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CAPITOLO OTTO

Di tanto in tanto, seduta su una sedia, picchiettavo leggermente il retro della testa contro il muro freddo dell'ospedale.
Le braccia le avevo conserte al petto mentre avevo gli occhi chiusi cercando però di non addormentarmi, erano le due di notte e le mie energie erano ormai esaurite.
Mio padre faceva avanti e indietro nel corridoio mentre si massaggiava il mento ruvido, ricoperto da barba grigia.

Poche ore prima James lo aveva chiamato per avvertire che era successo qualcosa a Sarah, ma dopo tre ore non sapevamo effettivamente cosa era realmente accaduto.
Gli occhi continuavano a chiudersi da soli mentre il capo si abbassava involontariamente.
«Chels, vuoi del caffè?» domandò mio padre guardandomi.

Feci lo stesso annuendo ma ci andai io, camminare mi avrebbe fatto bene.
Raggiunsi le macchinette automatiche al piano terra e, una volta arrivata, ordinai un caffè lungo.
Mentre aspettavo, mi strofinai gli occhi ed allargai le labbra in uno sbadiglio.
Presi il bicchierino pieno di liquido caldo e ne bevvi un sorso, il caffè più acido che io abbia mai bevuto.

«Dovrebbero abolirle ste cose...» dissi mentre guardavo il bicchiere notando dei granelli marroni alla sua profondità.
Con una smorfia schifata, lanciai l'oggetto nell'immondizia non finendo neanche il contenuto.

Feci per riprendere la mia strada al piano superiore ma avvertii una sensazione strana, come se qualcuno mi stesse osservando.
Mi guardai lentamente intorno, l'ospedale era vuoto e le uniche persone che vi erano a quel piano eravamo io e l'infermiera che faceva il suo turno di notte.
Afferrai i bordi dove c'erano le zip della felpa che indossavo per stringerla di più attorno al mio corpo, iniziai a tremare leggermente percependo qualche spiffero di vento alle mie spalle.

Mi voltai, una porta iniziò ad aprirsi lentamente mostrando un lungo corridoio buio. Mi piegai in avanti con la testa e socchiusi gli occhi per vedere meglio all'interno, notai qualcosa muoversi ma non capii cosa fosse.
Cominciai ad avere paura così decisi di lasciar perdere e tornare da mio padre a passo svelto guardandomi sempre alle spalle.
Non mi erano mai piaciuti gli ospedali.

Forse ero ancora scossa da ciò che avevo sentito in centrale o forse era il sonno che mi faceva immaginare cose, fatto sta che ero spaventata a morte.
Rallentai il passo una volta raggiunto mio padre, che si volse nei miei confronti affiancato da James e Chris.
Quest'ultimo aveva una faccia pallida, sembrava avesse appena finito di piangere... o forse era cosi?

Il silenzio ci circondava, nessuno parlava e tanto meno io osai dire una parola.
Chris si avvicinò a passo lento verso di me, tirando fuori dalla tasca qualcosa che strinse poi in un pugno.
Solo quando si fermò ad un centimetro da me mostrò, direttamente dinanzi la mia faccia, cosa la sua mano contenesse.
Schiusi le labbra impotente nel dire qualcosa... Sarah era morta!

Avvicinai la mia mano alla sua e, una volta presa, lo tirai a me abbracciandolo.
Si accasciò su di me lasciando cadere sul pavimento l'oggetto che mi aveva mostrato poco prima: un Mp3.
Potetti udire i suoi singhiozzi che si bloccavano nell'incavo del mio collo.
«Cosa dirò a Matt adesso?» domandò Chris tra i pianti.
Non dissi nulla, continuavo a stringerlo mentre accarezzavo lentamente i suoi capelli.
Puntai gli occhi su James che, in un pianto silenzioso, ci guardava mentre si mordeva la mano chiusa in un pugno.

Ero scioccata da ciò che era appena accaduto, inerme sotto agli occhi lucidi delle persone a cui volevo più bene e pure... perché avevo un senso di colpa che mi stava divorando dentro?
Non versai una lacrima, rimasi in silenzio per tutto il tempo, ero lì ma mi sentivo disorientata, qualcosa in me si era del tutto spento.

Passò un po' di tempo prima di decidere di fare ritorno alle nostre case. Io accompagnai Chris mentre mio padre andò da James.
James... gli avevano portato via l'unica persona a lui più cara!
Non potevo proprio immaginare il dolore che quell'uomo stava provando, non si poteva avvicinare neanche minimamente al dolore che ho provato io nel perdere Steph.

