Capitolo 3
«Grayson.»
Gli omini viola seminudi che mi fissavano arrabbiati finalmente si fermarono. Io stavo in piedi con il mio violino, in attesa della loro prossima mossa.
Il loro capo, alto non più di cinque centimetri, era più svestito che vestito, ma contrariamente ai suoi sudditi indossava un pesante mantello di broccato rosso, oltre al comune gonnellino grigio; sul capo portava una mini corona d'oro.
Scese dalla sua portantina, aprì la bocca e con mio enorme stupore mi chiamò, strillando il mio nome: «Grayson Sky!»
Dato che per proseguire i miei studi avevo bisogno di un po' di pace fuori dalla mia chiassosa galassia, mi ero temporaneamente trasferita su quello strano pianeta, ma non appena avevo iniziato a suonare il violino era successo il finimondo. Infatti, dei piccoli alieni viola erano sbucati da sottoterra, strepitando come se qualcuno li stesse scuoiando vivi.
Questi si erano ribellati aspramente al mio piccolo tour de force, arrivando addirittura ad urlarmi contro.
“Che ingrati”, pensavo tra me e me.
«Non avrete più un'occasione simile!» gli avevo quindi gridato, fiera, continuando a far scorrere l'archetto sulle corde con aria ispirata.
Ma gli omini avevano continuato a strepitare, furibondi e ignari della loro grande fortuna. Nessuno di loro però aveva mai articolato una parola: era come se non sapessero parlare la mia lingua.
Il re, invece, conosceva addirittura il mio nome. «Il signor Sky è presente oppure no?» chiese ai suoi sudditi, guardandoli uno ad uno. Aveva l'espressione di un serial killer.
Io finalmente smisi di suonare, e lo fissai. «Sono io!» gli urlai, stranita dal fatto che conoscesse il mio nome ma non sapesse chi fossi.
Il re si girò nella mia direzione, con gli occhietti socchiusi, e io sentii un improvviso dolore al braccio.
«Ahi» mugulai, improvvisamente cosciente. Al di sotto dello strato di torpore in cui ancora mi trovavo, riuscii a captare il suono di diverse risate che si facevano largo intorno a me.
«Mi hai fatto male» sussurrai a Robin, che mi era seduto accanto. Era stato lui a darmi la gomitata.
Fissava tutto serio un punto davanti a noi, e stranamente non mi rivolse neanche una parola di scuse.
Avevo uno strano presentimento.
Un tossicchiare convulso mi distrasse, confermando la mia ipotesi, e io mi girai di scatto verso la fonte del rumore, che si trovava esattamente di fronte al nostro banco.
Era un uomo di fattezze massicce ma non esagerate, alto probabilmente quasi un metro e novanta.
Era più alto che muscoloso, a dire il vero, ma sembrava il tipo di persona in grado di piegare un lottatore di wrestling sotto i cento chili con la sola forza di volontà. Sul naso portava degli occhiali sottili, di quelli senza montatura, che però riflettevano alla grande le luci delle fastidiosissime lampade al neon, impedendomi di distinguere il colore dei suoi occhi.
«Sei tu Sky?» mi chiese il nuovo professore, squadrandomi con un'occhiata minacciosa. «Ti facevo più... mascolina.»
La sua voce era piuttosto giovanile: sebbene i capelli spettinati e la barba incolta gli nascondessero molto il viso, non doveva avere che una trentina d'anni.
Sbuffai, parecchio irritata. Ogni anno era la stessa storia, tutti i professori nuovi che facevano l'appello mi scambiavano per un maschio. Del resto, il mio nome non era tra i più diffusi nel genere femminile, e il comodo felpone grigio che indossavo in quel momento non doveva aver aiutato.
«Purtroppo sono solo io» borbottai, cercando di ignorare le risate di derisione. Il gruppo di Petunia Pratchett, la smorfiosissima idol della scuola, non la smetteva più di ridere. Anche se probabilmente li aveva aizzati lei, Petunia non faceva nulla per fermarli: stava rimirandosi le unghie laccate di viola, e a tratti ci soffiava sopra delicatamente, sorridendo di tanto in tanto per incoraggiare gli altri.
La boccetta con il liquido scuro era ancora poggiata sul banco, vicino all'astuccio.
«Dio, che schifo» borbottai tra me e me senza pensarci. Poi sigillai di scatto le labbra, rivolgendo nuovamente tutte le attenzioni al mio interlocutore.
Per un istante le labbra del professore di cui continuavo a non ricordare il nome si piegarono in una smorfia, e io temetti il peggio. I professori tendevano sempre ad assecondare Petunia, qualsiasi cosa facesse, mettendo in primo piano i ricchi introiti che suo padre — e il padre di lui prima ancora — avevano versato ogni anno alla scuola.
