2. LA GROTTA DI CALIPSO
Una delle cose che mi affascinano di più del voler diventare uno scrittore - ed è una delle più difficili - è cambiare la propria voce per adattarla al personaggio/personaggi e al contesto del racconto/romanzo. Passare da un registro alto ad uno colloquiale, entrare nei panni di un uomo, di una donna, di un bambino, di un animale, di un oggetto, passare dal 1400 al 1800 al 2019 senza sembrare che le parole siano forzate. Questo racconto, piuttosto lungo, risale al 2011, marzo o aprile, mi pare. Ha già subito due revisioni ma, si sa, il lavoro non è mai finito.
Non vi dirò come mi chiamo.
Vi dirò che potete chiamarmi Calipso, il nome della ninfa che salvò Ulisse e lo accolse nella sua grotta durante il famoso e disperato viaggio di ritorno a Itaca.
Non vi dirò nemmeno quali sono i nomi degli altri protagonisti: li definirò lei e lui, per una forma di rispetto e di modo che ognuno possa pensare a persone che conosce, cucire i pronomi per immedesimarsi in questa storia che è mia, ma potrebbe capitare a chiunque altro.
Se non vi riconoscerete, vi chiedo perdono. Ma è così che sono andate le cose.
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Lavoro come commessa in un supermercato. A volte faccio la cassiera, a volte sistemo la merce. È un posto piccolo, per cui la gente tende a considerarlo casa propria, con tutto quello che ne consegue.
Quando dico che non mi aspettavo che finisse così dovete credermi. Conobbi lei una mattina che venne a fare la spesa. Comprò quattro cose insulse che raddrizzano giornate storte: una vaschetta di gelato, tre tubetti di smarties, quattro bottiglie di coca cola da 75 cl. e l'unico prodotto indispensabile: la carta igienica.
Io, per educazione e per dovere, tratto tutti con cortesia. Fredda cortesia, dicono alcuni. Ma, se me lo chiedessero, risponderei che è meglio della calda maleducazione, di una lingua troppo sciolta o di un atteggiamento coinvolto. I miei genitori mi hanno inculcato la gentilezza e la correttezza, trasformandomi, a loro insaputa, in una ragazza del secolo scorso. Meglio: del secolo prima ancora.
Immaginate una giovane donna che tiene la schiena eretta e parla senza alzare la voce, usando termini forbiti – per alcuni anche la formula «desidera altro?» lo è – da scatenare l'ilarità dei colleghi e dei ragazzini. Ai loro occhi sono "antica", fuori posto nella velocità odierna, completamente scollata dalla realtà. Con questo tipo di credenziali, credete forse che avrei potuto finire nel calderone dei fortunati e dei vincenti?
C'è di che starmi alla larga, davvero.
Lo specifico perché lei, la mia amica, deve avere pensato il contrario di tutto ciò che ho detto. Dal suo punto di vista costituivo un'interessante anomalia umana, una simpatica aberrazione genetica, una curiosità da soddisfare. E, lo giuro, ho creduto spesso che lei pensasse questo di me mentre mi scrutava senza parlare, e per un lungo periodo l'ho odiata. Per esperienza so che è difficile sentire affetto, simpatia, o provare un interesse che non sia scientifico, per qualcuno come me.
Essere strani, da principio, rende più difficile trovarsi qualcuno da amare. Lei no. Lei mi amava. Non in modo perverso, intendiamoci. Qualcosa si era sviluppato dentro di lei costringendola a trovarmi amabile malgrado, all'inizio, la salutassi mantenendo le distanze e senza infondere nella mia voce nessun tono caldo e amichevole. I «buongiorno» erano più numerosi dei «ciao».
Solo qualche volta, chiedendole se volesse una borsa o le servisse altro, mi scappava di darle del tu. In modo assolutamente naturale.
Lei, fin dal principio, mi diede sempre del tu. E, ancora oggi, non so come abbia scoperto il mio nome. Nessuno di noi che lavoriamo in quel supermercato porta il cartellino di riconoscimento. Che io ricordi, non è mai stata presente quando gridavano il mio nome. Eppure lo conosceva e lo usava.
