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36- Quel poco che resta (II)

Phienn urlò quando un pugnale la infilzò proprio sotto il costato. Grugnì di dolore, ma continuò a combattere contro l'uomo che la stava ormai sovrastando, parando l'ennesimo colpo e scansandosi di lato; riuscì inaspettatamente a farlo cadere, quindi lo uccise a carponi sulla sua schiena e con un solo fendente di spada. Non ebbe il tempo di prendere fiato, tantomeno di tamponare la ferita, che un altro pirata la buttò a terra, un verso animale che gli usciva dalle labbra.

Il capitano si trovava in difficoltà, ferita e stanca per quell'attacco a sorpresa riusciva a malapena a impugnare la sua arma. Erano stati colti impreparati: la Concordia, sempre in allerta, aveva lasciato che il lutto oscurasse il resto, la prudenza compresa, e ora ne stava pagando le conseguenze. Nessuno, perché soffocato dal dolore o dall'intensità del rum, si era accorto della nave pirata in avvicinamento, nessuno aveva dato l'allarme, nessuno era stato svelto a reagire. Complici le grigie nubi e la nebbia della sera che adombrava la superficie marina, il vascello dai neri colori si era attraccato alla loro casa, invadendola, senza che nessuno fosse pronto a difendersi. La Concordia stava perdendo e tutti, Phienn inclusa, ne erano consapevoli. Non restava che combattere, combattere fino alla fine, combattere per la vita e la libertà.

Rotolò, riuscendo a schivare un pugno, ma la spada le scivolò via, lontana dalla sua mano. Finì sotto i piedi di qualcuno, un calcio, poi un altro, e si perse definitivamente nel combattimento, tra le gambe di compagni e pirati. Arrivò un altro colpo e Phienn questa volta non riuscì a evitarlo: incassò la ginocchiata nello stomaco e per un attimo le mancò il fiato; annaspò, non rimanendo tuttavia in attesa dell'ennesimo attacco. Si allungò infatti verso lo stivale destro, afferrando il pugnale nascosto e ferendo il tendine d'Achille del suo avversario. Questo si piegò in due, cadendo in ginocchio e Phienn non aspettò oltre: gli afferrò i lunghi capelli e gli tagliò la gola, il sangue che schizzò ovunque, imbrattandole il volto sudato.

C'era stato un tempo, prima che potesse permettersi di acquistare la Concordia e dopo che aveva lasciato August tra caccia e coltura, in cui si era trovata dall'altra parte, in cui la vita da pirata e cacciatrice di tesori le era appartenuta. Era giovane, sprovveduta, e ricordava fin troppo bene come le Terre di Mezzo l'avessero resa ladra e assassina; aveva qualche spiccio, ma non abbastanza per vivere così come il vecchio uomo le aveva insegnato: con onestà. Era libera, una donna e non più una bambina, ma parte di lei era ancora Gazzaladra, legata a quell'infimo soprannome che in schiavitù le aveva permesso di sopravvivere. Se prima rubava qualunque cosa a chiunque, in quegli anni aveva iniziato a selezionare le sue prede con cura, a togliere a chi più aveva con astuzia e scaltrezza. Si era presto fatta un nome e in molti avevano iniziato a temerla, qualcuno a reclutarla, finché non si era ritrovata in mare, come aveva tanto ardentemente voluto, a razziare come un mercenario al servizio di chi però aveva sempre odiato. E così, aveva iniziato ad odiare anche se stessa.

Lo sguardo cristallino di Phienn corse per tutto il ponte, dove solo sangue e morte imbrattavano il lucido legno della sua nave. L'aveva scelto lei stessa quel legno: abete rosso, uno dei più resistenti sul mercato e anche uno dei più costosi. Non aveva badato a spese, non per quello che sarebbe stato il suo futuro. Vide i suoi uomini, i suoi amati compagni combattere e morire, vide chi giaceva esanime e si chiese quanti cadaveri già si trovassero tra le braccia del mare. La storia e la vita di ognuno le passarono davanti agli occhi: le parole condivise, i litigi, le risate, le tempeste e le lunghe bevute di gruppo. Tutto finito.

