41- Sole Rosso
L'orologio rintoccò, era mezzogiorno. Il popolo si era già riunito nella piazza, presidiata da tante guardie reali come mai prima di allora. La confusione negli occhi della gente era evidente, nessuno comprendeva il motivo per cui tutti, dagli abitanti della cittadella a quelli delle isole volanti più vicine, erano stati lì invitati. Pergamene color panna, rilegate con filamenti dorati, si trovavano nelle mani dei presenti, comprati e convinti dal sacchetto di monete donatogli con l'esortazione di raggiungere la Capitale. I soldati tenevano lontani la folla dai dintorni della sacra scalinata, le armi sguainate per far fronte ad ogni evenienza, e il popolo cercava di sporgersi per assistere al misterioso evento. Ignari di quanto stava per accadere, nessuno sapeva cosa aspettarsi, la speranza di un nuovo inizio che tuttavia già si era insinuata nei cuori della gente, la siccità dell'estate e la conseguente penuria ricordi ormai lontani.
Illusi, pensò August, lo sguardo sulla massa che fiduciosa sorrideva e allungava le mani in una devota preghiera verso il Sinjeon. Anche lui si trovava nella calca, la pergamena tra le dita e il braccio di Vanya intorno al suo. Non aveva alcuna intenzione di sottostare alle richieste dell'invito, avrebbe anzi preferito rimanere a casa piuttosto che trovarsi schiacciato dalla folla, ma le tenere suppliche della proprietaria dell'albergo erano riuscite a convincerlo e così si era ritrovato ad accompagnarla. Nonostante fosse già di malumore, era contento di non averla lasciata sola in balia degli insistenti spintoni che li incalzavano ad avanzare.
Si guardò intorno, scoprendosi più preoccupato di quanto non lasciasse intravedere. Da quando era giunto nella Capitale non riusciva più a cogliere alcuna differenza tra la cittadella e le terre che da anni evitava. La contaminazione della classe mercantile era evidente, poteva percepirne sia la presenza che la famelica corruzione: il denaro ricevuto non ne era che la triste conferma. L'incontro con Lys, l'atteggiamento di arroganza e paura, i controlli tra un'isola e l'altra, l'aumento delle tasse e il popolo ridotto alla fame. Aveva capito fin da subito che qualcosa nel regno stesse cambiando drasticamente, ma August aveva dovuto assistere allo svolgersi di ogni fatto per comprenderne il motivo: Lys era Fleurdelys Skysee e la sua fuga non poteva che significare un rovesciamento del potere centrale. Prima le tasse, poi i giornali, il premio in denaro e infine quell'inutile tentativo di comprare la sua lealtà come cittadino delle Terre Volanti gli avevano fatto ben intendere che qualcun altro occupasse ormai da lunghe ed estenuanti settimane il trono reale.
Sospirò scocciato quando qualcuno lo urtò per avvicinarsi all'enorme piattaforma che stanziava davanti ai trecento scalini. La funzione della costruzione di legno, rialzata dal terreno e dall'aspetto di un palcoscenico, ancora non aveva assunto un senso ai suoi anziani occhi. In più di sessant'anni di vita August aveva visto, ascoltato e compreso molto del mondo e dei suoi meccanismi, ma mai il potere, né con Keira né con Dionne Skysee, aveva assunto le sembianze di una messinscena teatrale: era a quello a cui pensava mentre fissava la struttura, le incisioni decorative nel mogano e gli undici monconi di tronco che sopra si trovavano.
L'orologio rintoccò di nuovo, mezzogiorno era appena passato.
Trascorse mezz'ora senza che nulla accadesse, la confusione che si fece padrona dei volti sempre più ansiosi e l'attesa che alimentava il desiderio di capire perché le imponenti porte del Sinjeon fossero ancora serrate. Passò un'ora prima che August capisse: ogni cerimonia iniziava nell'ora in cui il sole raggiungeva il punto più alto del cielo, ritardare l'evento significava sfidare Araw e la sua potenza, una prima rottura con le tradizioni del regno. Chiunque si trovasse al potere non era uno sprovveduto, al contrario aveva appena dato prova della sua intelligenza, colpendo le Terre Volanti esattamente nel loro più grande principio: la fede.
«Credo sia meglio andare via» proferì, stringendo Vanya a sé.
«Non dire sciocchezze, siamo così vicini! Sono certa che presto la famiglia reale arriverà»
«Non penso dovremmo...»
Non fece in tempo a condividere i suoi dubbi e i suoi timori, che finalmente le porte del tempio si spalancarono. Sotto gli sguardi stupiti dei presenti non furono né Dionne né Fleurdelys Skysee a fare il loro ingresso: i capitani dell'esercito uscirono uno dopo l'altro, scendendo i primi scalini della gradinata e posizionandosi ai suoi lati. Si inchinarono, il capo chino in segno di rispetto; solo due dei sei appartenevano alla vecchia cerchia di Dionne. Poco dopo dal Sinjeon uscirono altri due uomini: il capitano Boeder Rosdafh, ora nominato primo e unico generale, e Vermund, avvolto nel suo elegante e appariscente vestiario, la corona dorata che brillava sulla chioma corvina.
