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32- Solitudine

Belvaduar aveva ragione: una tempesta era in arrivo. Il sole mattutino che fino a poco prima splendeva alto nel cielo venne presto coperto da grandi nuvole nere, trasportate dal soffio violento del vento. In lontananza le onde iniziarono ad alzarsi, titani rabbiosi pronti a scagliarsi sulla superficie color petrolio, a divorare con le riarse fauci qualunque cosa si trovasse sul loro cammino. Correvano veloci nella loro direzione, si alzavano, si ritiravano, prendevano lo slancio; evitarle non era possibile. Il vento fischiava forte, le vele tremavano, la Concordia cercava di domare il selvaggio mare, che inferocito si infrangeva sulla prua non lasciandole alcuno scampo. Un'onda, un'altra, un'altra ancora: i marinai furono sommersi d'acqua salata ancor prima di rendersene conto, onda su onda, spruzzo dopo spruzzo, con l'aria così piena di salmastro che per il bruciore gli occhi si tinsero presto di rosso.

Phienn corse verso il cassero, il cuore colmo di eccitazione ma consapevole di quanto il mare potesse essere amico e nemico. Affiancò Hijack, che serio stringeva il timone con le sue forti mani cercando di non lasciarsi sopraffare dalla forza della burrasca. Si lanciarono una breve occhiata, con cui la donna gli affidò il comando della nave, poi iniziò a urlare gli ordini, entusiasta ma al contempo timorosa; uno sbaglio, un solo singolo sbaglio, e avrebbe portato tutti loro alla morte.

«Ammainare le vele! Rapidi!» gridò.

Un fulmine squarciò il cielo, la pioggia iniziò a cadere impetuosa, abbattendosi sul ponte con ferocia. Le onde diventarono ancor più grandi, schiantandosi e inghiottendo nave e ciurma.

«Non eviteremo la tempesta, muovetevi!»

I marinai si strussero per abbassare le pesanti vele, rallentati dall'acqua e dal vento, nemici contro cui si scontravano ad ogni piccolo passo. Quando una vela si incagliò, restando alzata per metà, Phienn vide l'albero spezzarsi: se non avesse retto, spaccandosi in due, le probabilità di uscire vivi dalla tormenta sarebbero state nulle. Lasciò la postazione, aggrappandosi a una rete e arrampicandosi sull'albero: un'onda si infranse brutale, la rete traballò, e Phienn quasi venne spazzata via. Si tenne stretta e, quando la soffocante morsa dell'acqua la liberò, continuò la sua scalata. Si legò una corda in vita per maggior sicurezza, poi raggiunse la vela, studiando con attenzione e rapidità la situazione. Dall'alto fissò brevemente i suoi uomini, concentrati nello spostarsi da una parte all'altra della Concordia, seppur sballottati, per continuare il proprio lavoro.

«È arrivata! Legatevi, razza di imbecilli, volete forse morire?!» urlò ancora una volta.

La ciurma scattò, afferrando corde e abbracciando gli alberi, resistendo alle onde con terrore celato. Non era la prima tempesta che affrontavano, ma si accorsero presto che fosse una delle più brutali.

Phienn tirò fuori dallo stivale il coltello e iniziò a tagliare la vela incagliata, conscia del fatto che, non potendo sfruttare totalmente il vento fino a Hypnos, da quel momento il vascello avrebbe navigato con minor velocità. Era un bel guaio considerando la situazione di James e la pericolosa tratta, ma non aveva altra scelta: il mare non si sarebbe placato presto. Il capitano recise la tela finché questa non cadde e, trasportata dal soffio di Makani, sparisse poi nelle oscure profondità. Sputò acqua quando l'ennesima onda la travolse, facendole perdere la presa dallo scivoloso legno. La corda fortunatamente resse, non lasciando che il suo corpo volasse via insieme all'ormai andata vela. Si ritrovò per qualche istante a penzolare con braccia e gambe nel vuoto, la vista appannata dall'insistente pioggia, i capelli appiccicati sul volto bagnato.

«Billy!» gridò «Raggiungi Lamtr!»

Passò qualche istante perché Belvaduar rispondesse.

«Qui c'è bisogno del mio aiuto, capitano!» urlò a sua volta.

«Ho detto che ti voglio sottocoperta, datti una mossa!»

