[13] Papaveri E Gole Tagliate
Raven si era svegliata con le lacrime agli occhi.
Era da molto tempo che suo fratello non le faceva visita nei sogni e sinceramente avrebbe preferito non ricordarlo mai più. Dopo la sua morte, la famiglia era stata sottoposta a decine di inquisizioni.
Lei, comunque sia, era stata giudicata innocente. Nessuna bambina avrebbe mai volontariamente ucciso il fratello, giusto? La colpa era quindi andata ai genitori, colpevoli di aver trascurato i due infanti.
La negligenza, da quel giorno in poi, sarebbe stata una pesante medaglia da affiggersi al petto.
L'incubo peggiore dei due era diventato realtà: la loro reputazione era finita, s'era sgretolata a terra come vetro e se avessero provato a ricomporla, si sarebbero tagliati.
Affidare una bambina a due genitori tanto maldestri e decisamente non amorevoli avrebbe certamente leso ulteriormente Raven, per questo era stata spedita in una casa famiglia. Come un pacco postale era stata presa, preparata e mandata a chi di dovere.
Il provvedimento giudiziario, comunque sia, faceva acqua da tutte le parti e lei si era presto trovata a dover tornare a casa. Suo padre aveva coperto il vecchio stagno con della sabbia, come fosse una tomba, e la stanza di Elias era rimasta intatta.
Sua madre non aveva pianto, al funerale.
Non lo aveva fatto nemmeno Raven.
La ragazza si era passata una mano sul viso, in un vago tentativo di calmare i battiti accelerati del cuore. L'altra mano era volata al fianco e poi verso i seni; qui aveva preso a grattarsi furiosamente, strusciando le unghie contro la pelle fino a quando essa era divenuta rossa e gonfia.
Riusciva a sentire le sue mani ovunque.
In preda all'isteria si era massaggiata le tempie, piagnucolando parole sconnesse e prive di senso mentre rideva e rideva.
Un latrato che si diffondeva nell'aria, impregnandola di precoce pazzia: era questo quel che dalle sue labbra era sfuggito.
"Sei morto," aveva mormorato lei, osservando le crepe del muro, "perché continui a tormentarmi? Sei morto, sei morto ed è tutto merito mio!"
Si era avvicinata all'intonaco della parete, sentendo il cuore esploderle in gola.
Più osservava le discrepanze del muro, e più queste prendevano forma, tramutandosi nel viso di suo fratello.
Con gli occhi appannati dalle lacrime e il viso bagnato d'isteria aveva alzato in aria il pugno, colpendo con quanta più forza possibile il volto immaginario di Elias.
"Lasciami in pace!" Aveva sferrato il secondo colpo, sentendo le nocche venir pervase da una forte sensazione di calore.
Questa percezione era velocemente stata sostituita da un brivido freddo, dalle punte delle dita all'angolo della spalla, scuotendola.
La fronte pallida e sudata di Raven era andata a scontrarsi lievemente contro il muro, contro il viso immaginario di Elias, e lì era rimasta per qualche secondo.
"Ti ho ucciso..." aveva bloccato l'accenno di un respiro tra la gola e le labbra, impedendogli di uscire. Il sangue nelle sue vene aveva iniziato a pompare freneticamente verso le orecchie, disorientandola.
Mani non sue avevano preso ad abbracciarla, stringendola a sé con così tanto impeto e sadismo da mozzarle il fiato. Aveva freneticamente cercato lo sguardo di suo fratello, tra la pittura e le minuscole crepe del muro, pregandolo di andarsene.
Abbassando lo sguardo, si era trovata a osservare gambe non sue. Lei non era così minuta, tanto meno così magra, e quelle scarpette viola non le indossava da più di dieci anni. Terrorizzata, aveva lanciato uno sguardo alle sue mani, trovandole piccole e strette in due pugni.
Raven era caduta a terra per lo spavento, singhiozzando nel vedersi così piccola, così bambina.
La crepa nella quale Elias aveva preso alloggio le aveva sorriso, mostrandole una fila nivea di denti piccoli ma affilati. Era tornata una bambina e la sua stazza, adesso, non l'avrebbe certamente aiutata.
"Lasciami in pace, cazzo! Ti odio-" un conato di vomito le aveva agitato lo stomaco, facendola sentire come un marinaio alle prese con la sua prima navigata in mare aperto. Dio, era stato l'ultimo pensiero che aveva composto Raven, prima di vomitare sul pavimento.
Lo stomaco vuoto era stato riempito solo da acqua, e solo questa era quindi stata rigettata contro il pavimento in legno. Più osservava il composto gelatinoso ai suoi piedi, più ascoltava il suono dei suoi stessi conati, e più si sentiva nauseata.
