2.
Mi svegliai tranquillamente, un raggio di sole filtrava dalle foglie verdi della foresta, finendo sulla roccia su cui ero distesa per dormire, proprio di fianco a un piccolo ruscello. Si sentiva vociare dal grande accampamento che avevamo messo su con tutti i delegati dei popoli che avevano stretto alleanza con noi. Ogni fazione aveva deciso di inviare qualcuno dei loro per combattere il Regno, e così avevamo messo su un piccolo esercito variopinto, con mille capacità diverse.
Mi stiracchiai, spostando i capelli bianchi e gocciolanti dalla faccia.
Mi avvicinai al campo, il grande falò bruciava in uno spiazzo tra i tendoni. Ogni tenda era un po' diversa dalle altre: c'erano quelle basse, fatte di foglie e rametti, dove si riunivano anche una decina di kertos per tenda; gli aklei invece le ricoprivano pelle di bufalo delle nevi, legate con dei lacci; i drinoi invece dormivano per terra, su teli biancastri, e usavano delle tende solo per tenere i loro averi, armi e provviste. I terrhassiani invece, si erano portati dei carri, costruiti con legno grezzo e con le ruote fatte per camminare nel fango delle paludi senza arrancare.
Avevo sempre vissuto in solitudine, osservando i kertos e qualche drinoe da lontano, non avevo mai conosciuto da vicino queste creature. E ora invece ero la portavoce di questa alleanza, lasciata sola in mezzo a tutta questa gente che non faceva altro che litigare, sotto la pressione della minaccia degli umani.
Per fortuna non mi occupavo delle scelte di guerra, per quello avevamo messo su un consiglio, così lo aveva chiamato il nuovo capo dei kertos.
Salutai chi mi passava di fianco, e mi, diressi verso il capo degli aklei del campo, un essere grande e virile, con lunghe corna sul capo e muscoli possenti sotto il pelo spesso.
"Buongiorno, qualche novità?", chiesi subito.
Lui si voltò a guardarmi, con le sue pupille piatte in mezzo alle iridi arancioni.
"Ben svegliata. Nessuna novità, gli uomini sono sempre fermi a quel campo. E i nostri inviati per gli alleati non sono ancora tornati, ma dovremmo ottenere una nuova alleanza in un paio di giorni, si spera", mi rispose serio, con voce rauca e bassa.
"I tuoi simili del sud che dicono?" gli chiesi. Come quasi tutte le creature non umane, gli aklei usavano la magia nella loro vita. I kertos la usavano per cose come la luce, io per comunicare con il bosco e gli aklei la usavano per accendere fuochi e per comunicare tra di loro. Si pensava che fossero creature che vivevano in comunità isolate da tutto, invece avevo scoperto che tra i vari clan comunicavano spesso.
"Non rispondono da giorni, penso che non potremo più contare su di loro", disse con tono aspro, io deglutii, realizzando che la guerra fosse davvero estesa a tutti i confini. La comunità di aklei con cui eravamo in contatto si trovava infatti tra le montagne a ovest, la parte meridionale delle Terre Magiche.
"Gli altri gruppi dovranno darci ascolto, dovranno accettare l'alleanza, nessun Magico sopravvivrà se non ci uniamo", strinsi le mani in pugni, lo sguardo puntato sul falò.
"E i tuoi amici umani? Torneranno o ci hanno semplicemente abbandonato?" sputò lui brusco. Io lo fulminai con gli occhi.
"Torneranno, e se non lo faranno sarà perché sono morti. Stanno cercando di aiutarci evitando che trasformino Hellen in un'arma di distruzione".
"Secondo te chi può aver distrutto un esercito dei miei in meno di due giorni? È troppo tardi per quello, ninfa", incrociò le braccia possenti al petto e io sentii il gelo lungo la schiena, sentendo le sue parole.
"Allora… Allora staranno cercando un modo per fermarla…" Esalai più titubante, con la voce improvvisamente meno ferma.
"L'unico modo che vedo, è ammazzarla. E non penso che quegli umani siano in grado di farlo", si voltò verso di me con il dito alzato.
"Per me possono andare a sdraiarsi coi sassi", un vecchio modo di dire della sua gente, "noi combatteremo fino alla morte, con o senza i tuoi amici. Quella stronza non passerà sopra il mio territorio da viva".
Deglutii, mentre lui si voltava e se ne andava sbattendo i piedi.
Mi voltai, osservando il campo e scacciando la preoccupazione per i miei amici e per Noah, di cui ancora non avevo sentito notizie.