«Sai dirmi quanto costano questi tovaglioli di carta, xxxxxxxx? Pensi che siano i più convenienti? Puoi visualizzare il prezzo? Non trovo il frontalino.»
«Certo. Credo che questi siano i migliori. Non si rompono appena si tolgono dalla scatola.»
«Grazie.»
«Prego. Di nulla.»
Se le davo un pochino d'intendere, mi raccontava a cosa le serviva ciò che comprava, cosa doveva farne, e capitò che mi desse qualche buona ricetta di cucina da provare.
Certe volte mi scoprivo a guardarla mentre si aggirava fra le corsie. La soppesavo, valutandola senza pietà come solo le donne odiose sanno fare.
Era mascolina, sottile, di statura media. Portava i capelli corti, da paggio. Siccome non erano perfettamente lisci sembravano sempre spettinati. Nemmeno io riesco ad avere capelli come le dive del Burlesque o come le ragazzine che vedo ogni giorno, quelle che brillano lustre come candelabri passati nel Duraglit. Non so come facciano a fronteggiare l'umidità, lo smog, il sole, il vento, il sudore, cappucci, cappelli, mollette, mani sporche: ci riescono e basta e io le invidio da morire.
Lei aveva i capelli mossi e trascurati. Il viso era magro, il naso dritto e gli occhi scuri. Per darvi un'idea di come fosse, potrei dire che assomigliava all'attrice Hillary Swank nelle versioni maschili dei suoi personaggi. Con gli occhi di K.D. Lang, ecco: in questo modo il ritratto potrebbe avvicinarsi alla realtà.
Non ricordo le labbra. Credo che potrei definirle normali, ma è solo un'approssimazione per la vostra curiosità e la mia coscienza. La verità è che le labbra sono state una delle prime cose di lei che sono sparite dalla memoria. Datemi tempo e forse non avrà più un viso.
Vestiva quasi sempre coi pantaloni: lunghi d'inverno, corti d'estate. Indossava quei calzoncini che mia madre mi ha sempre impedito di mettere persino per andare a comprare il giornale nel mio paese, che d'estate è sonnacchioso e vuoto.
Che io ricordi, non ha mai fatto spese enormi e presto avrei scoperto perché. Non viveva con i suoi genitori. La sua casa era un appartamento in città; non aveva animali – mentre io ho un gatto – e lavorava tutto il giorno fuori.
Ma non era sola. Viveva con il fidanzato.
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Lui arrivò con lei, un pomeriggio. Meglio dire che era quasi sera ma, d'estate, non so mai bene come considerare le sei e mezza del pomeriggio. Per me, nonostante la confusione dei clienti in uscita dal lavoro, quella è l'ora più bella.
Lui l'avevo già visto qualche volta. Dal momento che non portava anelli sospetti alle dita, pensavo che non fosse sposato e l'idea che potesse avere qualcuna non mi ha mai sfiorato la mente. Mi trattava con lo stesso calore che percepivo in lei, quell'innata simpatia che scatta fra due estranei che fino a dieci secondi prima si ignoravano. Come lei, lui comprava qualche sciocchezza, quasi fosse passato di lì per caso e, dopo essere entrato, non volesse uscire a mani vuote.
Ce ne sono molte di persone così: pensano che sia un obbligo acquistare quando vanno da qualche parte e non trovano niente di quello che gli serve. Non ho mai capito come è fatto quel tipo di coscienza.
Faceva file lunghissime e veniva sempre alla mia cassa. Una volta, dopo che lo vidi con lei in quella famosa sera, mi disse: «Non mi importa di perdere tempo ad aspettare il mio turno. Vengo alla tua cassa perché sei sempre gentile!».
«Non è vero» risposi, perché questo genere di affermazioni mi urtano, invece di farmi piacere. «Ci sono altre cassiere altrettanto gentili.»
