CAPITOLO VENTOTTO
«Sei deluso?» domandai a mio padre, mentre guardava perso la città dalla finestra.
Aveva il gomito poggiato su un braccio e con la mano si accarezzava lentamente il contorno delle labbra, era pensieroso ma non si esternò più di tanto.
«Sono amareggiato, arrabbiato e scioccato... ma non sono deluso...»
«Allora perché non mi guardi?» domandai facendo un passo verso di lui.
Ciò che più mi terrorizzava, che mi destabilizzava era vedere mio padre così per causa mia, affranto e deluso, perché lo era anche se non voleva ammetterlo.
Non mi rispose, udii solo il suo ennesimo sospiro così cercai di girarlo verso di me: «Papà...»
«Tu non capisci la gravità della situazione Chelsea, hai ventisei anni e ti sei giocata la vita e la cazzo di carriera!» sbraitò.
L'uomo calmo che conoscevo, sempre ottimista e pacato, aveva perso le staffe.
Nico era l'unica persona che più temevo al mondo, non ero mai riuscita a tenergli testa.
«Ma forse... forse è stata colpa mia si, tutte le volte che ti ho lasciata sola con tua madre, che non ti ha mai pensata e non ti ha mai indirizzata... avrei dovuto portarti con me sin dall'inizio!»
«Papà non è stata colpa tua...»
«Sarei dovuto essere più presente!» esclamò lui e tirando su col naso, scoppiò in un pianto silenzioso. Lo avevo distrutto, non lo avevo mai visto così.
«Papà...» dissi nuovamente, allungando una mano verso di lui ma il suo gesto azzardato, il suo spostarsi mi fece celare il cuore tanto da farmi schiudere le labbra sorpresa.
«Non so per quanto tempo dovrai restare in prigione, ma appena sconterai la tua pena verrai dritta in America con me, dimenticati della Scozia, di Londra... dimenticati l'Inghilterra!»
«Non è stato ancora deciso se finirò in prigione...»
«Io spero tu ci finisca invece!» esclamò severamente con i suoi occhi puntati su di me, sembravano sputare fuoco.
Abbassai lo sguardo, non riuscivo più a sostenere il suo, era troppo per me.
«La mamma lo sa?» domandai tra le labbra.
«Per tua madre sei morta sin dal giorno in cui sei nata, non vuole sapere nulla di questa storia...»
Dopo quella frase, sentii la mia anima frantumarsi in mille pezzi, presi un gran respiro prima di decidere di uscire da quella stanza.
Eravamo al comune di Totthenam, dove si sarebbe tenuto il processo di Noah e Vicky, due piccioni con una fava.
Mi ero rintanata per avere una conversazione riservata con mio padre, quel poco di speranza che mi era rimasta la puntavo sulla difesa da parte sua, ma sembrava essere più pro alla legge che a sua figlia in quel momento. Come biasimarlo.
Il processo era già cominciato da qualche ore, verso le nove del mattino più o meno, partendo da Vicky e finire con Noah.
«Nonostante tutto... rimarrai la mia piccola Chelsea e ti vorrò sempre bene, ma un genitore a volte deve far capire al proprio figlio quando si sbaglia... un giorno lo capirai anche tu...» furono le sue ultime parole, prima di darmi una veloce occhiata e rigirarsi a guardare poi Londra, una città grigia e piovosa quel giorno... proprio come il mio stato d'animo!
Non osai dire altro, mi aveva rimosso tutte le parole di bocca così uscii, incontrando Jay che mi stava aspettando.
Non mi fermai neanche, a testa bassa gli camminai affianco per raggiungere l'aula del processo.
Quando ci misi piede dentro, attirai l'attenzione di varie persone che guardandomi, sparlavano di qualcosa sottovoce.
Ciò che era accaduto si era sparso in poco tempo e io volevo scomparire.
Jay poggiò una mano sulla mia schiena per incitarmi a farmi sedere e così feci, rimanendo a testa bassa per tutto il tempo.
