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20- Salto nel passato (III)

Il pranzo stava procedendo secondo i piani di Dionne, che sedeva compostamente accanto al marito e osservava sorridente i suoi invitati divertirsi, mangiare e ballare a ritmo di musica. Il nome sarebbe stato condiviso a momenti e in seguito sarebbe stato servito il dessert: un'enorme torta preparata dai migliori pasticceri della Capitale, seguita da una montagna di prelibatezze. Ejel Sorgüt studiava la situazione da lontano, assicurandosi che nessuno lasciasse la sala, e lo stesso faceva Rossana che, con il suo travestimento da servitrice, controllava i mercanti e il Consiglio con fare minuzioso. Tutti festeggiavano con leggerezza, ignari di quanto presto sarebbe accaduto, tutti tranne una persona, che invece si guardava intorno circospetta e lanciava lunghe occhiate a Dionne.

Edgar Moreen era certo che la moglie avesse escogitato qualcosa. La strana richiesta, la festa, nulla di tutto ciò riusciva a convincerlo. Dionne, d'altro canto, nascondeva a stento la propria agitazione. Era nervosa. Non solo perché finalmente si sarebbe liberata di coloro che usurpavano il suo potere, ma soprattutto perché temeva che qualcosa potesse andare storto. Guardò di sottecchi Edgar, al suo fianco: la fronte corrugata, le labbra serrate e quello snervante ticchettio che faceva con le dita non le lasciavano presagire nulla di buono. Sospettava, ne era certa, e se non avesse bevuto neanche un sorso di quel vino speciale, per lei sarebbe stata la fine. Quando tutti sarebbero collassati in terra, presi dagli spasmi, Edgar avrebbe visto, avrebbe reagito e sicuramente l'avrebbe uccisa.

«Non avete sete?» chiese senza riuscire a guardarlo negli occhi.

Edgar rise con velato sarcasmo. «E voi, amorevole moglie?»

Dionne rabbrividì. Sapeva, lui sapeva. «Sapete che non posso bere»

Il marito le si avvicinò, posandole una mano sul ventre. Dionne pietrificò.

«Mi domando se sia vero, se il figlio sia mio»

Il coltello impugnato da Edgar le accarezzò la pelle esposta delle braccia, la lama che scese poi sempre più in basso fino a raggiungere il punto su cui le sue dita erano posate. Il freddo metallo a contatto con la pancia, svegliò Dionne da quel torpore, la paura che si mescolò all'odio. 

«Non dovete annunciare il nome?» proferì, mascherando la voce strozzata in un sorriso.

Edgar si ricompose, un barlume di sanità mentale che si fece spazio nel ghiaccio dei suoi occhi. «Avete ragione» ricambiò il sorriso. «Sono certo che vi piacerà»

Si alzò in piedi, atteggiandosi come un vero re. Afferrò il calice di vetro e lo sollevò, attirando l'attenzione dei presenti. Dionne fece lo stesso, rimanendo seduta, le labbra serrate in una smorfia.

«Amici!» gridò Edgar «Sono felice di annunciarvi che il nome scelto per l'erede è Nienor!»

Dionne lo fissò scioccata, le dita tremanti di rabbia. Nienor veniva definito il recipiente del male, colui che secondo gli antichi miti delle Terre di Mezzo avrebbe un giorno distrutto il mondo intero. Era una storia crudele, forse troppo, perché secondo la leggenda Nienor sarebbe stato costretto a farlo, l'intenzione di liberare l'umanità da ogni suo peccato per poi diventare lui stesso devastazione. Infastidita per l'insulto a ciò che lei teneva in grembo, Dionne si alzò di scatto, la sedia che grattò sul pavimento. Lo sguardo di tutti si puntò sulla sua figura snella nonostante la gravidanza, l'abito che fasciava alla perfezione ogni sua curva. Si schiarì la voce, sovrastando quella del marito, e il sorriso non abbandonò le sue labbra nemmeno quando le unghie di Edgar le fecero sanguinare la pelle esposta del braccio.

«Mia figlia si chiamerà Fleurdelys, giglio. Esiste qualcosa di più puro di un fiore appena sbocciato?»

Il nome non era premeditato, le era venuto in mente così, per semplice ripicca nei confronti dell'uomo che ora la guardava serio e fuori di sé.

«Salute!» aggiunse.

Tutti bevvero, tutti tranne Edgar.

«Io e mia moglie ci ritireremo ora per ovvi motivi, che la festa continui» fece poi Edgar, scatenando le risate maliziose degli invitati e il terrore della sacerdotessa.

Le porse il braccio e Dionne si sentì costretta ad accettare l'invito per non peggiorare la sua posizione. Prima di lasciare la stanza, lanciò un'occhiata in direzione di Rossana ed Ejel, che da parti opposte del salone la fissavano preoccupati. Quindi uscì, il cuore che violento le palpitava nel petto e la gola secchissima. Era pronta, poteva difendersi, si ricordò. Doveva solo reprimere i propri sentimenti e agire, il coraggio che tuttavia vacillava ad ogni passo. Edgar la guidava nei lunghi corridoi del castello, trascinandola senza preoccuparsi di farle male o meno. La tirava per il braccio, la presa come sempre troppo ferrea e il rossore sulla pelle bianca che già lasciava intravedere il segno delle sue dita. Giunsero presto nella camera di lui, dove Edgar spinse Dionne per terra, l'ira che si riversava in ogni suo gesto. Dionne sbatté la testa sul pavimento e la vista si appannò, seguita da forti giramenti. Si rannicchiò su se stessa, il primo calcio che le colpì la schiena.

