43. Quando la testa si spegne e si mette a parlare il cuore
(Nota autore: questo capitolo farà altamente schifo. Ma non importa. Enjoy!)
Panico. Paura. Dolore. Non riuscivo a sentire altro. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a pensare, non riuscivo a piangere o a gridare o a spostare lo sguardo dal suo. Non sentivo più alcun suono, non sentivo i vestiti che grattavano contro la mia pelle – ero nudo, nudo di fronte a lei e ai suoi occhi penetranti e inquisitori.
Tre anni.
Non la vedevo da tre anni, eppure i suoi occhi erano identici a come li ricordavo. Lei era cresciuta un po', il suo viso era cambiato, era più magra e scavata, più severa e matura, ma gli occhi... quelli no. Erano rimasti tali e quali.
Scossi di nuovo la testa e formulai le prime sillabe che riuscii a pensare: «No, no, no,» sussurrai, continuando a ripeterlo sempre più velocemente e sempre più forte, fino ad urlarlo.
«Ti ho vista morire!» esclamai, sentendo la rabbia rimpiazzare il dolore. «Non sei lei! Voi tutti volete farmi credere che questa sia Gemma, ma mia sorella è morta fra le mie braccia, l'ho vista morire! Cos'è, lavorate tutti per Smoke? È un altro dei suoi piani contorti per ferirmi?»
«Calmati, Harry,» udii Lee dire, mentre faceva un passo verso di me.
«Non toccarmi,» sibilai. «E non osare dirmi di calmarmi. Daniel l'ha uccisa, Sam l'ha visto e io ho guardato mia sorella morire. Lei non è la mia Gemma!»
Negare l'evidenza mi fece sentire meno vuoto. Mi aggrappai con forza all'unica realtà che conoscevo e alla quale mi ero abituato: Gemma era morta tre anni prima, uccisa da quel traditore bastardo di mio cugino, Jackson Avenue era un clan di assassini e bugiardi e io non sarei dovuto essere qua. Questo era quanto sapevo e quanto riuscivo a sopportare.
«Harry,» disse la bionda, e ancora una volta la sua voce identica a quella di Gem mandò un'ondata di panico attraverso il mio corpo.
«No!» urlai, di nuovo, tappandomi le orecchie. «Non parlare!»
Feci un passo nella sua direzione, riuscendo a smuovere i miei piedi e iniziando a correre verso l'uscita della sala senza guardarmi indietro, fino a quando l'aria fredda dell'esterno mi arrivò in viso, facendomi rabbrividire.
Lo sapevo. Non sarei mai dovuto fidarmi di Daniel. I Jackys. Figuriamoci! Bastardi tutti loro! Avrei dovuto lasciare mio cugino per strada a morire e sarei dovuto scappare da questo schifo di posto con Sel.
Sel.
Quando il suo viso balenò nella mia mente, mandò un fiume di sensi di colpa ad aggiungersi alla mia paura e alla rabbia verso tutti. L'avevo lasciata lì. Da sola.
Feci retrofront e mi decisi a rientrare nel municipio per recuperarla e andare via da qualche parte – qualsiasi parte – con lei, ma me la ritrovai davanti non appena mi girai. Mi aveva seguito, evidentemente.
«Cosa diamine ti prende?» sbottò, irritata. Irritata era a dir poco, era furibonda. I suoi capelli mossi dal vento svolazzavano liberi attorno alla sua testa, creando una specie di criniera nera come la pece, e non stava neanche cercando di farli rimanere al loro posto – teneva le mani strette a pugno, come se fosse pronta a colpire me o chiunque le fosse capitato a tiro.
«Rispondimi, Harry!»
«Dobbiamo andarcene,» riuscii a dire.
«No, cazzo!»
Mi avvicinai a lei e le presi il viso fra le mani. «Gemma è morta. Lei non è mia sorella».
«Sì che-»
«Shh,» mormorai. «Andiamo via».
«No, cazzo Harry!» si allontanò da me. «Ma ti sei reso conto di quello che stai dicendo?»
La guardai e basta.
«Puoi, per una volta nella tua vita, fidarti di qualcuno che non sia te stesso?»