*******
Nella Capitale
Il mio vecchio quartiere era un deserto, dopo le rastrellate dei giorni precedenti. I soldati avevano approfittato del decreto reale per fare retate nei sobborghi della città, arrestando ogni sospettato. La magia era abbastanza diffusa nei quartieri poveri, anche se le uniche cose che si trovavano erano filtri banali o blandi incantesimi. La gente di quelle vie aveva imparato a non fidarsi dei soldati, e recentemente avevo notato che uscissero sempre meno persone, per evitare le pattuglie che controllavano angolo per angolo.
Per me e Kay era stato complicato. Non era sicuro rimanere in quella casa fuori città per troppo tempo, e i soldati erano arrivati fin là. Ci spostavano spesso ora, e il mio quartiere, che conoscevo a menadito, mi sembrava l'opzione migliore.
Non casa mia, o meglio, quella dei miei, che avevamo usato con Poliah. Quella era stata blindata dal Regno, e le stampe della mia faccia erano sparse un po' ovunque. Ero un ricercato, e al fianco della mia faccia, spuntava anche una nota che recitava "in probabile compagnia di un secondo uomo, occhi azzurri e una cicatrice sul volto". Non conoscevano l'identità di Kay era ancora segreta, ma la descrizione era abbastanza accurata.
Non potevamo usare i filtri per camuffarci, perché insieme ai soldati c'erano spesso cani, gatti o persino volpi del deserto, addestrati a percepire la magia nell'aria.
L’umore tra di noi era basso, eravamo sconfortati, ma avevo una mezza idea in mente.
Con molta attenzione, cappucci calati e quasi mai tutti e due insieme, attraversavamo le vie del quartiere per arrivare al bordello “Il Fiore Bianco”, dove ci eravamo incontrati con Hellen e Poliah mesi prima. Quel posto era ancora il mio piccolo rifugio, l’ultimo straccio di sicurezza che mi era rimasto nella mia vita.
Ai piani sotterranei, dove di solito si radunava il piccolo mercato clandestino, ora si trovavano panche e sedie, tra una bancarella e l’altra. Parecchie persone si aggiravano nella penombra di quel posto, di cui la maggior parte avevano il volto coperto, da bandane, maschere o cappucci, proprio come noi. Nessuno era propenso a far conoscere la propria identità, molti di loro erano criminali o ricercati, oppure svolgevano una vita poco lecita e in quel quartiere, era così praticamente per tutti.
Un bastone ticchettò su un bancone in legno, in un angolo del seminterrato. Un signore di mezza età, che conoscevo solo di vista, con una caraffa in mano, prese la parola.
“Sedetevi, iniziamo”. Come uno sciame, le persone iniziarono ad accomodarsi, mentre io e Kay, dopo uno sguardo d’intesa, ci sistemammo addossati al muro.
“I soldati ci stanno rovinando gli affari. La magia è bandita, le retate sono sempre più frequenti, e usano qualsiasi scusa per arrestarci tutti”, cominciò l’uomo, camminando avanti e indietro davanti alle sedute, appoggiandosi al bastone. la camicia consunta, i capelli brizzolati e la barba di qualche giorno.
“Stanno svuotando il quartiere!” si sentì da un angolo della platea.
“Ieri hanno arrestato mio figlio!” un’altra voce salì dalla folla, seguita da altre, e presto tutta la platea era in subbuglio.
“Silenzio!” Il tizio battè di nuovo il bastone e calò il silenzio di nuovo.
“Questa guerra è un’ottima occasione per i miei affari, ve lo devo dire. Ma in città le cose si fanno ogni giorno più complicate, e io mi sto stufando”, continuò il tizio.
“Dobbiamo fare qualcosa!” altre voci iniziarono a protestare.
Dei colpi dal piano di sopra e dei passi veloci sulle scale, misero tutti in allerta. In un secondo la folla era tutta in allerta, con pugnali e lame di vario genere, pronte all’attacco. Anche io e Kay scattammo, pronti alla fuga.
La mia mano stretta sull’elsa, proprio quando due ragazzi fecero irruzione nello spazio buio.
“Mastro!” urlò uno dei due, “sta succedendo qualcosa alla Piazza Grande! stanno richiamando tutti i cittadini”, continuò l’altro.
“Che succede?” il signore che prima inneggiava alla rivolta, si fece spazio tra la gente e i banchetti, raggiungendo i due ragazzi. Io allungai il collo per vedere meglio.
“Probabilmente un’esecuzione, stanno portando una donna sul palco, una strega, credo”, io e Kay ci guardammo, la stessa paurosa realizzazione negli occhi. Scattammo in sincronia, sgomitando la folla che stava già cercando di uscire dal seminterrato.
La Piazza Grande era dall’altra parte della città, e le vie pullulavano di pericoli, per due ricercati come noi.
