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6- Duniya: Dea Terra

Nella cittadella ai piedi del Sinjeon, la vita era attiva dall'alba fino al tramonto. Solo verso le otto di sera, quando il sole si nascondeva dietro le isole volanti più lontane, anche i cittadini facevano lo stesso, ritirandosi nelle proprie case. La sartoria di Rossana Clarkish sorgeva nella parte ovest del paese, verso i confini dell'isola e quindi vicino al Terzo Porto, dove mercanti, turisti e fedeli arrivavano nella Capitale o partivano verso altre terre. Il Terzo Porto era quello più piccolo in città, superato in grandezza dal Secondo Porto, ad est, e dal Primo Porto, a sud. Era da lì che la strada principale prendeva vita e conduceva direttamente ai trecento scalini, attraversando l'isola e regalando una vista del tempio spettacolare.

Il drago comune di Rossana si trovava nelle stalle del Terzo Porto insieme agli altri della sua specie; bastava pagare una piccola tassa mensile perché qualcuno se ne prendesse cura. Quel giorno Rossana gli aveva fatto visita il mattino presto, come sempre, e poi era tornata al negozio in fretta, certa che sarebbe stata una giornata piena. Sfortunatamente per i suoi affari, non era stato così. Sul bancone della sartoria, Rossana sfogliava annoiata una storia che suo padre, quando era una bambina, gli leggeva spesso. Parlava dei grandi Cavalieri di Fuoco, uomini e donne in grado di domare i feroci draghi corazzati.

Se i draghi comuni erano animali piuttosto docili e amichevoli, dal manto color ambra e gli occhi scuri, lo stesso non si poteva dire dei draghi corazzati. La specie doveva il nome alla consistenza delle squame, impenetrabili e lucenti quanto il metallo, che secondo la leggenda si erano indurite grazie alle continue ed estenuanti battaglie di fiamme tra i draghi.

Rossana poteva dire di averli visti solcare il cielo quando era ancora giovane. Ne ricordava l'imponenza, le ali enormi che adombravano quartieri interi della Capitale, i ruggiti che facevano scappare stormi di volatili. Ora, invece, dell'antica era dei Cavalieri di Fuoco non erano rimasti che i racconti, ricordi gloriosi della vera potenza delle Terre Volanti. Storse le labbra. L'idea che i pochi draghi corazzati ancora in vita fossero segregati nella Secondaria non le piaceva, ma d'altronde Dionne non aveva potuto fare altro. Nessuno negli ultimi anni era stato più in grado di ammaestrarli.

Rossana chiuse il libro di scatto, sospirando, e si rimise a lavorare, continuando fino a pomeriggio inoltrato.

Stava riordinando gli ultimi accessori, l'intento di chiudere il negozio, quando il campanellino all'ingresso tintinnò. Alzò lo sguardo, lanciando una rapida occhiata alle due figure coperte, i volti nascosti sotto il cappuccio della mantella nera. Rossana capì che si trattava di mercanti dalla tela ricercata degli abiti che indossavano al di sotto; non tutti potevano permettersi stoffe simili. Finse di non aver sentito la porta aprirsi, continuando nel suo lavoro, e aspettò con pazienza che uno dei due parlasse. Senza delicatezza un sacco fatiscente venne posato sul banco e Rossana simulò un sussulto, accogliendo i clienti balbettando.

«Oh! Perdonatemi, non vi ho visti entrare!» mentì «In cosa posso aiutarvi?»

«In città parlano del tuo negozio, sarta. Tutto rimane tra queste mura, corretto?»

Rossana si mise sull'attenti: l'accento del mercante era chiaramente quello delle Terre di Mezzo, le lettere che strisciavano sul palato con una tonalità quasi rude. Non si era preoccupato di nasconderlo. Annuì, recitando la parte della donna spaventata, ma interessata a un possibile guadagno. I due si guardarono ancora, una nota di incertezza dipinta sui visi ombrati dal cappuccio, poi lasciarono sul banco da lavoro un sacchetto colmo di monete dorate.

«Il silenzio è ciò per cui ti paghiamo. Torneremo domani»

Rossana aspettò che si allontanassero prima di chiudere la porta a chiave. Era confusa. In tutti quegli anni, in cui aveva sentito e riferito segreti e pettegolezzi, mai era stata coinvolta in prima persona negli affari loschi della città. Sempre se di questo si trattasse. Tornò al bancone e afferrò il sacco logoro, aprendolo. Al suo interno c'erano dei vestiti macchiati, un forte odore di sangue che le fece storcere il naso. Lanciò gli abiti nella cesta dei panni che avrebbe dovuto lavare quella notte, lasciandosi cadere sulla sedia di legno con aria affranta.

Era successo qualcosa di grave nella Capitale, ma cosa? Il primo istinto di Rossana fu quello di avvertire Dionne per informarla della visita inaspettata. Fece per indossare i panni di Clarke Ross e dirigersi al castello, quando notò, illuminata dalla luce della casa di fronte, un'ombra che immobile fissava il suo negozio: era il mercante di prima, quello con l'accento straniero. Pensò subito all'ingresso sul retro, ma niente le garantiva che l'altro uomo non si trovasse proprio davanti al vicolo secondario. Rossana tornò sui suoi passi. Doveva comportarsi normalmente. Finse allora che si trattasse di una qualsiasi serata: si fece un tè caldo, si diresse verso il piano superiore, coricandosi nel letto con la tazza tra le mani, e spense le luci, tenendo accesa solo la lampada sul comodino, un oggetto del Vecchio Mondo che era appartenuto a suo padre.