Billy sospirò, ma alla fine eseguì l'ordine. Slegò la corda dalla sua vita, correndo verso il boccaporto. Quando l'ennesima onda si scagliò contro il fianco, la Concordia parve ribaltarsi e il ragazzo scivolò, rischiando di diventare una delle tante vittime della rabbia marina. Un compagno riuscì ad afferrarlo prima che il suo corpo superasse la ringhiera e venisse inghiottito dal nero della morte; lo tenne stretto al petto muscoloso e, di nuovo, un'onda si schiantò su di loro. Tossendo, lo ringraziò con una veloce pacca sulla spalla e riprese la corsa verso la porta serrata.

Una volta che si lasciò la burrasca alle spalle, strizzò i vestiti zuppi, scendendo nel mentre le scale scricchiolanti e raggiungendo con affanno il medico. Si sentì improvvisamente stanco e spossato, come se la tormenta si fosse nutrita della sua energia, risucchiando spirito e vitalità. Sperò che la situazione sottocoperta fosse più tranquilla, invece rumori poco rassicuranti provenivano dall'infermeria: oggetti che cadevano, vetri in frantumi, urla di dolore.

James si era svegliato.

La porta della stanza era aperta e sbatteva a ogni brusco dondolio della nave, sovrastando le fiacche voci del dottor Lamtr e della sua aiutante. Belvaduar pietrificò: James era steso sul lettino, delirante, e gridava disperato a ogni incisione del medico, stringendo con forza il pezzo di legno che teneva tra i denti; Lys cercava di tenerlo fermo invano, mentre gli sussurrava dolci parole per calmarlo. Billy rimase lì, fermo, sull'uscio a osservare, senza riuscire a muovere un solo muscolo. Fu Fleurdelys la prima ad accorgersi della sua presenza. I loro sguardi infatti si scontrarono, leggendo l'uno negli occhi dell'altro la stessa sofferenza. Non ci fu bisogno che la sacerdotessa parlasse perché il ragazzo capisse che avesse bisogno di aiuto; trovò la forza e si avvicinò, sostituendola. Vide sulle sue braccia bianche i segni violacei e sanguinanti che le unghie di James, impiantandosi nella sua carne, le avevano lasciato, ma non disse nulla, prendendo il suo posto in silenzio.

«Sono qui, James» sussurrò, afferrando le braccia dell'amico e tenendole ferme.

Lys non rimase con le mani in mano: recuperò dal pavimento un lenzuolo, preoccupandosi di legare le gambe sbizzarrite di James così da facilitare il lavoro a Lamtr, poi lo affiancò, aspettando che il medico le dicesse cosa fare. Quest'ultimo fece il nome di qualche strano medicinale e Billy la vide piegarsi subito per terra e cercare tra i cocci di vetro e le varie erbe ciò che serviva. Concentrò la sua attenzione su di lei, in parte per non dover guardare ancora una volta l'aperta ferita da cui sangue e pus traboccavano incessantemente, dall'altra perché, in quel momento, la sua figura riusciva stranamente a tranquillizzarlo: nonostante i suoi grandi occhi gridassero tutta la sua preoccupazione, le sue mani non tremavano, ferme e sicure nel lavoro che svolgevano. Quella sicurezza riempiva il cuore di Belvaduar di speranza. James doveva sopravvivere. Doveva.

Lo guardò: i biondi capelli sudati e appiccicati sulla fronte, gli occhi azzurri che si ribaltavano all'indietro per il dolore e la febbre. Vederlo in quelle condizioni gli riportava alla mente i grigi ricordi dell'orfanotrofio.

Billy era cresciuto senza un padre e una madre, ma con tanti fratelli e sorelle. Della sua vita non c'era molto da raccontare, di tutti quei bambini che aveva amato non era rimasto nessuno: bruciati, ecco come erano morti. Bruciati insieme all'orfanotrofio, la loro casa. Quando era piccolo, Belvaduar era inaspettatamente un ragazzino vivace; combinava guai, rideva, non rispettava le regole e spesso scappava per raggiungere il mare e portare conchiglie a tutti gli altri. Un giorno, tornando, non aveva trovato che un mucchio di cenere ad accoglierlo: le conchiglie gli erano cadute dalle mani e si era ritrovato ad abbracciare quella crudele polvere nera. Aveva solo dodici anni quando il suo sorriso si spense, lasciando posto all'espressione vacua e indecifrabile che tuttora si portava dietro.

Era diventato parte della Concordia grazie a James, dopo che lo aveva beccato a frugare tra le scorte di cibo, affamato e smilzo come una lisca di pesce. Erano passati appena tre anni da quel giorno, tre anni in cui si era creata una strana e inattesa amicizia. Veder dipinta sul viso di James tutta quella disperazione, gli ricordava il dolore provato davanti alle macerie e al nero, il dolore di aver perso la propria casa.

