CAPITOLO VENTINOVE
Passò una settimana da quel terribile giorno che segnò per sempre la mia vita.
Non avevo chiuso occhio per ben sette giorni e sei notti, ero stanca e infreddolita.
L'umidità della cella che mi ospitava, era entrata a far parte del mio corpo, impossessandosi delle mie stesse ossa.
Il letto scomodo, dove avevo passato gli ultimi giorni rannicchiata su me stessa, era più che lurido.
Ad ogni mio movimento, era uno scricchiolio che riecheggiava tra quelle pareti fredde.
La cella era poco illuminata, piccola e sporca.
Nessuno era venuto a ritirare i vassoi dei miei pasti, alcuni erano ancora pieni di cibo, ormai andato a male.
Il mio stomaco si era chiuso, si rifiutava di mangiare e se ci provavo, morendo effettivamente di fame, ecco che i conati di vomito si presentavano al primo boccone, impedendomi di ingoiare quel poco che mi offrivano.
Non essendoci ventilazione, la puzza dei miei bisogni si era estesa in quella stanza, lo scarico funzionava a mala pena.
Tirai le gambe al petto e le avvolsi con le braccia, mentre ero seduta sul materasso.
Per una settimana non ebbi nessun contatto con il mondo esterno, nessuno si era presentato alla porta, ne Jay, ne Chris, ne mio padre.
Speravo tanto che nessuno potesse farmi visita, invece di pensare che nessuno volesse vedermi.
Mi annusai, per capire se l'odore della mia pipì si fosse appiccicato sui miei vestiti, ma quella puzza lì dentro era così forte, che mi era impossibile capire effettivamente se puzzassi. Ma di sicuro avevo bisogno di una doccia.
Era brutto rimanere per minuti, ore e giorni senza sapere cosa mi stesse accadendo davvero, cosa il futuro mi stesse riservando.
Ma la risposta non tardò ad arrivare, quando la porta della cella si aprì di colpo facendomi sussultare.
Eccola lì, la paura ribussò alla mia porta dopo che per giorni non avevo provato nessuna delle emozioni esistenti, disconnessa dalla realtà.
«Signorina si alzi, è ora di andare!» una donna muscolosa, in divisa e sull'attenti, mi guardava e aspettava sul ciglio una mia mossa.
Sembrò essere impaziente, vedendo il suo piede destro picchiettare continuamente il pavimento sudicio.
Non l'avevo mai vista prima d'ora ma, a pensarci bene, non sapevo neanche dove io fossi.
Dal mio arresto a questo posto, il tratto fu così lungo che mi sembrò di capire che avevamo lasciato Londra.
«Signorina Pearson non c'è tempo da perdere!» quasi urlò la donna, mentre colpì il ferro della cella con un manganello.
Sussultai nuovamente e mi alzai, dolorante grazie alla posizione in cui ero rimasta nelle precedenti ore.
Era così che i prigionieri si sentivano quando io li urlavo addosso? O li guardavo come quella donna stava guardando me in quel momento? Spaventati e inutili, impotenti e indifesi.
«Il giorno che tanto hai atteso è arrivato!» esclamò la donna e mi incitò nel seguirla poi, dopo aver messo le manette ai miei polsi.
Non mi sarei mai abituata a questa sensazione nuova, fredda e dolorosa.
In poco tempo, con me a testa bassa, arrivammo in una sala, piccola e con poche persone al suo interno.
Non mi soffermai neanche sulle loro facce, l'agente mi fece sedere, prima ancora di capire cosa stesse accadendo.
Presi un gran respiro ed alzai lo sguardo sull'uomo di fronte a me, baffi bianchi e pelle rugosa, avrà avuto sessant'anni circa.
«Signorina Pearson...» e iniziò a parlare mentre per me, la sua voce, era ovattata e svaniva pian piano in uno assoluto silenzio.