«No, Selena. Non posso,» scossi la testa. «Scusami». Ero seriamente sull'orlo delle lacrime. Le sentii arrivare e pizzicarmi gli angoli degli occhi, ma le ricacciai giù sbattendo le palpebre.
Lei, dal canto suo, sembrò notare il mio stato di instabilità emotiva, perché aprì le braccia, invitandomi a ripararmi dietro il suo scudo. «Vieni qui, dai».
Non me lo feci ripetere due volte.
«Tranquillo, Harry. È okay,» mi ripeteva, passando dolcemente una mano fra i miei capelli. «Va tutto bene, lo sai questo vero?»
«Puoi dirmi una cosa?» chiesi.
«Cosa?»
Feci una pausa. Non sapevo se fossi pronto ad ascoltare le parole che non mi aveva mai detto, dopo tutte quelle settimane in cui era stata la mia ragazza. Presi un profondo respiro: «Selena, ti prego... dimmi che mi ami».
Per un attimo se ne rimase zitta, un attimo così lungo che mi sembrò durare ore intere. Poi, «Harry?» disse.
«Mh».
«Ti amo. Ti amo, Harry, tantissimo».
Mi sentii meglio, per qualche attimo, tanto che riuscii a spalmarmi in volto mezzo sorriso, per mezzo secondo – solo mezzo. «Vieni via con me. Scappiamo da Smoke Town, o per lo meno, proviamoci,» mormorai. «Ti amo, Tigre. Sul serio. Non so che cazzo farei se non ci fossi tu».
Selena non rispose. Forse non sapeva cosa dire, forse ci stava veramente pensando, stava valutando la mia proposta, e forse avrebbe anche convenuto che era l'idea migliore che avessi mai formulato. Eppure, alla fine, si staccò da me. «No, Harry. Lo sai che non si può fare».
Sbuffai, incrociai le braccia al petto, e lei proseguì: «Se non vuoi riconoscere quella ragazza come Gemma, okay, è una tua scelta. Ma io scelgo di stare qui e di ascoltare, per lo meno, quello che hanno da dire. Vorrei che tu facessi altrettanto».
Contrassi la mascella e respirai a fondo. Avrei anche potuto portarla via con la forza, ma tanto a cosa starebbe servito? Avrei potuto caricarla in macchina e scappare da questo posto, ma non avrebbe avuto senso se non era ciò che voleva lei.
«Sai che ho ragione, Harry».
«Lo so. Ma non mi piace».
«Non piace neanche a me. Ma è l'opzione più concreta che abbiamo, ora. E poi James non ci troverà, qui».
Scossi la testa. «Non lo so, non lo so... a me questo posto puzza di fumo, Sel. Mio zio riesce a mettere le mani ovunque, in questa città. Sempre se i Jackys non siano con lui. In quel caso-»
«-In quel caso saremmo già morti,» mi interruppe lei. «Non che io mi fidi di queste persone, ma ancora meno mi fiderei a tornare a casa nostra o in qualsiasi altro posto in periferia. E scappare è fuori discussione, James ci troverebbe in meno di due giorni,» concluse, abbassando la voce.
«Okay,» sbuffai ancora. «Okay. Ascoltiamoli. Ma restami vicina, va bene? Sempre».
Mi lasciai giudare di nuovo nel municipio, percorrendo lo stesso corridoio di poco prima, fino alla sala comune. Riempii i polmoni di aria, cercando di restare tranquillo e di non pensare né a Gemma, né al resto della gentaglia lì dentro, concentrandomi su Selena e sulla mia respirazione. Dovevo solo mantenere la calma. Tutto qua.
«Grandioso! Adesso se ne vanno entrambi e al diavolo la nostra copertura!» la prima voce che distinsi nel baccano infernale che si era scatenato all'interno della grande stanza, era quella di Melissa. O come cazzo si chiamasse.
«Avremmo dovuto aspettare, non era pronto,» si intromise Lee. Lui lo conoscevo. O almeno, credevo di conoscerlo, prima di quel momento. «E mi hai ascoltato, Alvin? Nossignore!»