Aveva smesso di tirarsi indietro i capelli, lasciando che il suo corpo si dislocasse come meglio credeva. Quando, finalmente, smise di vomitare, non se ne accorse.
Raven aveva male ai muscoli e al ventre, sul petto e sopra le spalle. Il suo corpo era diventato un muscolo uniforme, completamente irrigidito e tremante.
"Quante volte," aveva iniziato lei, scrutando gli occhi murati del fratello, "quante volte dovrò ucciderti prima che tu sparisca?"
Guardandosi le gambe, aveva notato di esser tornata alla normalità. Era più alta e grande di Elias, ora.
Ma importava davvero? No, certo che no. Anche adesso che poteva sconfiggerlo fisicamente, sapeva che non sarebbe stata in grado di batterlo. Lui l'avrebbe percossa e lei glielo avrebbe permesso perché era sempre andata così, perché era sempre stato l'unico modo che conosceva per sopravvivergli.
Raven non avrebbe mai vinto, neppure contro il corpo morto e decomposto del fratello.
Le era parso di vederlo sorridere con tenerezza, forse pena, mentre la guardava. Era stato come venir percorsa da un profondo brivido e istintivamente aveva spalancato gli occhi, adirata. Non aveva nessun diritto di scrutarla così, di osservarla come se fosse lei la creatura miserabile e pietosa.
Era lui a esser morto, lui, non lei!
Si era sentita sfiorare le braccia, eppure nel suo campo visivo non era entrato niente.
Le labbra del fratello si erano inclinate, distorcendo l'apparente bel sorriso in un ghigno deforme.
"Oh, ma sono stato io a ucciderti per primo, Rav."
Risentire la sua voce era stata un'esperienza talmente forte da lasciarla muta e scossa; come una foglia in autunno, s'era aggrappata al ramo, la sanità, e aveva pregato il vento, l'isteria, di non trascinarla con sé.
Chiudendo gli occhi, si era immaginata di vedere il viso calmo del suo terapeuta. Prendi un respiro profondo, le avrebbe detto lui, facendole chiudere gli occhi, è tutto nella tua testa, respira con me.
E lei aveva respirato, ancora e ancora, sentendo il petto tremare quando tratteneva il respiro per rallentare il processo. Dentro e fuori, inspira ed espira.
Nei cassetti della sua mente aveva cercato la voce di Erik, il colore placido dei suoi occhi e il suono dei suoi consigli, ma non aveva trovato. Uno scompartimento si era aperto da solo e da esso aveva estratto il ricordo di sé stessa, accovacciata a terra, assieme a Sin.
Le sue sopracciglia si erano scontrate, furiose, mentre tentava di cambiare memoria. Più ci provava, però, e più la scena si faceva vivida.
C'era il verde della flora e l'animale dietro il cespuglio, la figura grande e fredda di Sin e il suo intimarle di stare in silenzio. Qualcuno le stava forzando quel ricordo, ma non importava.
Raven aveva iniziato a perdersi nel pelo soffice della volpe, in trance, perdendo il senso della realtà. Le pareva di esser davvero tornata nel passato, di aver abbandonato il presente per rifugiarsi nel tepore aranciato dell'animale.
Sin si era affacciato alle spalle della ragazza, sorpreso di esser riuscito a ingannarla con la sua magia. Si era detto che la causa fosse il momento di panico che aveva vissuto: questo l'aveva probabilmente indebolita.
Leccandosi le labbra, si era seduto dietro di lei con le gambe aperte, circondandola con le braccia. Il dio si era momentaneamente guardato intorno, grato del fratto che Icarus se ne fosse andato.
La verità era che si sentiva in colpa, seppur gli costasse ammetterlo, per averle fatto rivivere un momento tanto traumatico della sua infanzia. Se fosse stato al suo posto, avrebbe ucciso pur di tenere i suoi ricordi segreti.
Quindi aveva premuto le mani callose e grandi contro le costole della ragazza, facendo aderire la schiena di lei contro il suo petto. Non era una dimostrazione d'affetto, Sin l'avrebbe negato con tutte le sue forze, ma un mero tentativo di rimediare al dolore che le aveva causato.
E poi, ripensandoci, il dio avrebbe dato tutta la colpa a quel maledetto di Icarus. Una volta tornato alla sua dimora, gli avrebbe strappato le ali e l'avrebbe spennato come un pollo per poi cucinarlo e darlo in pasto alla sua servitù.
Aveva scosso la testa, evitando di pensarci, per poi irradiare nel corpo della femmina il ricordo dell'animale e della selva. La stava toccando solo per assorbire un po' del suo dolore, non tutto perché, ovviamente, non aveva la minima intenzione di guarire Raven.
