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28- Speranza

Alla vista dei cinque uomini appostati fuori dalla locanda, Phienn si fermò. Stavano appoggiati alla parete cadente, qualcuno fumando la propria pipa e qualcun altro palpeggiando il seno di una prostituta del posto; ridevano forte, incuranti che qualcuno potesse ascoltare l'oscena conversazione. Il cuore iniziò a batterle forte nel petto, consapevole della vicina conclusione dell'affare. Quando un boato di apprezzamenti poco eleganti nei confronti della donna rimbombò nella strada, Phienn gelò sul posto. Avrebbe davvero lasciato Lys nelle mani di quelle belve? La guardò: le labbra sigillate in una smorfia, le gote rosse e gocce brillanti come rugiada ancora incastrate tra le lunghe ciglia nere. James le stava accanto preoccupato, raccontandole aneddoti senza senso per distrarla dai suoi pensieri e magari strapparle una risata. Non ci riuscì. Gli occhi della ragazza, puntati sul terriccio, si rifiutavano di mostrarsi così deboli e fragili; l'orgoglio era lì, visibile sul pallido viso, ancorato sotto la finta superficie delle scure lenti a contatto.

Phienn spostò nuovamente lo sguardo sugli uomini. Bastava che uno di loro alzasse la testa perché venisse riconosciuta, perché prendessero la sacerdotessa e pagassero lei profumatamente. Si sentì in colpa. Le lacrime trattenute di Lys avevano piantato il seme del dubbio nel suo cuore, ricordandole il suo passato e facendo luce sul terribile sbaglio che era in procinto di commettere. Phienn si odiò perché non in grado di scegliere: far sopravvivere la Concordia, la sua nave, la sua ciurma, o aiutare una perfetta sconosciuta nel suo viaggio? Cuore e testa si trovavano in conflitto, una feroce guerra tra razionalità e altruismo aveva appena preso luogo, confondendo ulteriormente il suo animo già dapprima esitante.

«Diamine!» esclamò. Doveva decidere, non c'era più tempo.

Si accorsero presto della sua presenza.

James si piazzò nell'immediato davanti a Lys, impugnando il coltello nascosto sotto la camicia. La ragazza indietreggiò, silenziosa e spaventata, il viso più paonazzo di quanto già non fosse.

«Phienn?» chiese il marinaio, aspettando un ordine o una direttiva su come comportarsi.

Lei rimase in silenzio, gli occhi fissi sugli scagnozzi di Vermund Crasteba.

«Il padrone ti manda i suoi saluti e i più vivi ringraziamenti, Gazzaladra» disse uno di loro.

Phienn serrò la mascella. Venir chiamata con il soprannome datole ai tempi della schiavitù era un colpo basso, parte di lei che sforzava di cancellare, ma che tornava con prepotenza volta dopo volta, anno dopo anno, ricordandole come le ferite del passato fossero ancora aperte, come lo stesso fosse parte della sua pelle e della sua anima, del suo sangue e del suo essere. Non rispose.

«Lasciatela!» si oppose James, quando un uomo afferrò Lys per un braccio «Capitano! Cosa diamine sta succedendo?» ringhiò poi, cercando di ribellarsi.

Trovò il coraggio di guardare la sacerdotessa. Le lacrime le scendevano ora sul viso, l'espressione impaurita la supplicava con lo sguardo di aiutarla; cercò di liberarsi dalla viscida presa dell'uomo invano, urlando nel mentre verso James, a terra, tempestato di pugni e calci dagli altri. Phienn sentiva tutto molto ovattato, estraneo, lontano. Non riusciva né a muoversi né a reagire, come se il proprio corpo non le appartenesse più. Si sarebbe mai perdonata per aver venduto Fleurdelys Skysee, una giovane donna, a qualcuno che sapeva per certo essere crudele? Si sarebbe mai perdonata sapendo ci fosse in gioco qualcosa che andava ben oltre la sua comprensione? Non lo sapeva, non poteva saperlo. Guardò ora James, sanguinante, che si difendeva come poteva, sventolando il coltello a destra e a sinistra. Si sentiva persa nella sua mente, intrappolata, bloccata nelle sue scelte. Era questo che ormai era diventata?