Parcheggiai di fronte casa di Chris e scesi dalla macchina lui, prima di scendere, rimase per qualche secondo a fissare l'Mp3 che continuava a girare tra le sue dita.
Aveva smesso di piangere ma aveva smesso anche di parlare.
Entrammo in casa e poggiai sul pavimento la borsa contenente i vestiti di Sarah.
Dall'angolo della cucina, sbucò una donna dai capelli neri, alta e con la pelle bianco come il latte, non aveva meno di quarant'anni.
Chris iniziò a parlarle in una lingua straniera, non li capii ma percepii cosa si stessero dicendo dallo sguardo della donna che cambiò in due secondi, affranta da ciò che Chris le aveva appena riferito. Le diede un forte abbraccio prima di congedarla dal suo lavoro.

«Io allora... vado...» dissi facendo un passo indietro.
«Resta qui... per favore!» rispose lui con tono fievole.
Deglutii a quella richiesta non sapendo cosa dire, giocavo nervosamente con le miei mani che erano ormai umide e fredde per via dell'ansia che stavo accumulando quella sera.
Chris si avvicinò al bancone della cucina poggiando sul ripiano le mani, mi dava le spalle e col capo basso mi disse: «Non dovresti rimanere da sola, non riuscirei a perdere anche te...»

Prima di aprire bocca, un corpicino piccolo apparì dal corridoio a lato destro della cucina mentre si strofinava stanco gli occhi.
«Papà, dov'è la mamma?» domandò Matt con voce impastata dal sonno.
Chris si voltò sopraffatto da quella domanda, non lo rispose neanche, lo prese solo in braccio riportandolo in camera da letto.
Mi guardai intorno rimanendo ormai da sola, alla mia destra c'era il soggiorno con affianco una lunga vetrata che affacciava al giardino.
Diedi uno sguardo veloce all'orologio appeso al muro e segnava le quattro del mattino.

Uscii in giardino aprendo la porta scorrevole ed una volta lì mi bloccai, socchiusi le labbra portando velocemente le mani su di esse, avvertii gli occhi pizzicare ed appannarsi dalle lacrime. Realizzai, in quel momento, tutto ciò che era successo in un giro di poche ore.
Caddi stremata in ginocchio sulla terra fredda ed iniziai un pianto disperato, le mie mani erano ormai sulla testa e stringevo forte in due pugni i miei capelli legati in una coda.
Avevo totalmente preso la mia corazza buttandola via, così facendo, tutto il mondo e tutti gli avvenimenti mi caddero addosso come un fiume in piena.

Avevo totalmente perso la stabilità mentale mentre la paura di essere la prossima continuava a farsi sempre più grande, sempre più temibile.
Mi piegai in avanti con il busto, ora le mie mani stringevano l'erba del giardino mentre un vento leggero soffiava delicato sulla mia pelle.
Sentivo un peso sul mio petto e dovevo liberarmene così urlai, un urlo strozzato dalle lacrime ma avvilito allo stesso tempo.
Strusciai lentamente verso il tronco di un albero singhiozzando e poggiando la schiena contro di esso, asciugai il viso e chiusi gli occhi cercando di calmarmi.

Cominciai a respirare profondamente dopo che avvertii il cuore sbattermi all'impazzata contro la gabbia toracica. Il silenzio di quella notte mi tranquillizzò quasi subito, il fruscio delle foglie e i primi cinguettii erano gli unici rumori che si potevano udire in quel posto.
Senza rendermene conto, caddi in un sonno profondo, ero stanca e avevo bisogno di riposare.

***

Scalciai le lenzuola color panna via dalle mie gambe, il caldo incombeva sulla mia pelle e io continuavo a rigirarmi nel letto nel bel mezzo di un incubo.
Tirai in su, di scatto, il busto svegliandomi di colpo.
Strofinai le mani sul viso, provando a scacciare dalla mia mente l'immagine ferma di me appesa ad un cappio, l'idea di morire mi terrorizzava.
Scrutai la stanza attentamente, non era la mia.
Le pareti erano di un colore grigio chiaro, a lato sinistro del letto c'era una cabina armadio mentre sulla destra un balcone coperto da tende bianche che non permettevano al sole di andare oltre.