Come pirata Phienn era brava, più capace e scaltra di quanto avrebbe voluto essere; a seguire gli ordini invece lo era un po' meno. Aveva viaggiato su più navi, sotto l'autorità di diversi capitani, eppure puntualmente veniva cacciata, allontanata perché riluttante a obbedire. "Uccidi i passeggeri", "Dai fuoco al vascello", "Ammazzali", comandi che ricordava ogni notte e che come incubi continuavano a bussare alla sua porta a distanza di anni. Gazzaladra rubava, ma non uccideva se non per legittima difesa, Gazzaladra era egoista, ma non insensibile. Gazzaladra era stata anche un'assassina, a Saigo, per liberarsi dei suoi secondi padroni, e proprio per questo non desiderava più esserlo. Phienn non era più Gazzaladra, non da quando aveva ripudiato la corruzione delle Terre di Mezzo, non da quando aveva compreso che le piccole navi mercantili non fossero che vittime, non da quando aveva la Concordia.

All'inizio era stato difficile trovare un equipaggio. Nelle Terre di Mezzo le donne non rivestivano ruoli tanto illustri come quello di capitano, non possedevano una nave né tantomeno la capacità, a detta degli uomini, di navigare o vivere in mare. Phienn ribaltava tuttavia ogni pregiudizio esistente e presto, nelle isole e nelle acque salate, tutti potettero constatarlo. Durante la sua infanzia aveva lavorato sottocoperta di enormi vascelli, ma non perché quello fosse il destino delle schiave bambine; era stata scambiata per un maschio per via dei suoi tratti marcati e aguzzi, dei corti capelli tagliati male e del corpicino ossuto, sfuggendo alla triste fine di crescere in un bordello o al servizio di qualche depravato.

Era stata una fortuna nella sfortuna, perché il mare che la teneva prigioniera era lo stesso che anni dopo l'avrebbe resa libera. Prima schiava, poi ladra, contadina e cacciatrice, pirata e infine mercante, Phienn era tutto ciò che i ricchi di quel regno più temevano: il simbolo del riscatto. La Concordia infondeva speranza perché rappresentava l'agognata libertà da quello che le Terre di Mezzo rappresentavano e non era un caso se nel giro di pochi mesi far parte della stessa era diventato il sogno di molti.

Phienn gridò quando vide Hijack, poco lontano, portarsi le mani alla lama conficcata nel petto. Corse nella sua direzione, il pugnale intriso di sangue che intanto incontrava la vita di chi si trovava sul suo cammino e ne diventava padrone, appropriandosi di essa con cieca brutalità.

Cinque anni. Erano cinque anni che Hijack l'affiancava, più di chiunque altro su quella nave. Gli uomini salivano e scendevano, andavano e venivano, prendevano strade diverse o semplicemente morivano, ma Hijack era rimasto, appoggiandola, sostenendola e proteggendola, quando nessun altro l'aveva fatto. Era l'unico ad aver visto ogni lato del suo sfaccettato carattere, dalla debolezza alla forza, a capirla senza l'uso di inutili parole, a conoscere il suo burrascoso passato e, in un certo senso, a farne parte.

Lei e Hijack condividevano una storia simile; era per questo che si sentivano talmente vicini, talmente uniti da poter comprendere ombre che nessun altro avrebbe mai potuto capire. La maggior parte della sua ciurma aveva vissuto sulla propria pelle le crudeltà della schiavitù o la brutale vita da pirata, tuttavia Hijack -come lei- le aveva sperimentate entrambe, indurendosi tanto da diventare l'uomo taciturno che ora era. Edgar Moreen era il nome del primo padrone di Phienn e sempre Edgar Moreen era il nome del padrone di Hijack. Non si erano mai incontrati prima della notte in cui la nave pirata dove Hijack era tenuto prigioniero attaccò quella di Phienn, eppure anni e anni prima avevano forse lavorato l'uno al fianco dell'altro, o poco lontano, assistendo alle frustate che toccavano inevitabilmente loro, senza sapere che un giorno avrebbero condiviso un futuro più roseo e assaporato insieme la dolce libertà.

Si piegò sull'uomo, sorreggendolo tra le sue braccia e cullandolo disperatamente, mentre le sue mani diventavano scarlatte, imbrattandosi del sangue che sgorgava incessantemente dal petto scoperto.

