, abbracciare Zayn, essere ignorata da Louis, e magari sorridere a Harry, per vedere se ancora ce l'avevesse con me, per motivi che solo lui sapeva -e che forse s'inventava, pure- ma nulla di ciò che stavo immaginando, successe davvero; non appena i quattro ragazzi fecero capolino oltre la soglia, mi bloccai, immobile, sui miei passi.

Con occhi sbarrati, mi ritrovai a fissare un Harry reduce da un periodo fuori Smoke Town, coperto di sangue dalla testa ai piedi, il suo respiro corto e affrettato, che faceva alzare il suo petto a scatti, e il suo corpo sorretto dalla stretta delle mani di Louis.

Che diamine è successo?, fu la prima cosa che mi passò per la mente di dire, ma le parole che effettivamente lasciarono la mia bocca non furono così numerose. S'impigliavano tutte fra la lingua e i denti, riluttanti ad immettersi nell'aria, che parevano stare meglio dentro di me, al calduccio, per non complicare ulteriormente la situazione.

Come tutte le volte precedenti, il pavimento venne imbrattato di fango -e sangue- al passaggio di Harry, dal salotto al bagno, e senza doverci pensare su, le mie gambe si mossero per seguire lui e Louis.

«Guarda che sto bene,» mormorò il ragazzo ferito, quando l'altro si alzò sulle punte per raggiungere la cassetta del pronto soccorso che stava al suo posto, sulla mensola. «Louis-»

«Fammi il favore di chiudere quella bocca del cazzo che hai,» lo apostrofò Louis, posando a terra la scatola bianca. «Non stai bene per niente».

«Ha ragione,» intervenni, catturando l'attenzione di entrambi. Se, da una parte, Louis sbuffò e roteò gli occhi, Harry chiuse i suoi e annuì, con un cenno appena percettibile. Forse non l'aveva neanche fatto davvero. Si sedette con qualche sforzo sul mobile del lavabo, stringendo i denti, e provando a liberarsi degli indumenti che gli coprivano il torso.

«Aspetta,» lo fermai, sgusciando fra Louis e la doccia, fermandomi davanti al riccio. «'Sta fermo, Harry. Ti aiuto».

«Non mi serve il tuo aiuto,» ringhiò, sottovoce, ma non protestò quando le mie mani presero a sbottonare la camicetta bianca -o meglio, rossa- che indossava, facendola poi scivolare piano dalle braccia. «Non è tutto mio, il sangue,» disse, quando notò come stessi fissando il cremisi vischioso spalmato ovunque, dal suo viso, al collo, alle braccia e al torace.

«Posso sapere come mai sei ridotto così?» gli chiesi, ma prima che potesse aprire bocca, Louis mi fece indietreggiare di qualche passo, spingendomi bruscamente contro il muro, e iniziando a ripulire la pelle del corpo di Harry con un panno bagnato.

«Posso sapere perché non ti fai mai i cazzi tuoi?» ribatté il ragazzo dagli occhi azzurri.

«Scusa tanto se mi preoccupo,» sbottai. «Non so quale sia il tuo problema con me, ma-» quando vidi il modo in cui stava strofinando le ferite del riccio, resistetti all'impulso di tirargli la cassetta del pronto soccorso addosso. «Fa' piano, Dio santo. Non stai lucidando una scultura, Louis-»

Si fermò di scatto, voltandosi per lanciarmi un'occhiata furente. «Fallo tu, allora. Visto che sei tanto brava,» il panno sporco me lo lanciò in faccia; dopo una bestemmia con tanto di porco, girò i tacchi, e sbattendosi la porta del bagno alle spalle, sparì dalla stanza.

«Certo che il vostro è amore,» sghignazzò Harry, e quella semplice azione lo costrinse a tamponarsi la ferita sul fianco. «Cazzo,» imprecò, guardandosi poi la mano sporca.

«Quel ragazzo mi detesta,» sbuffai.

«Sbagli, Sel,» scosse la testa lui. «Credo che ti odi».

Ha. Ti sei fatta un nemico. Brava, complimenti.