«Non qui dentro» insistette lui, e io gli diedi la solita risposta che ho sempre rifilato a quelli che mi facevano lo spaventoso complimento.
«Ognuno agisce secondo la sua coscienza. A me è stato insegnato ad essere cortese, soprattutto in un lavoro come questo dove sei a contatto con ogni tipo di gente. Le mie colleghe s'arrabbiano spesso o non sono accomodanti, portano qui dentro le loro rogne casalinghe. È sbagliato proiettare le proprie irritazioni su persone che non c'entrano con noi e con le nostre beghe.»
«Può darsi» rispose lui, con l'aria di non essere convinto, «ma tu sei così di natura. Non ti sforzi. L'educazione è un bene prezioso di questi tempi, però la cortesia d'animo è un talento, non trovi?»
Ditemi: come non potevo provare simpatia per lui? Ditemi come non potevo iniziare ad adorarlo.
Era un bel ragazzo, alto, muscoloso, tatuato in maniera discreta e artistica. Era quel genere di uomo che ha i capelli chiari e gli occhi scurissimi, quegli sguardi intensi, quasi pirateschi, che ho sempre sognato di avere per me.
Lui assassinava con lo sguardo, non contento di ciò che faceva con il corpo. Il naso era dritto, la bocca perfetta, il viso virile. Sorrideva spesso e volentieri. Vestiva con maglie che io avrei fatto indossare al mio ragazzo, se ne avessi avuto uno. Maglie rock, polo. Per i miei canoni, i jeans che indossava erano troppo larghi, sformati, ma non si può cercare costantemente la perfezione. Anche se i jeans venivano bocciati ogni volta che lo vedevo, il resto era ok.
Mi bastava intravederlo mentre entrava dalla porta scorrevole e la giornata cambiava in meglio. Avevo imparato a conoscere la sua sagoma, quella che si appende all'angolo dell'occhio e permette di distinguere una persona dall'altra dall'ombra del movimento che compie.
Quella sera, dunque, lui entrò e, subito dietro, eccola. Impossibile pensare a fratello e sorella. Troppo diversi. Quando due persone si amano, anche quando non si tengono per mano e mostrano il loro legame in altri modi – toccatine, baci in piedi, risate – per riconoscerle è sufficiente osservarle. Sono sufficienti le occhiate che si lanciano. Di solito – ed era questo lo sciagurato caso – è l'uomo ad avere lo sguardo più caldo, più affettuoso, più languido. Questo sguardo è cieco al di fuori del campo visivo che inquadra la ragazza che hanno a fianco. Questi occhi le possiedono prima ancora delle mani, del corpo. È il cordone ombelicale. Credetemi. Limitatevi ad osservarli. Prima o poi troverete lo sguardo di cui parlo.
Fecero la spesa e poi si misero diligentemente in coda alla mia cassa. Ero sola, non potevo abbandonare la postazione e fuggire. Dovetti affrontarli, e fu tutto meno che piacevole. Sanguinai nell'animo e adesso posso dire il perché. Avevo già investito lui della capacità di potermi rendere uguale a tutte le altre. In parole spicce: ero convinta che provasse interesse nei miei confronti.
In qualche modo, irretita dall'abitudine che si perpetrava, riuscii a non mostrare la delusione. Rimasi la solita statua, con il solito lieve ghigno, gli occhi fissi sul monitor e le mani svelte. Merce, soldi, resto. Arrivederci e grazie.
Mai scorderò quando lui prese la borsa per portargliela e allungò l'altra mano. Lei gliela affidò e in un istante furono uniti, braccio con braccio, una cosa sola.
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Un mio grande pregio è che riesco a riprendermi abbastanza in fretta. Archiviai quella serata dopo qualche tempo di riflessione e razionalità. Ci pensavo, ma non mi spingevo mai fino in fondo. Galleggiavo in superficie, un petalo in uno stagno, pensando all'amore e al fatto che io, forse, non ero in grado di sentirlo, di prenderlo e tenerlo. Lo vedevo come una semplice attrazione che doveva giungere a me in un modo o nell'altro. Tendevo ad essere spettatrice e preda; mai mi sono comportata da predatore, né ho messo in tavola le mie vere intenzioni. E l'amore non perdona né ha pietà di questo genere di codardia.