«Non osare lasciarmi» ringhiò, soffocando le lacrime «Non osare Hijack o ti ucciderò io stessa»

Dalle labbra del mercante uscì un suono strozzato, una risata mal riuscita intrisa di saliva e sangue. Hijack le strinse la mano, una presa debole e affettuosa che Phienn a stento riconobbe.

«Mia dolce Phienn» mugugnò, gli occhi spalancati colmi di gratitudine e la voce graffiata dal dolore.

«Combatti» sussurrò «e sii libera» le labbra screpolate si stesero in un sorriso e un rivolo rosso gli accarezzò la mascella, scendendo lungo il collo e gocciolando sul legno di abete.

Phienn gridò, stringendo il corpo morto di Hijack a sé, urlando straziata per quella perdita insopportabile. Per un attimo tutto si ovattò, tutto divenne lontano, un contorno di odio a cui il capitano si rifiutava di prendere ancora parte; per un attimo si rifugiò tra le braccia muscolose di Hijack e restò lì, al sicuro, distante dal mondo e da ogni suo male, per un solo istante si concesse di essere debole, di piangere tra le fiamme dell'inferno.

La battaglia infuriava intorno a lei, altri suoi uomini cadevano, stramazzando al suolo sotto il suo sguardo perso, distaccato, sconfitto. Mai nella giovane storia della Concordia v'era stata una simile disfatta, mai aveva perduto tanti amici, tanti compagni. Combatti.

Singhiozzò, serrando per sempre gli occhi di chi l'aveva accompagnata e amata senza eguali. Lasciare Hijack, ritrovare la forza e abbandonare il suo cadavere, fu più difficile di quanto Phienn avesse sperato. Sii libera.

Afferrò una spada abbandonata, maneggiandola con fin troppa familiarità e tornò a combattere, più furiosa e feroce che mai, uccidendo chiunque provasse a sfiorarla, difendendo chi del suo equipaggio ancora viveva, proteggendo il suo vascello da ciò che un tempo lei stessa era stata. Urla, grida, sospiri e gemiti, caos assoluto regnava su quel tratto di mare, eppure Phienn, nel casino più assordante, riconobbe la voce di Lys e si maledisse per essersi dimenticata della sua presenza a bordo. La individuò subito: si agitava imbizzarrita sulle spalle di un pirata, un sacco di juta calato sul viso e le mani legate dietro la schiena. La stavano portando via nel bel mezzo del combattimento, tra il fumo, il sangue e le spade. Phienn non lo avrebbe permesso.

Fleur gridava e scalciava, ma la presa dell'uomo era forte e la sua voce soffocata dal sacco che a malapena le permetteva di respirare. Si trovavano sul ponte, la sacerdotessa poteva percepirlo dal sottile suono delle onde, sovrastato dal trambusto generale, e dal venticello notturno che le solleticava le braccia scoperte e si infilava nelle pieghe dei larghi pantaloni. Si dimenava il più possibile, nella vana speranza che il pirata la lasciasse o che la presa venisse meno, tirando di volta in volta ginocchiate nel suo stomaco d'acciaio. Non ottenne nulla, se non lamenti scocciati e una pacca sul sedere che la rese più affranta e arrabbiata di quanto già non fosse. Aveva paura, eppure non si stava arrendendo a quella sua emozione, non permettendole ancora -come accaduto sottocoperta- di congelare le sue gambe e la sua volontà. Non le restava che reagire e tentare la fuga alla prima occasione, di sperare nell'improbabile.

E l'improbabile diventò realtà prima che Fleurdelys stessa potesse accorgersene.

Non seppe come, il sacco di juta non le permetteva di vedere né di capire cosa stesse accadendo intorno a lei, ma si ritrovò sul pavimento di legno, la caduta attenuata dal corpo del pirata al di sotto. Lo sentì mugugnare qualcosa, quindi gli tirò una testata, il nero che ancora appannava la sua vista.

«La ragazza, prendete la ragazza!» ordinò uno degli altri uomini con voce stridula.