Sentì il respiro farsi più leggero, il cuore rallentare il suo pulsare. Si sentì improvvisamente molto simile alle figure del suo passato, le stesse figure che più volte si era ritrovata a odiare. Era poi così diversa dai suoi genitori o dal suo primo padrone? Esitò. Lei non era come quei mostri che la vendettero per sole trenta monete, lei non era come Edgar Moreen, l'uomo che la comprò e sotto cui ordine altri la frustavano. Lei era come August, l'uomo che le aveva dato tutto senza conoscerla, l'uomo che le aveva fatto da padre, dandole amore e speranza. Lei era Phienn, la donna che aveva combattuto per la sua libertà. Era Phienn, il capitano della Concordia, la nave simbolo della lotta contro la schiavitù. Belvaduar, James, l'intero suo equipaggio era composto da uomini resi da lei liberi, pulcini condannati diventati aquile.

Cosa stava facendo allora? Si ritrovò a ridere di se stessa, della sua ipocrisia; la ragione, prima offuscata da avarizia e ingordigia, tornò a farsi largo nel suo cuore. La Concordia sarebbe sopravvissuta con o senza quelle dannate monete, la Concordia avrebbe cavalcato qualsiasi mare, sconfiggendo ogni oppressore, re, mercante, potente che fosse, come sempre aveva fatto. Quando i soldi erano diventati così importanti? Perché, come, era accaduto? Rise più forte.

Non si sarebbe piegata, non ancora. Non poteva farlo. I suoi sforzi derivavano dall'aiuto di terzi, da August, dalla sua ciurma, sola non sarebbe mai arrivata laddove ora si trovava. Sebbene Lys non fosse una di loro a tutti gli effetti, era ormai parte integrante del suo equipaggio. Tutti loro condividevano un amaro vissuto, tutti loro erano fuggiti da qualcosa, tutti loro erano perseguitati da demoni e tutti loro avevano avuto la possibilità di iniziare una nuova vita sulla Concordia: il passato doveva rimanere tale. Chi era lei, Phienn, per togliere l'opportunità di scegliere chi essere? Fleurdelys Skysee, o Lys Berghaus, meritava un'occasione, meritava -come lei- la possibilità di ricominciare, di scappare, di raggiungere la propria libertà. Non era un caso che le loro strade si fossero incrociate, non era un caso che gli dèi avessero portato la sacerdotessa delle Terre Volanti sulla sua nave. Doveva esserci un motivo, doveva.

Phienn si odiò ancora di più. Era stata avida, si era lasciata manipolare dal dio denaro, diventando una qualsiasi mercante di quelle terre. Ma poteva rimediare, sì, poteva ancora farlo, poteva ancora tendere la mano, sguainare la spada e, se necessario, uccidere.

Così fece.

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Henry Guernset percorreva in silenzio i corridoi delle prigioni, seguendo Vermund insieme al capitano Boeder Rosdafh. Si sentiva a disagio, arrabbiato, forse ferito per la posizione che occupava; affiancare due uomini così crudeli gli sembrava una punizione divina per il gesto altrettanto malvagio da lui compiuto. I visi dei suoi compagni uccisi, il loro sangue sulle sue mani, lo perseguitavano giorno e notte e non sembravano bastare agli dèi come eterno castigo. Vermund lo voleva vicino, voleva i suoi consigli. Forse aveva visto nel suo tradimento una prova abbastanza forte della sua lealtà, o forse, al contrario, voleva verificare con i suoi occhi quanto reale fosse stato il suo gesto. Era la prima volta infatti che permetteva a qualcuno di accompagnarlo; era chiaro che, prima di quel momento, reputasse vitale che lui solo vedesse e parlasse con Dionne Skysee.

I loro passi rimbombavano nelle mura della fredda fortezza, svuotata in tutti quegli anni dalla legittima reggente delle Terre Volanti. Spifferi d'aria entravano dalle numerose fessure, squittii di topi affamati si sentivano di tanto in tanto. Henry rabbrividì al pensiero che, quando era ancora solo un bambino, tutte quelle celle, ora deserte, fossero state abitate dai prigionieri di guerra della Battaglia dei Mille, soldati innocenti che avevano combattuto per il proprio regno dando la vita e la libertà. Guardò Crasteba, lo sguardo fisso nel vuoto e il perfido sorriso sulle labbra, pensando a come, dopo pochissimo tempo, avesse già riempito un posto così tetro. Il capitano fremette di rabbia e disgusto, convincendosi sempre più del terribile errore commesso, del disonore arrecato alla corona e dell'odio che provava verso l'usurpatore.