E poi mi ero appisolata durante la sua ora, e anche se non era stata del tutto colpa mia potevo capire se mi avesse fatto una bella ramanzina, e lo avrei accettato. Ma lui mi rivolse un occhiolino e, con un sorrisetto complice che notammo solo io e Robin, mi disse: «Ce lo faremo bastare.» Poi, rapido con un lampo, tornò alla consueta espressione da serial killer, tant'è che pensai di essermi solo immaginata la scena di pochi istanti prima.
«L'ho sognato solo io?» bisbigliai a Robin, inclinandomi pericolosamente nella sua direzione con la sedia ma mantenendo lo sguardo fisso sull'insegnante.
Lui si limitò a scuotere la testa velocemente, sgranando gli occhi alla vista del professore che, girando tra i banchi, si era fermato davanti a quello di Petunia. «Signorina Pratchett, posi subito quella roba! Se le piace colorare, la prego di andare nel laboratorio di arte. La deliziosa professoressa Sullivan tiene l'aula sempre aperta per gli interessati.»
Petunia stranamente non proferì parola, limitandosi a diventare rossa fino alle orecchie, e si affrettò a scaraventare la boccetta di smalto all'interno dell'astuccio.
Nessuno prima di allora aveva mai osato rimproverarla, ma avevo come l'impressione che, più che per quel motivo, Petunia si fosse irrigidita dopo aver sentito il nome della professoressa d'arte.
I suoi compari, allibiti, presero a sussurrare tra di loro offese al nuovo arrivato, alternando abilmente gli insulti che gli rivolgevano alle sgridate che si beccavano i pochi che si arrischiavano a ridere.
«E voi altri, state zitti una buona volta!» abbaiò ancora una volta il professore, rivolgendosi a tutti quanti senza fare distinzioni.
La classe ammutolì, basita. Generalmente i miei compagni se ne infischiavano dei rimproveri o delle note degli insegnanti, perché i professori non erano sufficientemente rigorosi per poterli gestire adeguatamente.
Andiamo, la professoressa Clayton sbavava quando passava fuori dall'aula il custode scolastico di vent'anni più giovane!
Quindi, vista l'attuale situazione della classe, i professori preferivano adottare due tattiche: la prima consisteva nell'ignorare la confusione e continuare a svolgere regolarmente la lezione, che forse soltanto i muri riuscivano a seguire; la seconda era la raffinata tecnica del “mi faccio i cavoli miei tanto vengo pagato lo stesso”, sfruttata da tutti quello che ne approfittavano per messaggiare con il cellulare per poi assegnare i compiti completamente a caso.
Ma con il nuovo docente sarebbero stati dolori, ne ero praticamente certa. Un sorrisetto divertito mi nacque spontaneo tra le labbra.
«Il professor Wilson ti piace, vero?» mi sussurrò Robin, a cui la mia espressione evidentemente non era sfuggita.
«Sembra un tipo in gamba» gli risposi soltanto, continuando a tenere d'occhio il professore che stava dirigendosi verso la cattedra.
Il professor Wilson... ora che sapevo come si chiamava avrei fatto bene a tenere in mente il nome del mio nuovo docente preferito.
Il professore si sedette, continuando a guardare torvo tutti quanti. Riaprì il computer portatile, e riprese a fare l'appello.
Io ne approfittai per parlare un po' con Robin.
«Che mi sono persa?» gli sussurrai mestamente, abbastanza seccata dal fatto di aver completamente ignorato il discorso iniziale che il professor Wilson aveva sicuramente fatto.
«Niente di che, in realtà» mi rispose il mio compagno di banco, con un sorrisetto. Stava cercando di tenermi sulle spine, ora che sapeva del mio rinnovato interesse per qualcos'altro che non fosse la musica.
«Oh, andiamo. Stai cercando di farmela pagare a causa di quello che è successo ieri sera!»
«Touchè.»
«Sai che non era programmata una cosa del genere, vero? Ce l'hai con me per quello che è successo quando la band ha smesso di suonare.»
Robin cambiò discorso, ancora arrabbiato per ciò che era successo la scorsa notte. «Perché ti ostini a chiamarla band? Tu più di tutti sai qual è la differenza tra una band e il gruppo musicale che ha suonato ieri sera.»
Io sbuffai, scostandomi una ciocca di capelli color ruggine. Non voleva saperne di stare all'interno della coda laterale, che quella mattina ero stata costretta a fare per domare la mia chioma ribelle, reduce dalla nottata brava.
Tutti sapevano che odiavo legarmi i capelli, era più forte di me, mi dava fastidio. E sembrava che anche questi fossero d'accordo con la mia fissazione, dato che facevano di tutto per sfuggire all'elastico. «Non è una ghigliottina, state fermi!» brontolai, mentre cercavo di rifare la coda.
Robin alzò gli occhi al cielo e, fulmineo, mi fece voltare, iniziando poi a rifarmi l'acconciatura.
«Per l'amor del cielo, grazie Robbie» sospirai. Era nota la mia incapacità manuale per qualunque cosa non fosse uno strumento musicale.
«Prego» sibilò lui a denti stretti, ignorando le occhiatine maliziose e le risate derisorie che Steven Mackenzie e il suo compare Todd ci lanciavano.