Calò il silenzio.
Il mercante avanzò, il sorriso di vittoria dipinto negli occhi di ghiaccio.
«Per chi non mi conoscesse, il mio nome è Vermund Crasteba»
Vanya si girò piano verso August, sorpresa e preoccupata nel sentire il cognome dell'uomo accostato al nome dell'usurpatore. August invece sbiancò, confuso e turbato, e continuò ad ascoltare.
«Il regno della dinastia Skysee è morto» annunciò Vermund, superando i capitani ancora in ginocchio «E da oggi, per tutti noi sarà l'alba di una nuova era!»
Brusii di sconcerto e disapprovazione iniziarono presto a diventare grida di dissenso e le grida non fecero che far ridere di cuore Crasteba, che ubriaco di discordia prese di nuovo parola, continuando il suo discorso. Era grazie a Rossana, quella stupida sarta, che aveva capito di non poter mostrarsi come un salvatore, che il popolo delle Terre Volanti non l'avrebbe mai accettato come sovrano. Per questo Vermund aveva deciso di cambiare approccio.
«Badate a quanto dite e fate,» sorrise «nulla rimarrà più impunito»
Si girò quindi verso le porte del Sinjeon, le braccia aperte e la risata cristallina che rimbombava nel cuore della città.
«Sfidatemi e queste saranno le conseguenze!»
Altri soldati fecero la loro comparsa, lasciandosi il tempio alle spalle. Le statue dei cinque dèi sembravano quasi intristite nell'osservare i prigionieri che, incatenati l'uno dietro l'altro, venivano trascinati dalle guardie lungo la scalinata. Il capitano Guernset si trovava in testa alla fila, il volto macchiato di sangue e un occhio di un gonfiore violaceo, dietro di lui Sir Bondou e il resto del consiglio della Resistenza, imprigionati la stessa notte del tradimento e fermati dall'esercito prima che il piano giungesse a termine. Furono condotti sulla piattaforma, gli sguardi terrorizzati della folla sottostante, e fatti inginocchiare ognuno dietro a un tronco, un soldato accanto a ogni prigioniero.
Dietro Vermund, vicino alle porte del Sinjeon, Rossana e Dionne assistevano alla scena. Legate e imbavagliate, senza alcun diritto di parola e costrette a guardare senza poter fare niente, tenevano gli occhi fissi sulla piazza e i cittadini. Era la fine, nessuna delle due si illudeva del contrario. Si trovavano vicine, le spalle che si sfioravano, quel fugace contatto che bastava loro per trovare la forza e le rispettive ombre che si sovrapponevano, unite laddove i loro corpi non potevano toccarsi, insieme nella più buia oscurità.
Sotto i loro sguardi inquieti e le contrastanti emozioni di rabbia e paura dei presenti, Vermund diede l'ordine supremo.
I soldati alzarono le loro spade.
La lama calò brutale.
Fu veloce.
Il sangue schizzò, le undici teste rotolarono sul legno, una cadde dalla piattaforma.
La folla si spaccò, spingendo e urlando per allontanarsi.
La testa di Henry Guernset arrivò fino ai piedi di August, gli occhi senza vita puntati nei suoi, le lacrime che ancora scivolavano sulla pelle biancastra, il sangue che sgorgava dal collo mozzato. L'uomo fece un passo indietro, la mascella contratta in una smorfia di amarezza. Strinse Vanya tra le braccia, impedendole di guardare ancora e sopprimendo sul petto i suoi singhiozzi. Aveva visto abbastanza. Provò a farsi spazio nella calca, ad andarsene, spingendo e sollecitando la gente a farsi da parte: nessuno lo lasciò passare. Guardò lontano, verso i vicoli che portavano alla piazza, cercando di capire perché nonostante i più cercassero di fuggire da quel luogo di morte nessuno riuscisse nell'intento. Vide e comprese. Le guardie reali bloccavano la folla, costringendola a restare esattamente dove già si trovava: lo spettacolo non era ancora finito.
Dionne chiuse gli occhi, il senso opprimente di aver fallito come sovrana che si fece più soffocante che mai. Undici fedeli sudditi, di cui a malapena conosceva il nome, erano appena stati decapitati. Rossana non riuscì invece a distogliere lo sguardo dalla scena, la testa dell'amato che veniva calciata e spariva tra i piedi della gente. Pianse in silenzio, soffocando il dolore e mordendo il bavaglio che in bocca teneva, sangue e saliva che presto imbrattarono il bianco della stoffa. La rabbia pervase il suo cuore, l'ira si fece padrona di ogni sua azione; guardò Dionne, le chiese perdono. Lei capì, un urlo silenzioso che la supplicava di non farlo. Rossana sorrise, le lacrime che libere continuavano a tracciare il loro triste percorso, e disobbedì, per la prima volta nella sua vita, alla volontà della sua regina.