Arrivarono in un'ala delle prigioni più fredda delle altre, dove le correnti d'aria soffiavano voraci, facendo dimenticare il caldo afoso che stava invece all'esterno. Vermund fece segno ai due capitani di fermarsi e aprì la prima cella sulla sua destra. Henry si ritrovò a sbiancare alla vista dei Sorgüt in tali condizioni: padre e figlio incatenati, l'uno di fronte all'altro, sofferenti e disidratati. Gli occhi dell'ex generale incontrarono per un breve istante i suoi: una scintilla di delusione comparve nelle spente iridi, poi lo sguardo di Ejel si abbassò nuovamente, ferito dall'apparente tradimento. Le forze dell'uomo, ormai cinquantenne, stavano venendo sempre meno e questo Crasteba lo sapeva, lo sapeva perfettamente.

Vermund non riusciva a smettere di sorridere, divertito da quanto a breve sarebbe accaduto, eccitato alla sola idea di quanto avrebbe messo in pratica. Dionne non si era ancora piegata, ancora non si era arresa; lo leggeva sul suo viso furioso e orgoglioso, stanco, ma mai arrendevole. Con il suo piano l'avrebbe distrutta, calpestata, avrebbe finalmente reso il suo sporco cuore debole e fragile, pronto per essere finalmente fatto a pezzi. Mancava solo un tassello per completare il puzzle: la sarta, quella maledetta sarta che aveva aiutato Dionne più e più volte.

Vermund non riusciva ancora a credere che il suo precedente stratagemma fosse fallito. Alla fine, era così semplice da essere quasi imbarazzante: fare in modo che Rossana Clarkish ricevesse i panni sporchi di sangue, avvertisse in prima persona la regina del pericolo e poi ucciderla prima che questo effettivamente accadesse. Tutto ciò non era successo, eppure Dionne aveva comunque ricevuto un avvertimento, presentandosi fiera su quello che ora era il suo trono. Come le due avevano comunicato? Nonostante da tempo Vermund sapesse della doppia vita di Rossana, scoprirlo era diventato uno dei suoi nuovi obiettivi. Solo per questo era ancora viva, ancora in circolazione. Voleva incastrarla per bene, in maniera teatrale, così da regalare alla regina false speranze di salvezza.

Sorrise. Non si trattava che dell'ennesima sfida; avrebbe portato a termine la sua vendetta con ogni mezzo possibile, avrebbe ucciso chiunque avesse partecipato alla strage del matrimonio e avrebbe strappato ogni singola persona amata dalla vita della vecchia sacerdotessa. Mancava così poco perché questo si avverasse, mancava solo quella dannata sarta alla sua collezione. Strinse i pugni e rise, sotto gli sguardi confusi dei capitani che, con non poca fatica, scortavano di peso i prigionieri. Ci sarebbe riuscito, ne era convinto, ormai il fato era stato già scritto: avrebbe raggiunto la gloria eterna, passo dopo passo avrebbe scalato la montagna delle fatiche, arrivando sulla cima e abbracciando tutto il potere acquisito con tanta tenacia.

Persino gli dèi si sarebbero inchinati, riconoscendo la sua forza come loro pari o addirittura superiore. Vermund lo sapeva, lo sentiva, il sangue nelle sue vene non poteva mentire: così come Edgar aveva preannunciato, lui avrebbe regnato sul mondo intero, su ogni cosa, materiale o immateriale, su ogni individuo, decidendone la vita e la morte. Presto sarebbe diventato un dio.