Quella per lui si rivelò essere, dopo un'attenta analisi, un'infatuazione che doveva nutrire il mio ego disabituato e, pensando in questo modo, la superai.
Da quel momento cominciarono a venire in due, quasi si fossero convinti di aver passato una forca caudina. Magari si erano detti qualcosa, ma era impossibile che arrivassero a pensare al mio interesse verso di lui. Mai avevo cambiato il modo di trattarlo: nessuna moina, nessun ammiccamento prima della scoperta né tanto meno dopo.
Poi, per un lungo periodo, non li vidi più. Pensai che si fossero trasferiti, si fossero sposati, impegnati nel viaggio di nozze. La presa del loro pensiero su di me si allentò fino a sparire. Passarono l'autunno e l'inverno. Non li vidi ad Halloween; non li vidi il giorno dei morti. A Natale, fra quelli che mi fecero gli auguri, loro non c'erano.
La primavera venne con i cuscinetti ai piedi. D'un tratto mi accorsi che gli alberi non erano nudi, bensì ricoperti di gemme marroni dalla punta verde.
Alla prima pioggia, alla metà di marzo, le gemme divennero foglie ed esplosero in nuvole verdi. L'aria cambiò d'improvviso, riempita di odori diversi: fieno, erba tagliata, fiori, bucato. L'aria aveva una fisicità.
Lei comparve in una mattina di sole. Venne alla mia cassa, con i soliti capelli trascurati, più corti che in passato. Comprò yogurt, cioccolato e pane. Quando venne il momento di pagare eravamo sole, mancava un quarto alla una e a quell'ora si chiudeva per la pausa pranzo fino alle tre.
Iniziò a parlare del tempo e del cibo. Io risposi seguendo le onde dei suoi ragionamenti. Annuivo e parlavo, con lentezza. Ci fu un momento in cui lei spostò il discorso verso altri lidi. Lo capii subito: molte anziane lo facevano spesso e io ero brava in questo genere di riconoscimenti.
«Sono malata» mi disse, e io ammutolii.
«Mi dispiace tanto. Adesso come stai?»
«Non bene.» Mise nel portafoglio nero il resto che le avevo dato.
«Spero che tu guarisca presto» le augurai. Non le chiesi che cosa avesse, non lo chiedo mai, nemmeno con chi sono in confidenza. Non è disinteresse, ma in questi casi il confine è sottile: mi sembra di ledere la privacy, penetrando nelle loro ferite. Forse perché non ho mai voluto che quel genere di domanda venisse fatto a me. E perché le parole sono malvagie. Non esprimono mai il vero sentimento.
In quel caso lei pensò che, siccome ero una cassiera e ne sentivo tante, poteva confessarsi con me come se fosse davanti a un prete. Adesso direi che era un altro modo di considerarmi amica, di volermi accanto.
«Non credo che finirà bene. Ho la leucemia.»
Se fossi stata diversa le avrei chiesto come aveva fatto a scoprirlo, di che tipo di leucemia si trattasse, se aveva iniziato la chemioterapia e se c'erano speranze.
«Ho incominciato a stare male passato ottobre. Avevo sempre la nausea ed ero stanca. Per un po' ho pensato che fosse influenza e mi sono curata con la tachipirina. Poi sono andata dal medico. Mi ha prescritto degli esami: mi hanno chiamata subito dall'ospedale perché c'erano alcuni valori sballati. Ho dovuto fare altri prelievi, compresa la puntura lombare.»
«So che cos'è.» Cercavo di farle intendere che con me non era fiato sprecato, che capivo i termini medici che aveva iniziato a sciorinare. Non tutti hanno questo tipo di interesse: sfortunatamente io sono una di quelli che ha quel tipo di curiosità.