Quando mi vide varcare la soglia della stanza, Alvin sbatté un pugno sul tavolo, silenziando gli altri. Sentii tutti i loro occhi addosso, sorpresi nel vedere che ero ancora lì, che ero tornato. Avrei voluto tornarmene fuori.
«Voglio parlare con Daniel,» dissi, prima che potessero iniziare. «E voglio sentire da lui tutta questa storia. Non me ne frega niente se gli hanno sparato o se sta morendo. Voglio lui. E ditegli che se verrà omesso anche solo un minimo dettaglio, o se la sua versione non mi convince, me ne vado».
Alvin mi sorrise ampiamente, invitando tutti a sedersi. Seguirono una decina di minuti di silenzio imbarazzante in cui era stato fatto chiamare mio cugino – i dieci minuti più eterni della mia vita. Sentivo che ogni singola persona, lì, mi fissava, Gemma in particolare – sempre se era lei – mentre io impiegai tutta la mia volontà per non guardarla e non lasciarmi sopraffarre di nuovo dalla rabbia.
E poi, finalmente, Daniel arrivò. Aveva la spalla fasciata, era pallido in volto, sembrava sul punto di vomitare o di svenire. Non fece nessuna delle due cose, in ogni caso. Scambiò due parole di numero con Alvin, poi si sedette difronte a me. Mi guardò negli occhi, ricambiai in tutto e per tutto.
«Harry,» iniziò, sospirando. «Devi perdonarmi. Sono un bugiardo di merda».
«Se non ti muovi a spiegarmi di questa... cosa,» scoccai uno sguardo a Gemma, di sfuggita. «Ti ritroverai un altro proiettile nella spalla sana».
«Okay, okay, scusa,» bofonchiò. «Vuoi la verità, no? Bene, eccola,» anche lui indicò Gemma. Notai Lee scuotere la testa, massaggiandosi le tempie. «Brutta idea,» lo sentii borbottare sottovoce. «Brutta, brutta idea...»
«Non ho ucciso Gemma quella notte, Harry. Non avrei potuto. Non sono mai, mai stato d'accordo con la politica di mio padre, la sua ideologia, i suoi modi di fare, e quando mi ha ordinato di uccidere Gem... non potevo farlo. Neanche per tutti i soldi del mondo. Avrei preferito morire io stesso».
Gemma mi stava guardando così intensamente che faceva quasi male. Sentivo prudere la pelle del viso, e stava diventando insopportabile. «Vai avanti, Daniel,» mormorai.
«Ti starai chiedendo perché non te l'abbia mai detto, immagino».
«Oh, no. Io lo so perché,» una risata amara mi scappò dalle labbra. «Tu ami torturarmi, Daniel. Tu ami vedermi soffrire in ogni maniera possibile. Dal quando Smoke ha ucciso i miei, fino a quando ha ucciso Dalia-»
«Dalia è morta?» fu Gemma a parlare questa volta, in un mero sussurro. «È morta?» vidi i suoi occhi inumidirsi, tramutandosi quasi di un verde più luminoso. Nessuno rispose.
«È morta?» disse, ancora. Si guardò attorno, frenetica, cercando una risposta nei volti dei presenti. Alvin si massaggiò le tempie con la mano, annuendo leggermente.
«Perché lo vengo a sapere solo ora, hm?» alzò la voce. «Perché non me l'hai detto, Alvin? Eravamo d'accordo, niente segreti».
Alvin sospirò. «Non è il momento-»
Gemma lo interruppe, alzandosi in piedi e sbattendo la mano sul tavolo. Selena sussultò, alla mia destra. «No, è il momento! Dalia è morta e nessuno si è preso la briga di dirmelo?»
«Calmati, Gem,» mormorò Daniel. «Non te l'abbiamo detto semplicemente perché-»
«Non me ne frega un cazzo del perché,» sibilò lei. «Dalia è morta, e non ne sapevo niente».
«Non è il momento, Gemma,» ribadì Alvin, alzandosi a sua volta. «Se non ti dai una calmata sarò costretto a chiederti di uscire».