Vedevo le sue labbra muoversi ma non udii parole, solo un fischio leggero nella mia testa.
«Per aver tenuto nascosto due omicidi volontari, aver nascosto prove ed esser stata in silenzio per tutti questi anni...»
Il mio processo si tenne a porte chiuse, fu così veloce che neanche mi accorsi di esser di nuovo in piedi, mantenuta dalla stessa donna di prima.
Non capii la procedura di quella condanna, ne come fu organizzata, sembrava essere diversa... ma poi capii tutto, non appena intravidi il viso di mio padre, affiancato da James.
Nico teneva lo sguardo basso, quasi avesse paura di incrociare i miei occhi mentre James, lui li teneva ben fissi su di me, dispiaciuto ma a tratti arrabbiato.
«La dichiaro a tre anni di carcere, senza cauzione!» affermò l'uomo baffuto firmando infine una carta.
A quelle parole, non riuscii a trattenere le lacrime che iniziarono a scorrere senza sosta sul mio viso.
Non potevo credere che stesse succedendo davvero, ciò che più avevo temuto.
«Forza, andiamo!» esclamò la donna, tirandomi verso l'uscita ma io mi puntai con i piedi a terra, costringendo la donna a strattonarmi.
Prima che potessi essere all'esterno di quella stanza, vidi Chris in un angolo con le mani in tasca, mi seguiva con lo sguardo ed in silenzio, senza mostrare alcuna emozione, lasciava che tutti i nostri piani si frantumassero con il mio futuro.
E poi c'era Jay, i suoi occhi erano pieni di lacrime e il suo labbro inferiore intrappolato tra i suoi denti, si tratteneva nel piangere distogliendo finalmente il suo sguardo, non sopportava l'idea di vedermi in determinate condizioni. Ma non poteva fare nulla, aveva le mani legate quanto le mie.
L'udienza fu davvero un lampo, terminò prima ancora che potessi realizzare ed ero lì, ormai, nel retro di una macchina della polizia, pronta a mettersi in viaggio verso un carcere femminile nel nord dell'inghilterra.
Lo stesso, dove avevano trasferito Vicky qualche giorno prima.
Non mi fermai neanche a salutare i miei cari, ma ovviamente, erano loro che non volevano fermarsi a salutare, di solito, non spettava all'imputato decidere.
Così, ebbi la conferma che mio padre e James mi odiavano, Jay semplicemente non poteva e Chris... probabilmente non voleva avere più niente a che fare con me!
***
Una tuta grigia poco mi donava, ma erano le uniche vesti che potevo usare nella prigione Inglese.
Non mi abituerò mai a questo nuovo posto, così logoro e chiassoso.
Prima di entrare nella mia nuova casa, avrei dovuto fare dei test, del sangue e dell'urina principalmente.
«Apri la bocca e caccia la lingua!» disse un dottore, mentre infilava nella mia bocca un bastoncino di legno, quasi mi venne da vomitare.
«È a posto per oggi, nei prossimi giorni riceveremo gli esami ma credo non ci saranno problemi, a meno che tu non nasconda altro, credo tu sia pulita!» affermò il dottore Ferdinis, potevo leggere il nome dalla targhetta del camice.
Mi rialzai dalla sdraio tossendo, infastidita dalle sue parole ma scrollai le spalle, era solo l'inizio.
«È cambiata così in fretta la tua vita!» disse, gettando dei guanti di lattice in un piccolo bidone dell'immondizia.
«Così veloce che ancora devo capire cosa è successo...» dissi sottovoce.
«Lo capirai presto, questo posto ti schiarirà le idee, puoi andare!» stavolta mi volgeva un sorriso, così lo ricambiai, sembrava esser gentile.
Lasciai la sala medica accompagnata da un agente, nel lungo corridoio della prigione, c'era un silenzio tombale quasi come se non ci fosse nessuno in quel momento.