Ora era la Concordia la sua casa. Senza James, quella nave non sarebbe più stata la stessa. Billy aveva bisogno di lui. Non voleva perdere qualcun altro, non voleva perdere proprio James.

L'oscillazione del vascello lo fece tornare nel presente, distogliendolo dai suoi pensieri. Un pesante silenzio aleggiava nell'infermeria. Perché il dottor Lamtr non stava più operando? Perché Lys guardava James affranta, con lacrime silenziose sulle guance e le mani sporche di sangue? Cosa era successo?

«È morto» affermò il medico «Mi dispiace»

Il mondo gli cadde addosso.

Per la seconda volta, la solitudine gli parve l'unica casa che meritasse.

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Katarina, la fidanzata di Michael, quel mattino si era ricordata di un nome: Rossana Clarkish. Era lei la sarta del prezioso foulard e sempre lei era la donna tanto cercata e voluta da Vermund Crasteba. Anne Sorgüt non ci aveva impiegato molto a trovare la sua abitazione, l'insegna della sartoria che penzolava sopra la porta di legno e le clematidi dai toni rosati che si arrampicavano sui mattoni rossicci. Aveva studiato la casa a fondo, trovando poco dopo l'entrata sul retro, ben nascosta ma comunque collegata alla via principale. Si era rifugiata dietro l'angolo, il viso ben celato dal cappuccio del lungo mantello, in attesa di qualcosa che potesse tornarle utile.

Il vicolo su cui si affacciava la porta secondaria era buio nonostante fosse quasi mezzogiorno, protetto dalle ombre dagli edifici adiacenti che complici nascondevano nell'oscurità gli abitanti della casa. Era una posizione ottimale per la base di una spia: un'adeguata distanza dal castello, un negozio in cui le donne si recavano spesso, parlando e spettegolando, e due comode entrate, di cui una perfetta per evitare di entrare e uscire dall'ingresso principale e passare in tal modo inosservati.

Tutti elementi che fortificavano le convinzioni di Anne.

Avrebbe voluto dire di avere un piano o un'idea su come muoversi e comportarsi, ma la realtà era che Anne non aveva nient'altro che il suo intuito in quel momento: il suo istinto le diceva che la sarta fosse la chiave, il motivo per cui Vermund ancora non usciva ufficialmente allo scoperto. Non aveva prove a conferma della sua tesi, se non le vaghe parole di una ragazza tanto spossata dalla gravidanza quanto distrutta dall'abbandono del compagno. Tempo addietro avrebbe riso di se stessa, lei che mai prima avrebbe agito senza curare ogni minimo particolare, ora si ritrovava a osservare una porta serrata, aspettando un qualsiasi segno dagli dèi.

Proprio quando l'insicurezza si fece padrona del suo animo, la porta si aprì.

Se rimase sorpresa da quanto accadde davanti ai suoi occhi, Anne Sorgüt non lo diede a vedere. Il suo viso marmoreo rimase tale, impassibile davanti alla scena che avrebbe forse scombussolato qualsiasi altro: una decina di persone iniziarono a riversarsi nel vicolo, uscendo a intervalli di qualche minuto nella via principale. Presero tutti strade diverse, fingendosi sconosciuti, come se poco prima non si trovassero nella stessa abitazione a discutere di chissà cosa. Passarono tutti accanto alla moglie dell'ex generale, appiattita contro l'angolo della parete, eppure nessuno si accorse della sua presenza, troppo impegnati forse nel rendersi invisibili per far caso a qualcuno che invisibile già lo era. Anne aspettò, il cuore stranamente immobile quanto il suo corpo, dapprima consapevole di come il suo intuito di rado sbagliasse.

Si affacciò quindi di nuovo, la porta ancora aperta e sul ciglio l'ultimo degli uomini che avrebbe mai immaginato di trovare in quel luogo: Henry Guernset accarezzava il viso di una donna più vecchia di lui, con l'altra mano giocava con i ricci dei lunghi capelli castani, lo sguardo perso negli occhi da cerbiatta di lei. Doveva trattarsi di Rossana Clarkish, il suo aspetto coincideva con la dettagliata descrizione di Katarina, sebbene non dimostrasse i suoi quarant'anni. I due parlavano a bassa voce, vicini, troppo vicini perché si trattasse di una semplice conversazione. Henry l'attirò infatti a sé, baciandola con foga e la donna ricambiò ardentemente, alzandosi in punta di piedi e aggrappandosi al collo dell'uomo.