Gemma lo fissò, rossa in viso, le guance bagnate da lacrime salate che le facevano risaltare ancora di più il verde delle iridi. Respirava a pieni polmoni per cercare di smettere di piangere, o forse solo per cercare di darsi un contegno. «Vaffanculo, Alvin. Avevamo detto niente segreti. Vaffanculo,» mormorò, prima di tornare a sedersi al suo posto. «C'è qualcos'altro che mi avete nascosto? Sono morti anche Niall, o Liam? Joe?» il sarcasmo pungente nel suo tono mi fece venire i brividi. Gemma era sempre stata così. Se questa non era lei, beh, avevano trovato una sostituta parecchio convincente.
«Stanno tutti bene,» fu Selena a risponderle, stavolta. «Dalia è morta qualche settimana dopo Natale. La tomba è nel vostro giardino».
«Com'è morta?»
«Cheng,» mormorai, senza pensarci. «L'ha uccisa lui». Incrociai il suo sguardo, lasciai che i miei occhi e i suoi si cercassero – li lasciai esplorarsi a vicenda, per vedere di trovarvi una qualsiasi traccia di menzogna, un qualcosa per provare che stesse mentendo e che non era lei. Non c'era niente. Solo dolore.
«Figlio di puttana,» Gemma distolse lo sguardo. «Bastardo figlio di puttana».
«Il punto non è questo,» Alvin mise fine alla discussione appena nata. «A Dalia e a Cheng penseremo più tardi. Mi dispiace non avertelo detto, Gemma. Ho creduto fosse meglio così,» lei non rispose, lui continuò: «Daniel, se vuoi procedere-»
«Sì, subito,» disse Daniel, guardandomi. Non ero più tanto sicuro di volere la verità. La verità faceva male, cazzo. E io avevo già sopportato abbastanza. Sentirmi dire la verità per poi fare cosa? Crederci? O non crederci? Poteva essere una bugia, una messa in scena, o poteva essere anche tutto vero – cos'era peggio, però?
«Harry, ecco... tu non dovevi sapere nulla a riguardo di Gemma e della sua morte semplicemente perché non sai mentire. James doveva essere sicuro che tu fossi devastato dal dolore e che io l'avessi uccisa. Non potevamo permetterci di farti sapere il piano».
«Che piano?» lo interruppi.
«Ci sto arrivando,» sospirò. Fece una smorfia di dolore, lanciando di sfuggita un'occhiata alla sua spalla. «Era dannatamente semplice, Harry, eppure sei quasi riuscito a mandare tutto a puttane. In ballo c'era la vita di Gemma e pure la mia. E quella di Sam».
«Sam? Samuel?»
«Ci sto arrivando, Cristo,» sbuffò. «Quando lei è uscita dalla casa di Sam, le ho dato una tossina per rallentare il polso fino a fermarlo, questione di una manciata di minuti, poi l'ho ferita in modo che ci fosse stato abbastanza sangue da far credere fosse morta, ma ovviamente non tanto da ammazzarla sul serio. Tutto proceceva come previsto: lui è uscito di casa, ha visto Gemma esanime e mi ha inseguito; nel giro di pochi minuti lei si sarebbe risvegliata e se ne sarebbe andata. Avevamo predisposto tutto. Avrebbe aspettato qualche giorno in una casa in periferia, il tempo di rimettersi in sesto, per poi andare a nascondersi in Inghilterra, con documenti falsi, un lavoro e un appartamento fuori Londra. Nessuno avrebbe più saputo niente di lei, e James non l'avrebbe cercata perché di fatto, Gemma Styles sarebbe risultata deceduta. Non avevo calcolato la tua mania di fratello maggiore, però, perché sei sbucato fuori dal nulla a complicare tutto, a cercare di salvarla. E ho dovuto coinvolgere Sam per non far saltare il piano».
«Sam lo sapeva?» sgranai gli occhi, iniziando a perdere di nuovo le staffe.
«Puoi lasciarmi finire?»
Incrociai le braccia al petto.
«Lui lo sapeva, sì, ed era un rischio, Harry. Un rischio corso per colpa tua. Cosa credi sarebbe successo se James avesse scoperto che non l'avevo uccisa? Meno persone sapevano, meglio era».