«Silenzio!» esclamò il giudice picchiettando il martello sul tavolo.
Un uomo vecchio e antipatico, non aveva pietà per nessuno, con la sua tunica nera e gli occhiali chini fin sopra la punta del naso, guardava tutto senza farsi scappare nulla.
Era bravo nel suo lavoro, ma se non lo conoscessi mi verrebbe da dire che è un uomo spietato.
Noah era seduto davanti a lui, con le manette ai polsi e affiancato da un avvocato, poco gli serviva perché la sua sorte era ben che decisa.
«La prego, continui!» esclamò il giudice, facendo così continuare il discorso dell'avvocato di Vicky.
Anche lei era lì, ma seduta dall'altra parte.
Alzai piano gli occhi per osservare la scena, mi feci piccola sulla sedia e mi coprii il viso con la maglia o almeno, ci provai.
L'avvocato di Vicky, una donna magra e bionda nel suo tubino nero, continuava ad andare avanti e indietro, cercando in tutti modi di raggirare il giudice, ma non ci riuscì che ricevette più strilli da parte sua che consensi.
Notai che in prima fila c'erano alcuni dei genitori delle vittime, ma rabbrividii non appena intravidi la chioma rossa della Signora Mariè, la madre di Steph.
«Cazzo...» sussurrai tra le labbra, facendo scivolare ancora di più il mio corpo giù dalla sedia, quasi nascondendomi.
Poi voltai il mio sguardo su Jay, che era intento ad ascoltare qualcuno sussurrargli qualcosa all'orecchio.
Il suo sguardo cambiò, sbiancò e socchiuse le labbra per poi lanciarmi una veloce occhiata.
Si alzò senza dirmi nulla e lasciò l'aula, rimanendo così da sola in un mare pieno di squali.
«Come si dichiara, Signor Robinson?» sentii domandare dal giudice, mentre i suoi occhi non si staccarono neanche per un secondo dal ragazzo.
«Colpevole!» esclamò Noah in un sussurro.
«Non l'ho sentita, può parlare più forte?»
«Colpevole!» ripetè Noah, stavolta con tono acuto.
«Ti condanno a trent'anni di carcere, senza cauzione e senza buona condotta, pagherai ogni minimo secondo per ciò che hai commesso!» esclamò il giudice senza esitare, prima di colpire nuovamente il martello.
Nella sala si alzarono dei bisbigli, chi contento, chi arrabbiato e chi invece piangeva, sopratutto i famigliari delle vittime che, alcuni di loro, si alzarono dando dell'assassino a Noah mentre veniva portato via.
Mi si spezzò il cuore nell'intravedere nuovamente il viso di Mariè che teneva lo sguardo basso, non sbatteva ciglio, era disconnessa dalla realtà.
Delle urla però, provenire dall'esterno, fecero girare tutti i presenti verso la porta.
«Che diamine succede ora!?» si domandò il giudice con voce rauca, alzando le sopracciglia.
Senza pensarci su, mi alzai per recarmi il più veloce possibile fuori da quella stanza, l'aria per me era diventata troppo pesante e volevo capire cosa stesse succedendo.
Sbandai non appena scontrai i miei occhi con quelli di John, direttore della NCA.
Mi maledissi mentalmente per essere uscita e deglutii, morendo dentro sotto il suo sguardo tagliente.
«È inaccettabile una cosa del genere... un agente di polizia, una detective inglese importante che nasconde un passato simile...» disse John alzando la voce, per poi riportare lo sguardo su Jay. «E tu... tu lo sapevi!»
«Io non sapevo nulla John...» urlò a sua volta Jay, notando delle vene trasalire sul suo collo, era nervoso e potevo notarlo anche dal suo viso rosso.
«Avete fatto un lavoro di merda... tutti quanti, sin dall'inizio questo caso doveva essere assegnato alla NCA...»
«Mi dispiace interromperla signore, ma non mi sembra che i suoi abbiano fatto un buon lavoro da quando sono subentrati!» perché non imparo mai a stare zitta?