Per un attimo Anne temette che la passione potesse condurli all'interno della casa, strappandole di conseguenza l'opportunità di parlare con la sarta, invece gli dèi parvero ascoltarla perché Rossana si allontanò presto dal capitano, scuotendo la testa con un mezzo sorriso sul volto. Non lo aveva respinto, al contrario le sue labbra sembravano desiderarlo ancora e ancora. Si allontanarono e Anne si appiattì ancora una volta contro il muro, temendo che Henry potesse riconoscerla. Si sedette per terra, confondendosi con la moltitudine di mendicanti che, morenti per la fame, si riversavano nelle strade della cittadella ormai dall'inizio dell'estate. Il capitano, così come tutti gli altri, la superò, non accorgendosi di lei.

Si guardò intorno, assicurandosi che nessuno avesse notato né la sua figura né quanto appena accaduto: se fosse stata associata alla combriccola che, contro l'attuale legge, si riuniva in pieno giorno, allora sarebbe stata accusata di alto tradimento, morendo in piazza, impiccata o decapitata, davanti al popolo. L'unico che avrebbe giovato di quella situazione sarebbe stato Vermund Crasteba e, a quel punto, suo marito e suo figlio sarebbero stati persi, cadaveri nelle mani del Dio Luna, irraggiungibili; non li avrebbe più rivisti perché da loro divisa dalla crudeltà di un uomo il cui spirito solo conosceva odio. Non avrebbe dato quella soddisfazione all'usurpatore, giammai la sua morte sarebbe stata tanto disonorevole e distante dalle braccia del suo sangue, no, al contrario, lei sarebbe riuscita con ogni mezzo possibile a vivere, baciando ancora una volta Michael sulla fronte e vedendolo crescere il figlio in arrivo, diventando nonna al fianco di Ejel, l'uomo che amava nonostante lui donasse cuore e anima alla sua regina.

Chissà se si trovavano insieme ora, chissà se Dionne Skysee ricambiava quell'amore evidente e puro, quell'amore che lei sempre, con profonda gelosia, aveva desiderato.

Scacciò quel pensiero, inoltrandosi nel vicolo e imponendosi di concentrarsi sul suo obiettivo: salvare la propria famiglia. Aveva bisogno della sarta, ne aveva un bisogno disperato. Se l'avesse aiutata, se tutto fosse andato per il verso giusto, allora il suo incubo sarebbe finito, la sua solitudine schiacciata dalle risa, dal calore e dall'affetto della sua casa. Quella solitudine, quel morboso vuoto lentamente la stavano uccidendo: i pianti disperati di Katarina le riportavano alla mente le urla di dolore della madre, quella dannata casa silenziosa le ricordava la sua vita prima di sposarsi e di avere Michael. Rivoleva ciò che Vermund le aveva strappato, una famiglia non perfetta, forse infelice sotto certi aspetti, ma pur sempre la sua famiglia.

Bussò.

«L'entrata per il negozio è dall'altra parte» la informò Rossana, la porta aperta solo a metà.

Anne la guardò, potendola studiare ora da più vicino. Le sopracciglia non curate, i capelli arruffati e le unghie mangiate, come poteva una donna del genere essere tanto vicina a Dionne Skysee?

«Non mi interessa del vostro negozio» rispose schietta, arricciando le labbra.

La sarta la osservò senza alcun remore, sulla difensiva. Non disse niente, continuando a squadrarla in attesa.

«Ho delle informazioni che potrebbero interessarvi»

«Anche a me non interessa. Ora, gradirei che te ne andassi» fece per chiudere la porta, ma Anne riuscì a bloccarla infilando una gamba tra questa e lo stipite. Non avrebbe mai, per nessuna ragione al mondo, permesso lo sfumarsi della sua unica possibilità. La sarta doveva ascoltarla, ora e subito.

«Domani la regina verrà giustiziata» rivelò allora, afferrando la porta anche con le mani «e con lei probabilmente anche la mia famiglia»

«Chi sei tu?» domandò Rossana, arretrando.

«Anne Sorgüt, moglie di Ejel Sorgüt, madre del generale Michael Sorgüt» proferì, entrando nella piccola abitazione con irruenza e lasciando che la porta dietro di sé sbattesse. Rossana Clarkish deglutì, lo sguardo intimorito e un'espressione sorpresa sul volto.

«So di voi» continuò Anne «e so anche che non abbiamo tempo per discutere. Se vogliamo salvarli dobbiamo agire stanotte»

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