«E cosa c'entra Jackson Avenue con tutto ciò?» domandò Selena. «Se Gemma poteva andarsene da Smoke Town, perché siete qui?»
«Per lui,» rispose Gemma, facendo un cenno nella mia direzione. «Mio fratello. Andarsene e lasciarlo qui, lasciare Daniel e Joe e Dalia e gli altri ragazzi? Lasciare Sam? No».
«Samuel era amico di un capobanda con contatti qui a Jacks Ave,» disse Alvin. «È stato lui a proporre a Daniel questo posto. E hanno iniziato a collaborare con noi: a loro serviva un rifugio sicuro, a noi serviva qualcuno vicino a James Smoke. Una spia».
«E tu?» guardai Lee. «Da quanto lo sapevi?»
«Non da molto,» sospirò. «Gemma... è venuta alla festa di Smoke, prima di Natale. L'ho riconosciuta e stavo per dirtelo, ma Daniel mi ha spiegato ogni cosa e ho dovuto tacere, per le stesse ragioni. Mi dispiace, Harry».
«Tu... sei Linda Banks?» chiese Selena. «La ragazza che mi ha aperto la porta della biblioteca, eri tu, vero?»
Gemma annuì, piano. «Credevo il mio travestimento sarebbe stato più efficace».
«Sei tu, non è vero?» mormorai. Lei tornò a guardarmi. «Gemma...»
Annuì, piano, quasi titubante e timorosa di una mia possibile reazione esagerata come poco prima. «Ti ricordi, Harry, quando sono morti mamma e papà? Che mi hai promesso che ci saresti sempre stato per me, e io ho promesso a te lo stesso?»
Non risposi. Ma me lo ricordavo. Come non fare una promessa del genere? Era l'unica cosa che mi rimaneva. Lei aveva me e io avevo lei.
«Mi dispiace non avertelo detto, Harry. Però ti guardavo da lontano, sai. Quando te ne andavi da solo alla Torre Verde o al parco, e chiedevo sempre di te a Daniel, poi a Lee, a Sam... e ci sono state tante volte in cui mi sei passato vicino, per strada, tante volte in cui credevo mi avessi riconosciuta da quanto mi stavi fissando, ma tu non mi vedevi mai, non stavi guardando me, e faceva così male che altrettante volte volevo tornare a casa e raccontarti tutto. Mi dispiace, Har-»
«Tre anni,» iniziai, alzandomi. «Sono passati tre cazzo di anni, Gemma. Tre anni. L'ultima volta che ti ho vista stavi letteralmente morendo fra le mie braccia – non hai idea di quanto male abbia fatto. Tu sapevi che io stavo bene, che ero vivo, io invece ti avevo vista morire. Morire, Gemma. Ti rendi conto di quanto male abbia fatto a me, tutto questo?» lasciai uscire tutte le parole che volevo dire, lasciai uscire le lacrime e la voce mi si ruppe in gola. «Te ne rendi conto?»
Si alzò anche lei, vedendomi avanzare lentamente, nella sua direzione, facendo il giro del tavolo. «Me ne rendo conto, Harry, ma-»
Quando arrivai a una spanna di distanza da lei, tutta la tensione arrivò al culmine. Mi accorsi di star trattenendo il fiato, non si sentiva un singolo rumore se non il mio cuore che batteva ad un ritmo sovrumano. Cercavo di stringere i denti per impedire al mio mento di tremolare, di stringere i pugni per cercare di non urlare, di non fare niente per paura di rovinare tutto di nuovo.
Doveva per forza essere lei. Doveva. E se non lo fosse stato, doveva essere comunque un qualcosa. Perché certe volte, quando la testa si spegne e si mette a parlare il cuore, le cose le senti in automatico. Le sai e basta, quando inizi a vedere col cuore. Quando lo ascolti. Il cuore diceva che lei doveva esserlo per forza, mia sorella. Non poteva essere altrimenti. E in quel momento, per la prima volta, gli credetti. Perché doveva, per forza.