Si alzò veloce e si liberò del soldato che teneva le sue corde, mettendo in pratica i vecchi insegnamenti del padre: prima una testata, poi una gomitata sulla giugulare e la guardia cadde dolorante. Con ancora le mani legate non lasciò ad altri il tempo di reagire: superò i capitani, troppo attoniti per sfoderare in tempo le proprie spade, e raggiunse Vermund Crasteba che, con ancora il suo ego rivolto ai cadaveri, di nulla si era accorto. Circondò il suo collo con le braccia, la corda che lo strozzava e le mani di lui che provavano invano a liberarsi. Vermund annaspò, il viso olivastro tinto di un rosso vivo, l'inutile sforzo di respirare.
C'era quasi, mancava davvero poco perché di lui non restasse nulla. Strinse più forte la corda, facendo leva sui muscoli delle braccia, l'uomo che tentava invano di difendersi.
Poi Rossana sputò sangue e la presa venne meno.
La punta di una spada fuoriusciva dal suo petto.
Si portò le mani alla ferita, voltandosi. Non guardò il suo assassino. Lo sguardo passò oltre, alla ricerca dei familiari e amati verdi smeraldi, gli unici occhi a cui desiderava dire addio. In un silenzioso ringraziamento, furono l'ultima cosa che vide.
Dionne gridò.
Arrancò nella direzione di Rossana, le mani legate che tremarono nell'allungarsi verso di lei nel vano tentativo di afferrare quell'ultimo spiraglio di vita. La vide accasciarsi, la spada che ancora trapassava il suo corpo. Lacrime ferite sgorgarono prepotenti e quando una guardia arrestò il suo patetico sforzo di raggiungere Rossana, Dionne si lasciò cadere, incapace di guardare quel che restava della sua migliore amica. Si abbandonò alle emozioni, incurante del popolo che muto la stava compatendo, liberò i singhiozzi, la sofferenza delle sue grida che toccò persino i cuori più duri. Qualcuno ebbe l'accortezza di slegare il bavaglio quando la sentì tossire e quasi strozzarsi, ma nessuno fece e osò fare di più. Per la prima volta da che le Terre Volanti ne avevano memoria, la sovrana si mostrò nuda, debole e fragile davanti al mondo, piangendo e struggendosi per una perdita che mai altri avrebbero potuto colmare. Rossana Clarkish era morta, morta davanti ai suoi occhi. L'amica di una vita non c'era più.
«Prendila e portala da me» ordinò Vermund, furente, al nuovo generale in carica.
Per nulla impietosito dal misero stato di Dionne, il capitano Rosdafh così fece, afferrandola per i capelli e trascinandola per gli scalini fino al suo signore.
«Cosa vuoi ancora da me? Hai tutto ormai!» urlò Dionne, l'etichetta che abbandonò la sua voce rotta dal pianto «Cosa vuoi ancora?» pianse, stanca di lottare ora che sentiva di non avere più nessuno al suo fianco.
Aveva perso ogni cosa, dal suo regno alle persone per cui nutriva un profondo affetto, ma soprattutto aveva perso Rossana, colei che aveva amato più dello stesso Araw e che considerava come la parte più vera del suo cuore. Senza Rossana, Dionne non era nulla.
Toccandosi con una mano il collo arrossato, Vermund le afferrò il viso, asciugando con il pollice le incessanti lacrime. Dionne era lì, davanti a lui, persa nel proprio dolore. Era esattamente ciò che aveva sempre voluto, eppure vi era qualcosa nel suo animo che continuava a contorcersi, assettata di potere e di vendetta. Non gli bastava, bramava di più.
«Cosa voglio? Voglio che chiunque sappia come vent'anni fa hai ucciso mio padre» Vermund la teneva per il mento, ma a Dionne non sembrava importare. Si era arresa.
«Tuo padre era un mostro» osò dirgli comunque «Esattamente come lo sei tu»
Vermund mollò la presa, lo sguardo di Dionne che per una frazione di secondo gli ricordò la forte regina di un tempo. Fece quindi un cenno al generale, stanco di aspettare.
August sussultò, stringendo più forte Vanya e impedendole di assistere alla scena, incredulo e inorridito. La stessa spada che poco prima aveva ucciso Rossana trapassò Dionne, il sangue che le usciva dall'angolo della bocca e il petto scarlatto che si alzava e si abbassava veloce. Quando Boeder sfilò la lama, Dionne cadde in avanti, trovando sostegno in Vermund e le sue braccia. Il mercante le accarezzò il viso, sporcandosi del suo sangue le dita. Le sorrise quasi amorevolmente, l'amore malato di chi non sapeva cosa significasse davvero amare.
«Ciò che voglio, Dionne, è mostrare a chiunque l'oscurità che risiede in voi Skysee»
E con quelle parole, legate ai ricordi del defunto padre, infilò la mano nella ferita aperta, alla ricerca del cuore. Qualcuno urlò, ma non fu Dionne a farlo. La regina morì muta, le labbra schiuse e senza l'organo nel petto.
Vermund lo strappò via che ancora batteva, convinto di mostrare al mondo il recipiente del male. Ma il cuore di Dionne Skysee non era nero. Brillava anzi dell'oro degli dèi, riflettendo i raggi d'un sole intriso del sangue versato.
Intanto, lo stesso sole rosso raffigurato nelle carte della veggente splendeva alto nel cielo. Il sole di Araw.
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