Svicolammo per le stradine più isolate, nonostante il gran fermento, ma quando iniziammo ad avvicinarci alla Piazza, divenne sempre più difficoltoso fuggire dagli sguardi e allo stesso tempo non risultare sospetti.
“Bas”, mi chiamò il mio compagno, toccandomi il braccio, “i tetti”, bisbigliò guardando verso l’alto.
Sbuffai frustrato, ma annuii.
Girammo in un vicolo stretto, umido e puzzolente. Kay usò un bidone per issarsi sul bordo di una finestra, poi fece forza su una grondaia e continuò ad aggrapparsi alle sporgenze fino ad arrivare al secondo piano, dove con le braccia si tirò oltre il limite del tetto.
Lo seguii subito dopo, replicando le sue mosse, frutto di anni di vita da strada. Mi aiutò a non scivolare sulle tegole e poi proseguimmo, stando attenti a non farci vedere dalle vie sottostanti.
Rischiai di scivolare almeno cinque volte, saltammo da un palazzo all’altro, arrampicandoci su e giù per gli edifici. Quando fummo abbastanza vicini, ci appostammo dietro l’angolo di un grosso comignolo. Mi piegai sulle ginocchia e mi sporsi verso il basso per vedere la piazza.
Era grande e ovale, dal pavimento lastricato. Dal viale più grande, che dava verso sud, si intravedeva il Palazzo Reale. La folla era già stipata sotto al sole di un pomeriggio di fine primavera, tutti con lo sguardo rivolto verso il centro, dove sorgeva un pomposo palco in legno e decorato con gli stemmi reali.
Due assi incrociate erano sistemate al centro di esso, e alle estremità superiori erano fissati degli anelli di metallo, che emanavano un riflesso sinistro.
Stringevano due polsi pallidi e sottili, le mani ossute. Ero lontano, e i dettagli mi sfuggivano, ma vedevo chiaramente il corpo della donna, coperto da un semplice abito bianco e consunto, simile a un abito da notte. Le ginocchia piegate perché non sorreggevano il peso, e il capo piegato verso il basso, coperto da una lunga e arruffata chioma rossastra, che un tempo aveva riflessi molto più accesi e lucenti.
“Poliah…” mormorò Kay vicino a me. Mossi un piede, pronto ad agire, ma la mano del ragazzo mi bloccò la spalla.
"Cosa pensi di fare? Attraversare la piazza, liberarla e andartene indisturbato?” mi sgridò lui.
Non potevo crederci.
“Cosa dovrei fare? Non possiamo lasciarla lì!” Gli occhi spalancati, rivolti al mio amico, che in quel momento vedevo allo stesso modo di un nemico.
“Ci sono troppe guardie, e lei non è in grado di aiutarci, non riusciremmo a fuggire, o comunque ad uscire dalla città. Se ci ingabbiano, la guerra è persa, Bas. Se ci uccidono, Hellen e Noah perdono ogni speranza di salvezza”.
Aprii la bocca, per ribattere, ma il suono delle trombe mi fece voltare di scatto.
In tutta la sua magnificenza, la Regina Alissa, in un elegantissimo abito rosso e bianco, i capelli biondi raccolti sul capo e la pesante corona ad adornare la testa,
sorrideva mentre saliva sul palco, scortata da quelli che un tempo erano miei compagni. Poliah intanto aveva alzato il capo, fissando gli occhi arrossati, verso il cielo. Il viso smunto, le occhiaie profonde e gli zigomi sporgenti. Non era la donna che avevo conosciuto, quella donnina pienotta, sempre elegante e con un sorriso per tutti.
Sentii Alyssa iniziare il suo sproloquio, ma riuscii a carpire solo qualche parola, a causa della distanza e del brusio della folla. Sentii chiaramente la parola “strega”, “magia”, “traditrice”. Si mise da parte, sorridendo, allungò la mano verso la folla, come ad invitare qualcuno a salire sul palco con lei. dal pubblico qualcuno riuscì a muoversi, avanzando, e presto la gente iniziò a farsi da parte, lasciando passare l’uomo.
Ci dava le spalle, non riuscivo a vederlo in volto, ma aveva la testa rasata, il corpo fasciato solo da una pettorina in cuoio nera, che gli scopriva le braccia. Una spada giaceva a tracolla sulla sua schiena. L'andatura tranquilla ma sicura, mentre faceva il giro del palco per salire i gradini.
Sentii chiaramente il mio cuore congelarsi e rompersi in mille schegge, quando finalmente scorsi il suo profilo.
Non aveva più la barba, i riccioli dorati o l’orecchino, ma quello era il volto del mio amico Noah.
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