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2: Brian Rosenfer


Capitolo secondo

Voglio toccare l'aurora boreale.

Potremmo lasciarci il mondo alle spalle

Voglio sapere cosa si prova

a fuggire da questa vita

(James Young – Northern lights)

-Sei tu il ragazzo terrestre? Dove sei? Ci stanno cercando!-

Una voce misteriosa raggiunse Brian tra il sonno e la veglia, come un sussurro lontano. Il giovane irlandese si rigirò tra le coperte, cercando invano di aprire gli occhi: il cavaliere che popolava il suo sogno non sembrava affatto intenzionato a lasciarlo in pace, e stava tendendo una mano nella sua direzione, in cerca di aiuto.

Aveva un aspetto insolito, decisamente non umano: dalla pelle azzurro ghiaccio agli occhi d'oro splendente, dalle orecchie a punta ai capelli blu notte, quel ragazzo non sembrava appartenere al suo mondo. Fluttuava nell'aria come una piuma, sovrastando un'isola ai suoi piedi dai contorni netti e rigidi, quasi fossero stati tracciati con un righello, circondata dalle fredde onde dell'oceano. Brian cercò di urlargli qualcosa di rimando, ma sentì la propria voce farsi confusa e ovattata, mutandosi in un suono indefinito che gli rimbalzó inutilmente indietro.

-Mi chiamo Faolan. Vengo dalle terre di Alaron. Aiutami, ti prego! Siamo in pericolo!- gridò il giovane cavaliere, con voce pregna di disperazione, prima di crollare nel vuoto. L'isola sotto di lui scomparve, e Brian cercò invano di saltare in quel baratro per in seguirlo, spinto dal bisogno istintivo di capire dove fosse andato.

-Dove sono le terre di Alaron?- urlò Brian di rimando, ritrovandosi a galleggiare in quell'atmosfera densa e buia. Faolan era scomparso, e lui non vedeva altro che oscurità. –Come posso aiutarti?-

Prima ancora che Faolan potesse rispondergli, Brian si svegliò di soprassalto, come se qualcuno gli avesse piantato una coltellata nella schiena.
Per la prima volta dopo tanto tempo fu felice di trovarsi nella sua stanza, nello stesso letto in cui dormiva da quattordici anni, lontano da un mondo e da un'isola che non conosceva. Quando aprì gli occhi tirò un sospiro di sollievo, riconoscendo il colore familiare delle pareti, le travi di legno del soffitto e i libri che aveva letto prima di addormentarsi ancora appoggiati sulle coperte accartocciate.

Era a casa, e non lontano miglia e miglia dall'Irlanda, vicino a un luogo che probabilmente non esisteva, con un ragazzo che non conosceva e che aveva implorato il suo soccorso. Quella notte si era sicuramente lasciato suggestionare più del solito dai romanzi letti prima di addormentarsi: l'incubo che aveva fatto era stato fin troppo vivido, tanto da lasciargli il petto stretto in una morsa di angoscia.

"Siamo in pericololo!"

Quella frase gli risuonò di nuovo nella mente, cupa come una minaccia fin troppo vicina. Si guardò intorno, raggomitolandosi nelle coperte, temendo quasi di scorgere il giovane Faolan fissarlo di nuovo, prima di scuotere il capo. Aveva gli occhi lucidi e le mani tremanti, quasi si fosse effettivamente gettato nel vuoto insieme al ragazzo dai capelli blu, ma non poteva continuare a perdersi in quei pensieri: ormai erano le sette e mezza passate. Era già tardi, e la voce irritata del padre, proveniente dal piano inferiore, non fece che ribadirglielo.

-Brian, sei sveglio? Avanti, scendi subito!-, urlò Stephen Rosenfer, impaziente.
Brian si sforzò di rispondergli, dopo un lungo sbadiglio. -Arrivo, arrivo! Mi stavo preparando!- mentì, urlandogli di rimando, mettendosi in piedi di malavoglia.
Si stropicciò gli occhi, scalciando via le coperte: aveva bisogno di sgranchirsi un po', prima di presentarsi al piano di sotto. La testa gli sembrava pesante come un macigno, e le gambe erano indolenzite.
Avrebbe tanto voluto smettere di pensare ai mondi distanti che aveva sognato, ma era difficile smettere di farlo: dopo aver viaggiato in dimensioni cangianti e mutevoli per ore e ore, la realtà quotidiana che lo attendeva gli sembrava fin troppo piatta per i suoi gusti.


"Che strano nome, le terre di Alaron..devo averlo letto da qualche parte", si chiese per l'ennesima volta, mentre iniziava a vestirsi. "E quel ragazzo, Faolan, mi ha chiamato "ragazzo terrestre". Che sia un alieno? Forse le terre di Alaron sono un altro pianeta."
Brian si sforzò di rammentarlo, senza troppo successo. Sembrava tutto un groviglio, nella sua testa confusa.