Sciacquai il piccolo asciugamano, l'acqua diventata rosa che scorreva via, un po' come avrei voluto scorressero via i miei pensieri su Louis -non era il momento di rimuginarci su. Strizzando per bene il panno, lo posai sul petto del ragazzo, e pulii i tagli delicatamente, rimuovendo il sangue dalla pelle, sentendo i suoi muscoli tesi rilassarsi leggermente; dal canto mio, arrossivo ogni qualvolta i suoi occhi incrociassero i miei, e cercavo di non pensare a come stesse analizzando ogni mio minimo movimento con quel suo sguardo critico e leggermente stizzito.

Senza tutto il sangue, la sua situazione era migliorata un po'. Il taglio sul braccio sinistro e sul fianco erano le parti peggiori, le altre botte parevano essere solo graffi superficiali. «Credo... credo ti serviranno dei punti,» osservai, premendo la pezza sul suo bicipite, che continuava a perdere sangue.

«Scordatelo,» rispose. «Sto bene così».

«Ma-»

«Non ho intenzione di farmi perforare il braccio da nessuno, grazie».

Sospirai, togliendo l'asciugamano e lanciandolo nel lavandino, frugando nella cassetta alla ricerca di qualche cerotto, garze e bende che avrei potuto usare. «Quindi... sei ancora arrabbiato con me?»

«Non lo sono mai stato,» replicò, subito. «Avevo accettato le tue scuse, se ben ricordi».

«Ma non mi hai mai rivolto la parola-»

«Sel,» scuotendo la testa, «solo perché non ho nulla da dirti, non significa io sia incazzato con te,» disse.

Boccheggiai, presa in contropiede; mi aveva leggermente spiazzata, con quell'affermazione che avrei dovuto prendere in considerazione, settimane prima -il fatto che fossi tendente a guardare sempre all'opzione peggiore, era forse uno dei miei vizi più frequenti, un po' come il suo non abbassare la tavoletta del cesso.

«Dovresti disinfettarli,» interruppe le mie critiche interiori. «C'è dell'acqua ossigenata nella cosa, lì,» e indicò la cassetta.

Versai allora una buona quantità di quel liquido chiaro su una pezza pulita, e quando la appoggiai sul taglio del suo braccio, Harry represse un gemito che riuscii comunque a captare, in parte perché me lo aspettavo, in parte per via del silenzio attorno a noi.

«Scusa,» mormorai.

«Lascia stare,» bofonchiò, mordendosi il labbro inferiore. «Non sai che bisogna contare fino a tre?»

«Contare fino a tre?»

Annuì, spostando gli occhi dal suo braccio dolorante, al mio viso. «Devi contare fino a tre, e solo allora puoi disinfettare un taglio, perché se ti prepari mentalmente, non fa poi tanto male. Specie se ci sei abituato».

«Non lo sapevo,» risposi, a bassa voce. «Ma lo terrò a mente».

«Non è proprio una cosa che si sa, comunque,» un sorriso amaro e malinconico gli solcò le labbra. «La regola dei tre secondi viene insegnata».

Tolsi il panno dal suo braccio, ci versai ancora qualche goccia di acqua ossigenata, e lo riavvicinai alla sua pelle, in direzione del fianco. «Uno,» e lo guardai, prendendomi un attimo per osservare le sue iridi puntate sul suo taglio.

«Due,» fece lui, rialzò gli occhi, cogliendomi nell'atto della mia breve e muta contemplazione del suo viso.

«Tre,» finii.

Come la volta precedente, un leggero brivido lo pervase quando posai la pezza laddove serviva, eppure «freddo,» disse. «Hai le mani ghiacciate, Selena,» riferendosi non al disinfettante che lo bruciava, bensì alle dita dell'altra mia mano che si erano attaccate inconsapevolmente al suo avambraccio.

Subito, le ritrassi, con la paura che se la fosse presa, trovandolo invece con un mezzo sorriso, divertito e alquanto bislacco dipinto in volto.

«Hai detto che la regola dei tre secondi viene insegnata,» colsi l'occasione per chiedere la prima cosa che mi passò per la testa, giusto per deviare la sua attenzione dal mio gesto istintivo e fin troppo affettivo nei suoi confronti. «Chi l'ha insegnato a te?» osai domandare.

Quelle labbra, Harry le pressò assieme, irrigidendosi e drizzando la schiena. Mi rivolse uno sguardo a metà fra il rassegnato e l'irritato, emozioni che per un attimo, credetti non facessero più parte di lui.

«Anzi, lascia stare. Non voglio saperlo-» tentai di rimediare al mio errore, ma «mia madre,» sospirò lui, poi. «Avevo cinque anni, ed ero caduto dalla bici. Me l'ha insegnata lei la regola dei tre secondi».