«Chelsea...» disse Jay, accorgendosi solo allora della mia presenza.
«Tu dovresti essere l'ultima persona su questa terra a parlare signorina... non immagini in che fardello ci hai cacciati!» disse duramente John, puntandomi un dito contro.
«Mi assumo la piena responsabilità di ciò che ho fatto o detto, ma Jay non ha niente a che vedere con tutto questo!» esclamai, facendo un coraggioso passo verso di lui.
«Eppure, mi è stato riportato che a quei tempi voi due vi frequentavate e volete farmi credere che una coppia non sa i segreti dell'altro?» rise alla sua domanda ma io lo trovai solamente stupido.
«Cosa?» domandammo all'unisono io e Jay.
«Ma di cosa sta parlando, Signore?» continuò Jay confuso.
«Chi glielo ha detto?» domandai.
«Christopher Woolley!»
«Bastardo!» sussurrò Jay.
Io rimasi semplicemente a bocca aperta, non sapevo che altro dire mentre continuavo a scuotere la testa... Perché mai Chris avrebbe dovuto dire una cosa del genere?
Mi sentivo come se le mie orecchie fossero otturate, iniziai a sentire tutto ovattato e ciò che mi circondava sembrava andare a rallentatore.
Non avevo sentito, ne visto Chris nelle ultime ore, mi aveva chiesto del tempo per pensare e restare da solo e io lo avevo rispettato, ma sembrava avesse altri piani invece che pensare a cosa ne sarebbe stato di noi.
All'improvviso, dietro ai miei occhi lucidi, notai un collega di John estrarre delle manette dal fianco ed avvicinarsi successivamente a me.
Mi risvegliai di colpo dalla mia confusione e feci un passo indietro.
«No, mi era stato dato del tempo prima di essere arrestata...» farneticai nel panico.
«Jay ti ha dato del tempo per pietà, ma io non ne ho nessuna nei tuoi confronti!» esclamò John.
Spintonai l'agente che mi si era avvicinato ma, spostandomi il viso in modo brusco, afferrò le mie braccia mettendomi immediatamente le manette ai polsi.
Paul, potevo leggere dal suo targhettino, mi tenne stretta a se mentre continuavo a dimenarmi da quella sensazione di merda che stavo provando.
Non avrei mai immaginato, mai nella mia vita che sarei passata da questa parte, ad indossare delle manette fredde e scomode che stringevano involontariamente le mie ossa.
«JAY...» urlai invano, sperando che lui potesse fare o dire qualcosa, ma sotto al suo triste sguardo, Paul mi allontanò da loro mentre il mio collega e amico restava in silenzio.
«PAPÀ, PAPÀ TI PREGO...» urlai successivamente, notando mio padre in un angolo del corridoio, che era rimasto per tutto quel tempo a vedere la scena tra il silenzio e le lacrime.
Non appena notò che il mio sguardo si posò su di lui, si voltò dandomi le spalle, facendo quasi finta di niente.
Ma io potevo vedere, nella mia disperazione, quanto avevo distrutto mio padre, immerso tra il suo pianto e i suoi singhiozzi. Notai i suoi muscoli contrarsi quando si coprì il viso.
Fu l'ultima persona che vidi in quel momento, prima che Paul mi tirò finalmente fuori dal comune.
«Sta ferma!» esclamò il ragazzo moro in divisa, mentre continuava a strattonarmi verso la camionetta delle forze speciali.
Come potevi aspettarmi, al di fuori c'erano una centinaia di fotografi e giornalisti, gli obbiettivi erano tutti puntati su di me e io, a testa bassa, non potevo fare nient'altro che camminare dritto ormai.
Feci in modo che i miei capelli mi cadessero in viso, così da coprirlo ma fortunatamente, qualche secondo dopo mi ritrovai spinta nel retro della camionetta e infine, le sue porte mi vennero sbattute in faccia.
Alzai lentamente la testa guardandomi intorno in quello spazio piccolo e con poca luce.
Che cazzo avevo combinato?
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