Adoravo Robin anche perché se ne fregava di quello che pensavano gli altri. «Smettila di chiamarmi Robbie però, non sono una ragazza.»
Alzai gli occhi al cielo, ignorando il discorsetto sul suo nome, e rispondendo solo alla domanda riguardo il concerto della sera prima. «Li chiamo in quel modo perché band fa più figo, e il gruppo di ochette non sarebbe mai venuto se avessero saputo che si trattava di un concerto di musica classica. Averli chiamati band le ha sviate completamente» dissi, riferendomi al gruppetto di Petunia. Infatti nessuno della scuola avrebbe mai partecipato se loro non fossero venute al concerto.
La Mercy Orchestra, una delle più famose orchestre del Nord America, era davvero ineguagliabile in bravura musicale, e si distingueva per la bontà d'animo. L'orchestra era stata creata prevalentemente per accumulare fondi per la Mercy Ship, una nave ospedaliera che da anni si occupava di viaggiare ai confini dello Stato dell'Africa guarendo tutti coloro che erano impossibilitati a pagare le cure ospedaliere per sé o per i propri cari, offrendo loro supporto immediato.
Chiamandola band avevo fatto sì che le orecchie disinformate della popolazione giovanile di Charlestown, che non si era degnata di leggere il volantino, mi sentissero, e le lingue biforcute e pettegole che si ritrovavano avevano fatto il resto, facendo il passaparola sulla nuova e fantastica band.
In questo modo, anche se ero stata informata tardi del concerto e fino all'ultimo giorno non avevo avuto certezze sul suo svolgimento, ero riuscita a vendere tutti i biglietti, che erano andati letteralmente a ruba.
«Bella la pubblicità gratuita» sogghignai soltanto, e Robin, che alla mia precedente rivelazione sul modo di chiamare l'orchestra era rimasto di stucco, finalmente capì cosa mi passava per la testa.
Ad un certo punto, mentre mi sforzavo di seguire il prof. che continuava con il suo interminabile elenco, sentii il corpo di Robin scuotersi. Mi girai di scatto, preoccupandomi per niente.
«Solo la tua testolina poteva pensare a un piano del genere» ridacchiava lui, cercando di trattenere i singulti senza successo. Aveva le lacrime agli occhi, e cercava freneticamente di smettere di ridere. «Sei incredibile, una vera mente malvagia!» shignazzò poi, mentre le sue risate si calmavano piano piano e si asciugava una lacrima all'angolo dell'occhio.
Di tutta risposta, gli feci la linguaccia. «Sei cattivo» brontolai. «Spero che ti venga il singhiozzo.»
Robin sorrise con aria furba. Sapevamo entrambi che l'unica a cui veniva il singhiozzo quando rideva troppo ero io.
«Ora sta' un po' zitto. Smettila di disturbarmi che voglio seguire la lezione» tagliai corto, cercando di evitare che ripensasse alle innumerevoli figuracce che avevo fatto quando, in preda alle risate, mi era venuto il singhiozzo. Che incubo.
«Guarda che avevi iniziato tu a parlare» borbottò lui, specificando.
Io lo ignorai, ascoltando il professore che intanto era arrivato alla lettera P. Andava vagamente a rilento, come se stesse aspettando ansiosamente qualcosa che gli mancava per potere eseguire regolarmente la lezione.
Ma forse questa era soltanto una mia impressione.
Intanto dalla parte di Robin, che si era spalmato sul banco come la nutella sul panino, mi era sembrato di sentire un cupo borbottio. «Ora che c'è il professor Wilson il Perfettino io non conto più niente» brontolava scherzosamente, cercando di farsi sentire dalla sottoscritta.
«Pratchett!» chiamò intanto all'appello il professore.
Scossi la testa, fintamente disgustata. «Che cretino che sei diventato.»
Robin scoppiò a ridere di nuovo, con la faccia sepolta tra le braccia.
Intanto Sasha — una delle tre ragazze che costituivano quella che io chiamavo La Triade (il cui vertice era, ovviamente, Petunia) — rispose all'appello al posto di questa.
«Presente!» squittì, con la sua voce spacca timpani.
Il professor Wilson alzò la testa, guardandola con curiosità. Sembrava che stesse studiando una cavia da laboratorio.
Fece per aprire bocca, ma la lezione fu interrotta dall'aprirsi della porta.
«Professor Wilson!» strillò il minuto e francesissimo guardiano scolastico, Claude. «L'ho trovata!»
E poi sollevò un oggetto che, a giudicare dall'espressione che assunse il professore, doveva essere il Santo Graal ritrovato.
Si trattava di una sedia girevole, di quelle con le rotelle.
Sentii distintamente Robin che, vedendo la mia faccia, aveva iniziato a ridere ancora una volta.
Gli diedi una pedata. Stava sghignazzando troppo spesso di recente, per i miei gusti.
*Angolo autrice*
Vado di fretta, quindi ciao! XD
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, come sempre(?)
Adieu!
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