Alzai lo sguardo sulla porta non appena sentii bussare vedendo poi Chris farsi avanti.
«Chels, dobbiamo correre in centrale!» si sbrigò a comunicarmi lui con fare preoccupato.
Mi alzai in piedi ancora assonnata, notai che erano le otto e le ore che avevo riposato non erano sufficienti.
La testa iniziò a sbattermi non appena mi incamminai velocemente fuori per salire in macchina intanto, indossavo le scarpe ignara del mio aspetto alquanto osceno.
Movimenti troppo veloci stavo compiendo dopo non aver dormito bene, non aver mangiato nulla e aver pianto tutte le lacrime quasi a terminarle.

In macchina cercai di darmi una sistemata, anche se la mia mente ormai era altrove e di sembrare presentabile poco me ne importava.
«Cazzo!» esclamò sussurrando Chris rallentando di fronte la centrale.
Cinque macchine della NCA erano parcheggiate alla stazione di Liverpool Street.
Tirai giù un magone, la situazione stava peggiorando.
Entrammo di corsa all'interno dove subito udimmo delle urla così, le seguimmo.

«Undici omicidi, undici morti e non avete ancora trovato nulla...» urlò una voce maschile proseguito da un boato. «E questo è inaccettabile!» entrammo nella stanza interessata nel momento esatto in cui Jay indicò un giornale sul tavolo.
Tutti i presenti si girarono a guardarci, per un secondo cadde il silenzio ma Jay lo ruppe all'istante non appena posò i suoi occhi su di me.
Jay Mitchell era il capo di tutti i capi del dipartimento, diciamo il pezzo grosso della polizia Inglese.
Aveva quarant'anni, giovane per avere quella posizione ma era il successore di suo padre, Thimothe Mitchell, fu un grande uomo e un grande soldato, morì troppo presto a seconda di una sparatoria sul posto di lavoro.

«Ti prenderei a schiaffi se solo non fossi una donna!» esclamò Jay venendomi incontro ma Chris si mise in mezzo poggiando una mano al suo petto.
«Attento a come parli!» ringhiò tra i denti Chris.
Evitai i due avvicinandomi al tavolo che era posizionato al centro della stanza, raccolsi il giornale e lessi la notizia del giorno: Calma nella sua voce! La polizia Inglese nasconde qualcosa.
Non si parlava nient'altro che di me su quella pagina e di come avessi gestito la situazione con tanta franchezza, senza un briciolo di emozione.
Ma loro non sapevano quanto stessi morendo dentro in quel momento.
«Eri la migliore Chelsea... che cosa stai combinando?» domandò Jay, stavolta con tono calmo.

«Che ci fa la NCA qui?» chiesi voltandomi verso il finestrone che separava l'atrio dalla stanza, mentre guardavo gli agenti speciali camminare avanti e indietro nel corridoio.
«Vi accompagneranno nel caso e osserveranno, la prossima mossa sbagliata e siete fuori, te ne ritornerai dritta in Scozia!» affermò il capo.
Lo guardai, impassibile alle sue parole e quasi speranzosa nell'essere rievocata dal caso, tornarmene a casa mi avrebbe fatto solo che bene.
Sarei scappata di nuovo? Si, ma sarei scappata da una situazione diventata ingestibile e forse stavo entrando, se non lo ero già, in qualcosa che era più grande di me e che quindi non era più al caso mio.

Presi la cintura dove avevo la pistola, il distintivo e le manette attaccandomela poi alla vita: «Cercherò di fare il mio meglio Jay...» ma la nostra conversazione fu interrotta presto da delle sirene accompagnate da delle urla.
Ci precipitammo all'esterno, per un secondo non capii cosa stesse succedendo poi, seguii con lo sguardo delle persone che indicavano in alto e tutto fu più chiaro.
Sulla cima di un palazzo, in via di costruzione, c'era un uomo che sembrava essere deciso nel buttarsi.
Mi voltai notando che molte persone si erano appostate nel guardare, chi riprendeva e chi era spaventato.
Io ed altri agenti iniziammo a spintonare e a tenere lontano chi aveva in su i telefoni, certe cose non andavano riprese.
Un urlo femminile mi fece voltare nuovamente vedendo l'uomo cadere giù dal palazzo. Sussultai non appena si schiantò al suolo.

Rimasi a bocca aperta a quella scena, tutto era successo così velocemente che non riuscii a metabolizzare.
Riportai il mio sguardo sulla cima del palazzo notando qualcosa di nero tirarsi indietro. C'era qualcun altro lì sopra.
D'istinto, afferrai la pistola dalla cintura iniziando a correre all'interno.
Saltai delle transenne che chiudevano l'entrata, ero dentro ma dovevo stare attenta a dove mettere i piedi, il posto era ancora inagibile.

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