«Mi hai umiliato!»

Arrivò un altro colpo. Dionne annaspò, piangendo, e si portò le braccia intorno al ventre con fare protettivo. Mai gli avrebbe permesso di far del male alla vita che stava crescendo in lei, quella vita che le dava la forza di continuare a sopportare; quella stessa vita che le diede il coraggio, in quel momento, di ribellarsi alla pazzia del coniuge. Perché l'amore di una madre va oltre ogni limite, supera la logica e persino la moralità. E sebbene Fleurdelys non fosse ancora nata, Dionne avrebbe ucciso per lei, proteggendola con tutta se stessa.

Gattonò fino al mobile più vicino, dove afferrò il primo oggetto a portata di mano. Con un verso gutturale, lanciò il vaso di porcellana nella direzione di Edgar, senza però riuscire a colpirlo. Il consorte rise, poi l'afferrò di nuovo, alzandole la veste con prepotenza. Dionne scalciò, urlò, ma la presa del marito sul suo corpo era troppo forte. Successe ciò che succedeva ormai da un mese: lui che abusava di lei e lei che non riusciva a difendersi. Fu quando il primo verso di piacere uscì dalle labbra dell'uomo, che la presa iniziò ad allentarsi. In quell'istante, solo in quell'istante, Dionne riuscì a reagire. Tolse il fermacapelli dalla sua pettinatura, così appuntito da poter essere un'arma, e lo conficcò nel collo di Edgar. Occhi negli occhi, cuore su cuore. Edgar Moreen un momento prima era vivo, l'attimo dopo giaceva morto sul suo seno.

Successe tutto troppo in fretta: dalla giugulare spruzzi di sangue si riversarono all'esterno, macchiando il viso e gli abiti di Dionne, che scioccata, con la mano tremante ancora racchiusa sul fermacapelli, osservava le iridi dell'uomo spegnersi secondo dopo secondo. Fu una morte troppo rapida, quasi non meritata, che non lasciò alcun tipo di soddisfazione nel cuore peccatore della sacerdotessa. Anzi, ciò che credeva potesse darle una sorta di liberazione interiore, non causò altro che un rivoltante senso di disgusto per quello che aveva appena fatto, per ciò che era riuscita a fare. Si piegò in due, scossa da conati di vomito. Lei che si credeva incapace di uccidere con brutalità, aveva appena ammazzato senza alcuno scrupolo.

Edgar era morto. L'aveva ucciso. 

Dionne si alzò. Qualcosa in lei quel giorno cambiò drasticamente, trasformando la docile ragazzina in una donna spietata. Qualcosa si spaccò in due, perché l'omicidio che aveva commesso era un peso forse più grande delle sofferenze e degli abusi che si portava già dentro. Uscì dalla stanza, guidata dal silenzio della sua mente, rifugio da cui non sarebbe più uscita. Dionne camminò con lo sguardo puntato nel nulla, solo i suoi passi trascinati si sentivano in quell'ala deserta del castello. Il battere del suo cuore si affievolì, come appesantito dall'accaduto, come affaticato dal fardello che avrebbe custodito per sempre. Nessuno avrebbe dovuto sapere. Nessuno.

Non ragionò quando si diresse verso il salone, non ragionò quando spalancò le porte e gli invitati gridarono, vedendola insanguinata, vedendo la pazzia nel suo sguardo distaccato.

«Liberate pure le farfalle!» annunciò infatti in un modo a lei estraneo, quasi ridendo, sprofondando sempre più nel baratro, nell'abisso della forma più grave di negazione.

Li voleva semplicemente morti. Tutti. Tutti loro. Il veleno avrebbe agito più velocemente con lo scatenarsi di forti emozioni ed era questo l'obiettivo di Dionne, che altro non voleva se non chiudere al più presto tutta quella storia. Così avvenne.

Alla vista della donna rossa gli ospiti urlarono, confusi, spaventati. Il veleno giunse presto al cuore, bava bianca iniziò a uscire dalle loro bocche, salme biancastre si fecero i loro volti. Gli occhi si ribaltarono, bianchi. E così, quando i primi spasmi arrivarono e tutti caddero in terra, scossi, morenti, miriadi di farfalle librarono nell'aria, svolazzando in una danza caotica, confusa come la mente della sacerdotessa.

Dionne Skysee, Rossana Clarkish e Ejel Sorgüt furono testimoni di quella strage, testimoni e assassini, che muti avrebbero continuato a vivere il resto dei loro giorni, costruendo un regno più solido e leale.

Non furono, tuttavia, gli unici ad assistere. Il piccolo Vermund Moreen, spinto dalla musica e dalla curiosità, aveva lasciato la sua camera ancora una volta, partecipando passivamente all'ultima ora della festa. Nascosto da una porta, aveva veduto la regina entrare. La regina di sangue, la regina assassina. E quando tutti caddero in terra, Vermund, traumatizzato, diede ragione a Edgar, capì quelle dure parole che solo il giorno prima gli aveva rivolto. Le Skysee erano malvagie, l'incarnazione del male, e il suo compito sarebbe stato quello di strappar loro il cuore impuro, nero, dal petto.

Corse via, impaurito, tornando nelle sue stanze. Lì lo attese il corpo del padre che, con le braghe ancora abbassate, stava immobile in una crescente pozza scarlatta. Vermund si accucciò accanto, sporcandosi le piccole mani del peccato immortale. E mentre scoppiava a piangere disperato, il seme dell'odio sbocciò, radicandosi nelle profondità più recondite della sua anima, e il desiderio di vendetta crebbe a ogni lacrima versata.

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