 
"Forse dovrei smetterla di leggere così tanto prima di andare a dormire, tutto qui. Se lo scoprisse mio padre, poi.. "

Brian si affrettò a spostare i libri dal comodino, riponendoli sotto al materasso, sperando che restassero al sicuro almeno fino a quella sera. E finalmente si preparò all'idea di uscire, fermandosi di fronte allo specchio e azzardando un sorriso. Le sue labbra sottili si riuscirono a piegare con sforzo, ma gli occhi verdi si rifiutarono di seguire il loro corso, limitandosi a restituirgli un'occhiata stanca. Sul naso leggermente incurvato verso l'alto, le lentiggini spiccavano evidenti più che mai, fornendo una buona distrazione dai cerchi scuri sempre più evidenti sotto agli occhi. Brian si auguró di sembrare sufficientemente felice, come si supponeva dovesse essere ogni giorno.

Perché in fondo, sapeva benissimo che non avrebbe mai dovuto lamentarsi, né appena sveglio né in nessun altro momento: era un ragazzo fortunato, chiunque non faceva altro che ripeterlo.
Durante i suoi sedici anni di vita, aveva imparato a distinguere bene le occhiate di invidia o di ammirazione della gente, e,ancora più abilmente, aveva imparato a fingere di pensarla esattamente come loro: era il figlio di un uomo ricco, cosa sarebbe mai potuto andargli storto?

Eppure, in mattinate come quella, non poteva fare a meno di chiedersi se i corvi e i gabbiani del porto avrebbero mai invidiato un canarino in gabbia, barattando un volo per delle comodità.

Non che lui disdegnasse il buon cibo o la bellezza della sua sterminata tenuta di campagna, ma le sbarre che lo circondavano iniziavano a stargli strette. Quel giorno lo aspettavano circa otto ore di lezioni, e il pensiero di non riuscire nemmeno a mettere piede in giardino gli sembrò ancora più spiacevole del solito.

Gli uccelli migratori viaggiavano in gruppo, solcavano i cieli e attraversavano le nuvole. Il massimo che riusciva a fare lui, invece, era osservare, in completa solitudine, i raggi di sole da dietro le finestre, come una rosa sotto a una teca, troppo preziosa per essere esposta al calore, troppo fragile per poter uscire.

-Brian! Dove sei?
Brian sussultò al secondo richiamo del padre.

Non finì nemmeno di spazzolarsi i capelli e uscì con indosso i primi abiti che gli erano capitati sottomano, ancora sporchi di inchiostro. Il colletto della camicia bianca gli si era piegato sul collo con la stessa rigidità di un coltello, e i bottoni del il panciotto color legno assomigliavano a una fila di cerchi incapaci di raggiungersi a vicenda, da tanto erano stati allacciati senza cura e attenzione. Ma non importava: in ogni caso, Brian con la trigonometria non sarebbe andato d'accordo neanche con la migliore pettinatura del mondo, quello era poco ma sicuro. 

***

Brian scese le scale con una certa fretta per raggiungere il padre, aggrappandosi con forza al corrimano, quasi cercasse in esso un sostegno invisibile alla giornata che stava per affrontare. Il legno sotto alle sue dita era però freddo come gli sguardi che lo osservavano dai ritratti appesi lungo la parete color ocra spento, volti sconosciuti di tempi antichi che lo osservavano nella più completa indifferenza.

Soltanto la luce delle finestre del piano inferiore gli restituì un minimo di conforto: le vetrate sporgenti che circondavano divani e poltrone si piegavano verso l'esterno quasi fossero state assetate di calore, pronte a catturare il più sottile raggio di sole. I tappeti scarlatti e dorati che coprivano il legno del pavimento sembravano sempre brillare, quando arrivava la primavera: i fili con cui erano stati tessuti splendevano come pagliuzze in una miniera, quasi sperando di eguagliare la bellezza della natura all'esterno del palazzo.

Il salone dove si incontrava col padre ogni mattina era la stanza più calda e luminosa di tutta la villa, eppure, quando Brian vide il genitore appoggiato a una parete, sentì un brivido percorrerlo da capo a piedi. I capelli argentei gli ricadevano sulla fronte in ciocche ordinate, sistemati sotto a un cappello che ben si intonava al completo scuro. Era una bella giornata, lo si intuiva dal colore degli alberi del giardino alle sue spalle, ma a Stephen non sembrava importare. Il suo sguardo rigido sembrava decisamente poco incline ad ammorbidirsi alla vista della natura in procinto di sbocciare.

Brian camminò fino a fermarsi di fronte a lui, nel modo più impettito che gli riuscisse, a costo di sentirsi ridicolo. Impiegò qualche istante a guardarlo senza più esitare, trattenendo il respiro e porgendogli un saluto.

-Eccoti. Ma che diavolo stavi facendo? Ti sembra questa l'ora di arrivare?-

Brian non ebbe nemmeno il tempo di ribattere che uno schiaffo gli colpì la guancia, facendolo sussultare più per la sorpresa che per il dolore.
Stephen lo afferrò per le spalle, scuotendolo.