Così, l'unica cosa che dissi, che riuscii a dire con un filo di voce, l'ultimo che mi rimaneva, fu il suo nome. Poi, senza preavviso, l'attirai contro di me, stringendomela al petto, facendo passare le braccia attorno al suo collo e schiena e lasciandomi andare ad un pianto disperato.
Piansi come non avevo mai fatto prima. Non me ne fregava più niente, piansi e basta, come se la mia vita dipendesse da quello. E Gemma, dal canto suo, rispose all'abbraccio in tutto e per tutto, e i suoi singhiozzi si mescolarono ai miei perché anche lei non sarebbe comunque riuscita a fare o a dire altro. Mi sentii le gambe molli, cedevano al peso del mio corpo, ed entrambi finimmo in ginocchio sul pavimento freddo, senza mai staccarci l'uno dall'altra.
«Mi sei mancato da morire, Harry,» la sentii dire, ad un certo punto. Non le risposi. Non riuscivo a parlare. Semplicemente, me la strinsi al petto ancora più forte, per paura che potesse staccarsi o svanire nel nulla, per essere sicuro che quello che stava succedendo fosse reale e non solo un sogno, e rimanemmo fermi così, fermi e basta.
Aprii gli occhi, la mia fronte appiccicata alla sua, e mi accorsi che ero tutto un tremore quando provai a passare una mano fra i suoi capelli, senza riuscirci. «Sei bionda,» mormorai, tirando su col naso.
Percepii il suo sorriso tra i singulti del suo pianto. «Ti piace?»
«Sei bellissima, Gem».
Il petto mi faceva male, ma non sapevo se fosse per la gioia o per il dolore o per tutte e due le cose. Faceva così male che trovai difficile fare un respiro completo, sentivo che sarei potuto svenire da un momento all'altro. E non so per quanto tempo restammo così, immobili, abbracciati, accovacciati. Forse qualche minuto, forse qualche ora. Ma non aveva importanza. Niente aveva più importanza.
«Harry,» mormorò poi lei. «Te lo prometto di nuovo, non ti lascerò più».
«Mi sei mancata così tanto,» replicai. «Così tanto».
«Anche tu».
Pian piano ci rialzammo da terra e sciogliemmo un po' l'abbraccio, anche se rimase vicina a me con un braccio ancorato al mio, stretto. Neanche io la volevo lasciare andare. Mi asciugai il viso con la manica della giacca, scuotendo la testa.
«Tutto okay?» domandò Daniel.
Annuii. «Quindi tu... insomma... sì, ecco...» non trovavo ancora le parole.
«Già,» disse. Aveva capito.
Si alzò a fatica dalla sua sedia, facendo qualche passo malfermo verso di me. «Mi dispiace davvero, Harry. Mi dispiace così tanto per tutto. Per averti ferito, per aver ferito Selena, per averti mentito, per Dalia, per non essere mai stato dalla tua parte, e mi dispiace averti perso come cugino e come amico-»
«Stai zitto,» scossi la testa di nuovo, attirando pure lui in un abbraccio. «Ti perdono tutto, Daniel. Non devi scusarti di niente».
Non ricordavo l'ultima volta in cui eravamo stati così vicini. «Grazie. Per ogni cosa».
Un peso enorme sembrò sollevarsi dal mio petto. Non mi ero mai sentito così felice – profondamente, veramente felice – in tutta la vita. E non era una felicità euforica, una felicità che mi faceva ridere e sorridere, ma più una felicità di sollievo, una felicità antidolorifica, che mi svuotava le viscere di tutto l'odio e il dolore che avevo accumulato per lui e per quello che ne era seguito – mi sentivo pieno, pieno di tutto quello che mi era stato tolto. Erano momenti come questi quelli di cui mi parlava spesso Dalia, anche se prima di allora non avevo mai capito fino in fondo cosa fossero, cosa fosse l'amore – l'amore per la vita, per le persone, quello che ti riempie e ti fa sentire completo e in pace con te stesso. Era solo in momenti come questi che l'amore te lo sentivi dentro. E Dalia aveva ragione. L'aveva sempre avuta.
Io ero pieno d'amore. Ero completo. Ed ero felice.
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