«Oh,» fu l'unica cosa che riuscii a biascicare. «Mi piacerebbe conoscerla, sai. Non vive qui a Smoke Town?»

E fu solo per via del dolore riflesso sul suo viso, che mi resi conto che sua madre non viveva per niente. Era una cosa che negli anni avevo imparato a riconoscere, guardandomi allo specchio e pensando a come fossi irrimediabilmente sola; era una cosa che non si poteva ignorare, che il corpo urlava, non appena ci si fermava un attimo a rimuginarcisi su.

Era palese.

Infatti, i lineamenti quasi rilassati di Harry s'indurirono tutto d'un colpo, le sue pupille divennero più piccole, la sua carnagione più chiara, il suo pomo d'Adamo si abbassò e si alzò quando deglutì rumorosamente.

Palese.

«Harry,» sussurrai. «Lei-»

«Smettila,» ringhiò. «Non voglio sentirmi ricordare da te che mia madre è morta, così come è morto mio padre».

«Mi dispiace-»

«No,» fece. «Non dire che ti dispiace. Non dire che ti dispiace quando non te ne frega un cazzo visto che non li hai mai incontrati».

«Non sei l'unico orfano, in questa stanza, sappilo,» replicai, dura, socchiudendo gli occhi e facendo un piccolo passo indietro. «E se dico che mi dispiace, non lo dico di certo per loro, ma per te, perché mi dispiace tu abbia perso i genitori, Harry».

Di tutta risposta, il silenzio. Il ragazzo sembrava aver scordato l'uso della parola, mentre se ne stava lì, a fissarmi dritta negli occhi. Spezzai quel contatto visivo solo per poter finire il lavoro ai suoi tagli, riempiendolo di bende e cerotti, entrambi muti come due pesci, fino a quando non tornò coi piedi per terra, scendendo dal mobile del bagno.

Non mi guardò neanche una volta, non mi ringraziò, non mi sorrise, semplicemente aprì la porta della piccola stanza e si fiondò al suo esterno, chiudendosela alle spalle e lasciandomi da sola, con un nuovo pavimento insanguinato da pulire.

. . .

Altri due giorni trascorsero, entrambi all'insegna del silenzio fra me e lui. Non era successo assolutamente nulla di interessante, se non il momento in cui Dalia mi aveva ricordato di mettergli le pomate sulle botte; non mi ero fatta problemi ad andare in camera sua e chiederglielo -cosa che poi aveva accettato, si era alzato dal letto, e mi aveva seguita fino al bagno- ma il suo non rivolgermi la parola era diventato parecchio irritante. Era come se avesse voluto farmi sentire in colpa per aver detto che mi dispiaceva per lui, o per aver inconsapevolmente tirato fuori l'argomento mamma. Non era di certo piacevole, e lo sapevo benissimo, ma se c'era una persona che avrebbe potuto capire, quella ero io.

Fu solo lunedì mattina, che riprese a parlarmi. Le coperte del mio letto mi avvolgevano, calde, nel loro abbraccio morbido e familiare, i miei occhi chiusi, la mia mente che fluttuava via da qualche parte, in un'avventura che non avrei ricordato, una volta sveglia. E poi le coperte si scostarono dal mio corpo, i miei occhi si spalancarono, la mia mente si riempì del buio della stanza, quando una mano si posò sulla mia bocca.

«Sel,» bisbigliò Harry. «Alzati e vestiti».

Nell'oscurità, tentai di arrivare al pulsante d'accensione della lampadina sul comodino fra il mio letto e quello di Zayn, ma «lascia stare, è saltata la corrente. Siamo senza elettricità,» disse. «Ti aspetto in salotto. Cinque minuti,» e sentii il suo corpo spostarsi in un fruscio appena percettibile, i suoi passi felpati silenziosi, lui che sparì inghiottito dal buio.

. . . . . . .

Sono tornata in Italia yee

Come state? Tutto bene? Avete debiti in alcune materie o siete completamente libere? E per chi ha fatto gli esami di terza media, come sono andati?

Noi ci sentiamo presto, regà! (Il prossimo capitolo sarà per metà INEDITO, mai visto prima sulla faccia della Terra, quindi sarà una piccola sorpresa per voi Hihi)
Bacioni!
Lottie x

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