I suoi occhi severi si posarono sulla sua figura con palese disapprovazione. Brian si innervosì sotto al suo sguardo indagatore. Sapeva già che cosa stava pensando: aveva i polsini sporchi d'inchiostro, le ciocche arruffate come un nido di vespe e un colore di pantaloni che non si intonava affatto al resto del completo.

-E speravo, per lo meno, che il tuo ritardo fosse giustificato da un'adeguata preparazione, Brian. Forse non sai ... e non mi sorprenderebbe, d'altronde di cose pratiche sai ben poco ... -, proseguì Stephen, allentando la presa -che nella società, non è sufficiente essere graziosi per chissà quale fortuna che la natura ci ha concesso.-

Brian si accigliò. Non si era mai chiesto se fosse "grazioso". Era probabilmente l'ultimo dei suoi problemi. Incrociò le braccia al petto, in attesa del resto di quel discorso, sforzandosi di mantenere un'espressione tranquilla mentre nascondeva la propria irritazione.

-Bisogna essere eleganti. Fare bella figura, e apparire curati, coi capelli spazzolati, gli occhi attenti, gli abiti ben curati, e... -

Brian si trattenne dal chiedergli se voleva anche vederlo con dei diamanti al posto dei denti e dei fili d'oro nei capelli: era sicuro che non lo avrebbe trovato tanto divertente.

-Mi dispiace, padre.- si sforzò di dire Brian, chinando appena il capo.-Ti dispiace? A me invece dispiace appurare che passi le notti a leggere quei libri di poco conto. Non hai mai un pensiero concreto, un modo più saggio di spendere il tuo tempo.- Stephen fece una breve pausa, le labbra contratte in una piega rassegnata. -Non dovresti riempirti la testa con quelle sciocchezze: già non brilli di intelligenza; devo ammetterlo, mio malgrado. In questo modo, non fai che peggiorare la tua situazione.-

Brian soffocò un sussulto. Era abituato alle sue prediche, ma aveva sperato che non colpissero anche i libri che aveva cercato di nascondere in tutti i modi. Come diavolo aveva fatto a trovarli?

Li aveva nascosti subito, dal primo giorno in cui ci aveva messo sopra le mani. A Stephen non sarebbero piaciuti, ne era certo, e lui non aveva neanche più voglia di contraddirlo: non gli avrebbe permesso di distruggere anche quel passatempo.

Aveva provato fin troppe volte a lasciare che le critiche di suo padre gli rimbalzassero addosso come frecce contro a un'armatura, ma era stato inutile. Finiva lo stesso per avere timore del suo parere, sempre e comunque. E se ormai non riusciva neanche più a raccontagli come avesse passato la giornata senza sentirsi criticato, se tutto ciò che lo rendeva felice era considerato irrilevante o ridicolo, la cosa migliore che poteva fare per proteggersi era dirgli il meno possibile.

L'unica cosa che lo faceva sentire un po' più tranquilo, in quel momento, era il pensiero che per lo meno la nuova moglie del padre non fosse nei paraggi: se c'era qualcuno che amava ancora di più criticarlo sulle sue abitudini, quella era la sua matrigna Clementine Rosenfer, e dubitava che in quel momento avrebbe potuto sopportare la presenza di entrambi.

-Ho tolto le chiavi della biblioteca a Madeleine, e non provare a recuperarle dalle tasche della mia giacca come hai fatto l'ultima volta. E ora va a darti una sistemata, pettinati, almeno!- aggiunse Stephen, con malcelata esasperazione.

-Ma padre, io non capisco ... -, ribatté Brian, affondando le unghie nei palmi delle mani con frustrazione, non riuscendo a trattenere il bisogno di difendersi, pur sapendo di protestare inutilmente. - ... perché non posso leggere dei libri di cui già disponiamo?-

Brian aveva passato giorni interi a cercare di intrufolarsi in biblioteca per recuperare i volumi imprigionati negli scaffali, impilati l'uno contro l'altro come per farli soffocare. Ai suoi occhi, tenere quel luogo chiuso a chiave era come trovare un forziere e non sforzarsi di aprirlo.

Gli era sempre sembrato bizzarro che suo padre, lo stesso uomo che si interessava soltanto ai conti e alla posizione sociale, tenesse in biblioteca una quantità spropositata libri che sembravano interessare soltanto a lui: c'erano atlanti di viaggio, testi teatrali, romanzi, e un'altra serie di cose che aveva divorato quasi ogni sera, sotto alla flebile luce dei mozziconi di candela.

Ma Stephen si era sempre giustificato allo stesso modo: non faceva che ripetere che la biblioteca gli era stata regalata con l'acquisto della villa, e fine della storia. E per la prima volta in vita sua, Brian gli aveva creduto. Per una volta, aveva smesso di fasciarsi la testa in cerca di misteri da risolvere.

In fondo, non c'era niente di così straordinario in suo padre.

Sapeva che a Cork lo chiamavano tutti "il mago grigio", per via del colore argenteo dei capelli e per la riservatezza cupa dei suoi gesti; ma sapeva anche che non era altro che un poetico soprannome.

I maghi, sempre ammesso che fossero mai esistiti, di certo non somigliavano al cinico amministratore di un mercato di Cork.

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