Doveva trovare un modo per raggiungere Dionne, avvertirla. Il fatto che fosse controllata da qualcuno non lasciava presagire nulla di buono. Doveva pensare e riordinare le idee. Perché non sbarazzarsi dei vestiti? Perché portarli nella sua sartoria? Che quegli uomini conoscessero il suo legame con la corona? E perché era così spaventata? Vent'anni prima si trovava in una situazione ben più grave e pericolosa. Allora perché le mani non smettevano di tremarle? Aveva sempre saputo a cosa stesse andando incontro diventando una spia, conosceva i rischi e i pericoli. Forse i venti lunghi anni di tranquillità l'avevano rammollita.

L'amicizia che la legava a Dionne era così forte che Rossana era certa che mai le avrebbe voltato le spalle. Per la prima volta però un senso di timore si fece largo nel suo cuore, per la prima volta ebbe paura.

Ebbe paura per la sua vita.

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Dopo la pesante giornata passata con Ejel Sorgüt e suo figlio Michael a discutere riguardo le questioni economiche, politiche e sociali del regno, Dionne poteva finalmente rilassarsi. Raggiunse il suo luogo preferito di tutto il castello, il giardino privato del Sinjeon, che subito l'abbracciò con il suo tipico profumo di fiori. Si stese sotto la chioma sempreverde dell'albero sacro e con delicatezza accarezzò le sue radici, la sensazione di familiarità che riuscì come sempre a calmarla. Quel luogo riusciva a darle pace, a svuotare la sua mente.

All'interno del Kroaght scorreva la vita, o almeno, questo era ciò che narravano gli antichi libri. Si diceva che la Dea Terra riposasse nel suo tronco e che il suo sangue scorresse sotto forma di linfa; era per questo che ogni singola foglia mai ingialliva e mai cadeva, rimanendo ancorata saldamente ai suoi lunghi e sottili rami. Qualcuno raccontava che la linfa donasse la vita eterna, qualcun altro che il respiro della dea salvasse tramite essa chi in punto di morte, leggende popolari che erano andate a diffondersi nel corso dei secoli. Quale fosse la verità, solo la Dea Terra poteva saperlo.

Dionne si lasciò cullare dal fresco venticello, che dolce le baciava il viso impensierito, e chiuse gli occhi, godendosi quella libertà che sentiva ogni qualvolta si trovava finalmente sola. Una sensazione piacevole le solleticò le dita, risalendo lungo le braccia, e attraversò poi ogni arto del suo corpo; il formicolio giunse presto fino al cuore, dove si fermò a lungo, permanendo nella sua meta. Il respiro iniziò a farsi più pesante e quando il nero l'avvolse e le iridi verdi divennero bianche, la visione iniziò.

Si trovava ancora accanto al Kroaght, eppure il tempio era sparito, sostituito da un'infinita radura di margherite che tinteggiavano il luogo di un candido bianco. La luce era quasi accecante, di una luminosità incredibilmente pura e naturale; non proveniva dal sole, ma da un cielo chiaro e splendente, dove piccole farfalle dalle ali trasparenti danzavano libere e leggere.

Una donna dalla pelle scura sedeva con grazia di fronte la regina, piante d'ogni tipo che l'avvolgevano come un vestito. I lunghi capelli verdi toccavano il suolo, fili d'erba che si univano al prato acceso, e i suoi occhi castani, così come Vuxta, brillavano di piccole pagliuzze dorate; oro erano anche le sue labbra carnose. Dionne si inchinò, lo sguardo teso dell'altra che la guardava senza nascondere la sua preoccupazione. Per rispetto, aspettò che Duniya, la Dea Terra, parlasse per prima.

«Dionne» la voce della dea era calma e pacata, ma la regina conosceva fin troppo bene le dinamiche ultraterrene per illudersi di parole altrettanto dolci.

«Dal sangue tutto avrà inizio e dal sangue tutto avrà fine. Sangue innocente, sangue colpevole, sangue sacro. Il sangue sarà l'inizio del cerchio e la fine del medesimo, la sete di potere sarà la fame del popolo, la repressione del singolo la morte di molti. L'oscurità avvolgerà la luce e la morte abbraccerà la vita»

«Cosa significa? Cosa dovrei fare?» domandò scossa.

«La terra vibra, terrorizzata da un futuro non troppo lontano. Una risposta alla tua domanda non esiste, perché non esiste nemmeno un futuro certo» Duniya sorrise, accarezzandole una guancia con fare materno «I come, i quando, i perché, sono piccole particelle di un qualcosa di troppo grande per essere definito e compreso. Ogni scelta comporta una conseguenza, Dionne, lo sai»

La dea non aspettò che Dionne rispondesse. Chiuse gli occhi e la regina fu costretta a fare lo stesso. Quando li riaprì si trovava di nuovo nel giardino del Sinjeon, non più illuminato dal sole, che calante stava lentamente lasciando spazio all'oscurità della notte.

Dionne tremò. E per la prima volta dopo tanti anni, non si sentì al sicuro nella propria casa.

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