Il dolore umano era loro da gestire e lui non doveva averci nulla a che fare, ma quella volta era stato lui a causarlo e quindi le doveva delle scuse. Non verbali, ovviamente; magari le avrebbe mandato una cartolina raffigurante Icarus in forno, con un bel "gli dispiace!" scritto sopra.
Le sarebbe piaciuto? Lui l'avrebbe certamente adorato, quindi l'opinione di Raven non importava.
Si era trovato a sospirarle tra i capelli, ispirando involontariamente l'odore della sua pelle. Gli umani avevano un odore strano, il più delle volte amaro, eppure quello di lei era leggermente diverso.
E con 'diverso' Sin non intendeva dire che fosse migliore, più dolce o gradevole, no. Conosceva quell'aroma e, finalmente, capiva dove avesse già visto la giovane donna. La mora odorava di abbandono e morte, di un corpo morto circondato da papaveri e farfalle in decomposizione.
Raven aveva lo stesso odore dei bambini incurvati, sporchi di fango e terra, che nudi si stringevano le ginocchia al petto; gli stessi infanti che il dio aveva visto decine e decine di volte nel regno di sua madre.
L'aveva incontrata lì, la prima volta, e forse per questo non l'aveva riconosciuta subito. La ragazza, nel regno della dea, aveva sembianze decisamente più mostruose e miserabili proprio perché esse rappresentavano il modo in cui ella si vedeva e giudicava.
Nel mondo buio e cupo di cui sua madre era la Regina, Raven aveva una massa di capelli sporchi e indomabili che come alghe le si erano attaccati alla fronte e sul viso.
Sin aveva chiusa gli occhi per ricordare meglio, osservandole le labbra. Rammentava di aver fatto un passo indietro, la prima volta che aveva posato gli occhi su di lei.
Possibile che l'anima della donna fosse ancora bloccata lì? Era una congettura che sfiorava la certezza.
In quell'universo, Raven assumeva la forma di ciò che pensava di essere. Il dio rammentava di aver aggrottato le sopracciglia, nell'osservarla, perché tra tutte le altre anime ferite, lei era l'unica a sorridere.
Non era, comunque sia, un bel sorriso.
La bambina deforme si era scavata dei profondi solchi nelle guance, allungandolo artificialmente verso l'alto. Il sangue sgorgato dal taglio le aveva permanentemente macchiato i denti di scarlatto e di nero, espandendosi verso il collo.
Su quel punto si trovava un ulteriore taglio dal quale, però, non fuoriusciva sangue ma bensì papaveri bianchi: Raven vi ci premeva la mano sopra, tentando di trattenerla nell'esofago.
Sua madre, Varlett, gli aveva spiegato che tutto era simbolico, in quei bambini. Il sorriso finto e creato da una lama era di facile interpretazione, ma cosa significavano i fiori e la gola sfregiata?
Aveva ripercorso la spiegazione di Varlett, sentendo le sue parole percorrergli le terminazioni nervose per esplodere nei neuroni.
"I papaveri bianchi sono legati alla sventura e al sonno del cuore; gli umani li regalano a chi non sa più amare o a chi ha subito un colpo nella sfera emotiva. La gola tagliata, invece, sta a significare che comunicare è impossibile."
Istintivamente l'aveva stretta un po' più forte, toccandole il collo per verificare che fosse integro. L'aveva trovato liscio contro i polpastrelli e subito aveva ritratto la mano.
Si sarebbe dovuto fare una doccia, altrimenti i suoi vestiti avrebbero iniziato a odorare di quell'insopportabile umana. Aveva chiuso gli occhi, grugnendo.
Quando l'aveva finalmente sentita rilassarsi, si era scostato. Con lentezza aveva fatto due passi indietro, dirigendosi verso la porta finestra. Non aveva nessunissima voglia di vedere come avrebbe reagito lei nel ritrovarselo in stanza.
Sin non ci teneva a ricevere il secondo pugno della settimana, quindi si sarebbe levato velocemente dai piedi. Aveva fatto sparire metà del corpo oltre il materiale duro e freddo del vetro, congelandosi sul posto quando il telefono di Raven aveva iniziato a squillare.
Velocemente si era voltato, incrociando gli occhi spalancati di lei mentre spariva oltre la porta.
Sperava che l'avrebbe considerato un sogno, altrimenti se la sarebbe presa con Icarus.
✞
La polizia l'aveva chiamata per chiederle di passare in centrale non appena possibile, così Raven si era forzata ad alzarsi per dirigersi verso il bagno. Aveva fatto un sogno assurdo e la sua isteria l'aveva portata ad avere un nuovo attacco.
Fern, l'agente che aveva incontrato il giorno prima, le aveva detto di aver ricevuto i risultati del DNA trovato sul suo computer.