Doveva liberarsi delle corde ai suoi polsi e del sacco sul viso, senza il quale di certo avrebbe avuto più possibilità di salvezza. Si ritrovò a urlare, un grido di esasperazione per la condizione in cui si trovava. Mai nella sua vita si era sentita tanto umiliata: ricercata come un criminale, trattata come un animale e legata come una bestia sacrificale. Era troppo, troppo persino per lei, che sentiva di aver tollerato già abbastanza da quando il suo viaggio verso le Terre Montagnose aveva avuto inizio. Era stata zitta, aveva subito, si era anche affezionata e sotto diversi aspetti era cresciuta, ma ciò non toglieva che lei fosse una principessa e non meritava, non aveva mai meritato, un simile trattamento. Era stufa di sopportare, stanca di ritrovarsi in situazioni snervanti e di aspettare di essere salvata come una donzella in difficoltà. Vuxta avrebbe risposto che lei era una donzella in difficoltà, ma a Fleur, in quel momento, non interessava. Poteva salvarsi anche da sola e lo avrebbe dimostrato.

Si ricordò improvvisamente del pugnale che il pirata teneva legato in vita, quindi, dopo averlo trovato, iniziò a grattare le corde contro la sua lama, ferendosi e digrignando i denti per il dolore. Ci mise troppo perché nessuno si accorgesse di quanto stava facendo, eppure in tutto quel lasso di tempo nessuno la fermò o la prese di nuovo con sé. Le corde si spezzarono e Lys esultò nel potersi finalmente liberare del sacco di juta. L'attimo di gioia non durò però a lungo.

Così come vide la Concordia immersa in una sanguinosa e violenta battaglia, un'ombra calò sul suo viso stanco. Afferrò il pugnale e si guardò intorno: gli uomini che l'avevano catturata sottocoperta giacevano morti ai suoi piedi e poco distante Phienn e Belvaduar combattevano l'una accanto all'altro, respingendo l'avanzata di altri pirati. La stavano difendendo, usando i propri corpi e le proprie spade come uno scudo, e Fleur non riuscì a non pensare a Ejel Sorgüt e Rossana Clarkish al fianco di Dionne fino alla fine. Era così che sua madre si sentiva ogni volta che qualcuno metteva in pericolo la sua vita per proteggerla? Era orribile, un peso fin troppo grande da sopportare.

Gridò i loro nomi.

Solo Phienn si girò, guadagnandosi una ferita sul viso e un calcio nelle costole per quel breve attimo di distrazione; Fleur urlò spaventata, ma Phienn sembrava stare bene, tanto che continuò a combattere, maneggiando la spada con una tale destrezza che un solo movimento di polso bastò per sgozzare il suo nemico. Corse nella direzione della sacerdotessa, afferrandola per un gomito e trascinandola senza alcuna parola in poppa. La spinse sulle scale, verso il timone, all'estremità più remota del vascello, la spada che come una serpe addentava e lesta uccideva.

Lys si trovava schiacciata contro la ringhiera, lontana dalla nave pirata e con il vento che soffiava contro, trasportando con sé gocce salate e pura salsedine. Stringeva forte il corrimano di legno, il fuoco appiccato alla vela e le fiamme che si riflettevano sul pallore del suo volto, disegnando lingue danzanti negli occhi lucidi di stanchezza. Phienn, controluce, aveva i tratti adombrati, più aguzzi e tesi che mai: sangue fresco le colava dal profondo taglio che spaccava violentemente un suo zigomo, sangue secco puntellava il resto del suo viso, stelle rosse in un cielo dorato.

Si guardarono intensamente, spossate, arrabbiate, ferite e grate. Poi Phienn fece qualcosa che Fleurdelys non avrebbe mai creduto potesse fare: la baciò. Un bacio veloce, leggero, un addio. Le loro labbra appena si toccarono, un saluto, un arrivederci, un augurio.

«Che gli dèi ti proteggano»

Lys non capì finché Phienn non la spinse oltre la ringhiera, in acqua. Stava urlando qualcosa riguardo le correnti quando un pirata la colse di sorpresa, attaccandola alle spalle. La spada le trapassò il petto, squarciando la camicia e l'ultimo suo respiro. Phienn tossì sangue e lo stesso arrivò sul volto di Fleur che nel mentre cadeva verso il mare, disperata e impotente. Allungò le braccia verso il suo capitano, i loro sguardi che si abbracciarono per l'ultima volta, consapevoli di una verità che non avrebbero mai accettato. La luce negli occhi cristallini di Phienn si spense per sempre.

Cadde, le onde la inghiottirono, non ci fu tempo per realizzare e soffrire.

Fleurdelys Skysee non sapeva nuotare.

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