Arrivarono alla cella di Dionne, dove la regina si trovava segregata e legata da ormai settimane. Henry rimase scioccato nel vedere la propria sovrana in quello stato di miseria e dolore: sulle guance e sulle braccia scoperte, alzate verso l'alto dalle catene, erano visibili scuri lividi dai pigmenti verdi e violacei; ferite e tagli si trovavano all'altezza dei polsi, dove il metallo sfregava brutale, lasciando memorie indelebili della prigionia sulla sua candida pelle. I capelli, un tempo rossi e lucenti, le scivolavano sulla fronte appiccicosi, lerci di sporcizia e di quello che pareva essere sangue, mentre il viso, pallido come non mai, era vuoto di ogni emozione. Alzò finalmente lo sguardo, il verde dei suoi occhi incontrò il ghiaccio di quelli di Crasteba, le labbra gonfie e secche si schiusero alla vista di Ejel Sorgüt e di suo figlio.

«Come osate...» biascicò, debole, verso il mercante.

Dionne Skysee era a stento riconoscibile: la bellezza conservata dal fiore dei suoi anni sembrava essere svanita, disegnando sul volto ogni ruga dei quarant'anni. Sotto ordine di Vermund, Henry incatenò Michael Sorgüt davanti al padre, che invece fu legato dal capitano Boeder alla parete adiacente a quella della regina. Non sapeva cosa il mercante delle Terre di Mezzo avesse in mente, ma un brivido di terrore gli risalì lungo la schiena. Rimase in silenzio, studiando la ridicola scenetta messa in piedi da Vermund: Michael fissava spaventato il padre, Ejel guardava affranto la sua amata, che a sua volta rivolgeva la sua attenzione unicamente al mercante. La situazione si fece presto più chiara; Henry capì il perché si trovasse in quel luogo, comprese le intenzioni di chi affiancava. Lo fissò, sempre più convinto della pazzia di Vermund Crasteba, soggiogato ormai dall'immenso potere che aveva tra le mani, corrotto dalla facoltà di agire secondo il suo unico desiderio. Fece un passo indietro, rifiutandosi di prendere parte a quell'orribile tortura, ma Vermund fu più veloce di lui.

«Capitano Guernset, a voi l'onore di iniziare» lo spinse in avanti, verso Michael, il generale con cui era cresciuto, il fratello che mai aveva avuto, lasciandogli tra le mani un lucido pugnale.

Un senso di oppressione iniziò ad appesantirgli l'animo, come se all'improvviso un enorme masso avesse iniziato a gravargli sulle spalle. Il capitano studiò la lama affilata, un chiaro avvertimento, una sfida a cui non poteva sottrarsi. La paura di morire si fece, ancora una volta, largo tra i suoi confusi sentimenti, aggrappandosi prepotente alla smania di sopravvivenza. Era la legge del più forte, la legge delle Terre di Mezzo, che Vermund applicava: vivere o morire, nessuna via di mezzo. Il più debole era destinato a soccombere al volere di terzi, il più debole era la marionetta nelle mani del più forte.

Strinse il pugnale e chiuse gli occhi, odiandosi, e scagliò il primo colpo. Le lacrime si liberarono prepotenti, scivolando lungo le gote, il collo, cadendo sulle mani macchiate di nuovo sangue. Henry Guernset era un debole e sempre lo sarebbe stato: la sua forza di volontà non era abbastanza solida, le sue ragioni non erano così importanti da rischiare la vita. Il suo terrore verso la morte sempre avrebbe prevalso, sovrastando ogni valore e ogni principio.

Ciononostante, mentre le urla di Michael e Ejel riecheggiavano nella cella, il capitano trovò un briciolo di coraggio, riuscendo a mettere da parte, per un brevissimo istante, la sua codardia.

«Sole rosso» sussurrò appena.

Dionne si girò piano nella sua direzione, gli occhi luminosi e il cuore ora colmo di nuova speranza. Rossana era riuscita a raggiungerla, come sempre, mai l'avrebbe abbandonata. Doveva solo sperare, sperare in una sua mossa, sperare nell'aiuto divino.

La speranza di Henry di non essere udito dalle persone sbagliate non fu però ascoltata dagli dèi. Il sorriso di Vermund si stese, vedere il sollievo sul volto della reggente era stata per lui una rivelazione. Guardò il capitano, scoppiando a ridere. Aveva trovato la pedina perfetta per incastrare la sarta, niente sarebbe ora andato storto. Rise ancora più forte, rivolgendo lo sguardo al soffitto, oltre a questo, alle nuvole, al sole, alle stelle.

Ti raggiungerò presto, pensò rivolto ad Araw, e ti strapperò tutto.

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