Il suo sguardo si era scontrato contro il flacone di medicinali che teneva nella borsa, impaziente. Era come se il suo intero corpo reclamasse la calma che solo quelle piccole sfere chiare e artificiali potevano darle; la sua mente, però, era ancora troppo cosciente di ciò che era accaduto poche ore prima.
Non ci teneva a perdere di nuovo i sensi. Sarebbe stato come indossare un enorme cartello con su scritto "ehi, sono qui, vienimi a prendere!".
Entrando nella doccia, aveva avvertito l'arrivo del secondo conato e subito s'era tappata la bocca, impedendosi di vomitare. Aveva lasciato le tendine aperte, rifiutandosi di chiuderle, impiegando un totale di sette minuti per lavarsi prima il corpo e poi i capelli.
Una volta finito con la polizia, avrebbe chiamato il suo capo per chiedergli di trasferirla in un altro appartamento.
Era uscita velocemente dalla doccia, avvolgendosi un asciugamano attorno ai capelli mentre con velocità tamponava la pelle bagnata.
Presa dalla fretta, era sgusciata velocemente nei jeans attilati, tentando di far entrare il maglione nonostante il serpente di stoffa che si era fatta in testa.
Le sembrava di non aver tempo, di doversi sbrigare. Sperava vivamente che la polizia avesse qualche informazione per lei; certo, aveva ragionato Raven, se così non fosse stato, non le avrebbero chiesto di recarsi in caserma.
Non si era truccata mentre radunava la borsa con il telefono, gettando tutto al suo interno.
Con gli occhi si era assicurata di aver preso tutto, gemendo di fastidio nel notare la pozza di vomito.
Aveva lanciato un ulteriore sguardo al muro; quindi aveva alzato il dito medio, sibilando un "vaffanculo" verso il punto precedentemente occupato dall'illusione di suo fratello.
Si era quindi sfregata velocemente i capelli bagnati, senza curarsi di asciugarli. Le sarebbe venuto un torcicollo infernale, ma in quel momento non le importava.
L'asciugamano era stato gettato con non curanza sul letto mentre Raven si dava mentalmente dell'incivile.
Si era chiusa la porta alle spalle, senza notare la piccola apertura della finestra del bagno.
Né Sin né Icarus l'avevano usata, e perché avrebbero dovuto? Loro potevano, dopotutto, trapassare gli oggetti.
Nella hall dell'albergo non era riuscita ad adocchiare la proprietaria, così le aveva lasciato un bigliettino per avvertirla del disordine della stanza.
Aveva dato la colpa a un'immaginaria sbronza, sperando che la direttrice non si sarebbe arrabbiata.
La prima cosa che aveva fatto una volta uscita dalla struttura era stata afferrare il telefono per controllare i messaggi.
Erik le aveva lasciato altre quattro chiamate perse e diversi messaggi. C'era anche la telefonata fatta dalla polizia, con il numero privato di Fern tra i messaggi.
Si era morsa l'interno guancia mentre sgusciava tra i cittadini, guadagnandosi qualche occhiata curiosa.
Era in uno stato di febbricitante isteria e aspettare di arrivare in centrale le sembrava impossibile.
Quindi aveva premuto velocemente sul contatto, avvicinando l'aggeggio all'orecchio.
Fern aveva risposto al secondo squillo, grugnendo.
"Pronto? Sono Raven, mi ha chiamata questa mattina."
L'aveva anticipato lei, grattandosi il braccio con la mano libera. Qualche imprecazione in dialetto aveva raggiunto le sue orecchie, facendole capire che il povero poliziotto si era svegliato poco prima.
"Si, si, Raven." L'aveva detto più a sé stesso che a lei, forse per assimilare meglio il concetto.
"Mi hanno mandato i risultati ieri sera, ma sono riuscito a vederli solo oggi. Aveva ragione: le sue impronte non erano le uniche presenti sul computer."
Lei aveva annuito, affrettando il passo.
Lo sapeva, sapeva di non essere pazza così come sapeva di non esserselo immaginato!
"Avete già il proprietario delle altre impronte? Sapete a chi appartengono?"
Fern si era grattato il mento, stanco, mentre si appoggiava contro la sedia del suo ufficio.
Aveva passato la notte insonne, in attesa dei risultati, e ora si trovava in un profondo stato di debolezza.
Non aveva più vent'anni eppure lavorava come se li avesse avuti.
"Ci sono tre impronte diverse, la prima appartiene al ragazzo del bar, Aleksander, mentre le altre due- Cristo!"
Le orecchie di Raven erano state riempite da suoni animaleschi, grutturali, ai quali erano seguite delle urla.
Qualcuno aveva appena attaccato Fern.
A T T E N Z I O N E
Credo che inizierò a fare dei capitoli più corti per non risultare pesante, per questo non saprete chi ha attaccato il povero Fern fino al prossimo capito.
Un bacio <3
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