«Cella numero nove, andiamo, è di qua!» l'agente aprì vari cancelli con un'enorme chiave di ferro.
Io seguii l'uomo in silenzio e a testa bassa, sentivo mille brividi percorrermi il corpo ad ogni passo che facevo e il respiro farsi sempre più corto.
Come ero arrivata a tanto?
«Tuo padre deve essere molto deluso dalle tue azioni...» disse con voce profonda l'uomo.
«Non è l'unico ad esserlo...>
«Vedrai che se riuscirai a comportarti bene e a non farti nemici, questi anni passeranno e non te ne accorgerai neanche!»
«Stai cercando di consolarmi? Perché non è una buona idea in questo momento...» sputai quasi acido, non mi andava di parlare ne tanto meno di ascoltare persone, l'unica cosa che volevo fare era chiudermi nella mia stanza e uscire solo quando necessario.
Avevo paura, mi stava divorando viva e facevo ormai fatica a nasconderlo.
Le mani tremavano e la sudorazione si era fatta più che accelerata, come il mio battito che sembrava quasi scoppiarmi il cuore in petto.
Uno "sbirro" in prigione non portava mai a nulla di buono, meno si spargeva la voce su chi veramente io fossi e più sarei andata avanti senza farmi male.
L'agente mi aprì una piccola porta di ferro, affiancate da altre dello stesso colore, e mi incitò ad entrare.
Così feci ma, non appena la porta si richiuse alle mie spalle, sbarrai gli occhi alla vista di Vicky ad un tavolino.
Ci fu un lungo periodo di silenzio tra me e lei, io avanzai verso il mio letto strusciando i piedi per terra, senza rivolgerle nuovamente uno sguardo.
Mi accomodai sul materasso e mi tirai le gambe al petto, ritornai nella stessa posizione dei giorni precedenti, anche se le ginocchia erano più che doloranti.
«Non pensavo saresti arrivata così presto!» esclamò Vicky, voltandosi con il capo verso di me.
«Qualcuno ha voluto che fossi dentro il prima possibile...»
«Tuo padre?»
«Ha importanza?» domandai a mia volta, stavolta alzando lo sguardo con occhi lucidi, gonfi e rossi, pronta a crollare nuovamente.
«Non comportarti da stronza, non ti conviene qui dentro, credimi!» esclamò lei.
«Io... io non sto facendo la stronza... è solo che... non posso crederci...» dissi con voce spezzata mentre portai le mani sul viso. «Sembra surreale!»
«C'era da aspettarselo...»
La prima notte in quella cella gelida e piccola, con mura ricoperte di pittura sgretolata e con una piccola finestra sbarrata, fu infernale.
Non facevo altro che rigirarmi nel letto, scomodo e rotto, con coperte che coprivano solo metà corpo, lasciando i miei piedi al freddo e al gelo.
Potevo giurare che c'era qualcosa che mi pizzicava ovunque, continuavo a grattarmi senza riuscir a chiudere occhio.
E se a volte ci provavo, sobbalzavo dallo spavento per qualche porta che sbatteva o per qualche urlo forzato.
Non feci altro che piangere, nel buio più totale mentre Vicky continuava a ripetermi di smetterla, che mi stavo comportando da bambina e che avrei dovuto cambiare atteggiamento.
Le sue parole non erano di conforto, acceleravano la mia ansia nell'affrontare il giorno dopo.
Avevo saltato la cena, ci avevano dato del tonno in scatola, dei funghi crudi e del pane, talmente duro che se lo lanciavi al muro, avrebbe creato un foro.
Per la milionesima volta mi feci la stessa domanda, per la milionesima volta mi chiesi come fosse stato possibile arrivare a ciò.
Se solo avessi parlato, non sarei arrivata a tanto.
Così mi addormentai, nei miei pensieri più profondi e tra le mie lacrime infinite, a chiedermi che cosa ne fosse stato realmente di me.
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