«Proveranno con la chemioterapia» disse, e mi guardò. Ma io avevo già visto quello sguardo, altre volte in altre persone. Ci sono occhi che non guardano nulla di fronte a certe notizie: vedono solo la fine. Non dimenticherò mai quello sguardo.
Mi salutò senza riprendere l'allegria. Le chiesi se potesse tenermi informata.
Per molti giorni cercai di immaginare lei e lui, la loro vita ridimensionata. Vivrà, morirà? Si sposeranno ora che gli è caduta addosso questa tegola? La vedrò ancora?
La vidi ancora.
Era quasi estate e le cose stavano precipitando. Lo capii appena la vidi. Non sarebbe sopravvissuta. Era una lucidità di pensiero aberrante, ma non riuscivo a scacciarla. Sembrava avere ancora i suoi capelli.
Venne da me mentre stavo sistemando delle scatole di brioches in corsia. «Hai un momento da dedicarmi?» mi chiese.
«Certo» risposi, e smisi di impilare la merce sullo scaffale. Avevo mentito: persino in quel momento pensavo al dovere, a finire prima possibile per poterla ascoltare con calma senza l'incombere del lavoro. «Come stai?» le domandai con tatto.
«Dopodomani mi ricoverano» disse a bassa voce. Non pianse davanti a me, si sforzava di non farlo. «So che forse è troppo presto per considerarci amiche, però vorrei chiederti un favore. Mi fido di te.»
Come poteva fidarsi? Non mi conosceva affatto, non avevamo nessun tipo di rapporto al di fuori di quello fra negoziante e cliente. Ascoltai.
«Se sono fortunata mi resta un mese, forse fino alla fine dell'estate. Non ho tempo. Quando non ci sarò più, vorrei che ti occupassi del mio ragazzo per un po'.»
Rimasi scioccata. «Cosa vuol dire?»
«Rimarrà solo. I suoi genitori abitano lontano e lui non vuole tornare a casa.» Non parlò mai dei suoi, di genitori. «So che i primi tempi saranno durissimi, è un uomo.» Una pausa. «Non devi fare niente di particolare. Non voglio che tu lo faccia vivere a casa tua... sarebbe assurdo.»
Non più di quanto lo era la proposta.
«Può darsi che venga da te alla sera o al pomeriggio, se non lavori. Vorrà parlare, magari, o avere compagnia.»
«Non avete altri amici?»
«Quando ci siamo fidanzati li abbiamo trascurati e non mi sembra giusto tornare adesso. Fra l'altro nessuno era contento che ci fossimo messi assieme. Ci sono state delle discussioni... sai come può essere.»
«Io sono un'estranea.»
«Lo so» disse. «Sarà un bene per lui.»
«Mi spiace, non mi sembra il caso.»
«Dico davvero, tu sei gentile. Gli piaci. Io e lui ne abbiamo parlato ed è d'accordo. Ha detto che riuscirebbe a parlare con te.»
Per un istante mi venne da chiederle perché. Quei perché che a rispondere con esattezza ci si mettono ore, dal momento che non esiste un'unica risposta risolutiva.
«Dovrei avere più tempo per pensarci...» dissi, indecisa come si può essere in quei momenti dove gli altri sembrano scoprire la tua debolezza e colpiscono dritto al centro, senza sbagliare.
«Mi puoi lasciare il tuo numero di cellulare? Mi daresti il tuo indirizzo?»
Sapevo che non si riferiva a quello dell'e-mail. «Va bene.»
Ricordo che andai alla cassa, strappai un pezzo del rotolino dove venivano stampati gli scontrini. Scrissi il mio nome e cognome, il numero di cellulare e l'indirizzo completo di cap.
«È più di quanto speravo. Ti ringrazio davvero» mi disse sorridendo. Se lo mise in tasca con una cura che mi fece sentire male. Sapevo di non poter tornare indietro. Avevo accettato per farle un favore, l'ultimo.
«Ti rivedrò ancora?» le domandai prima che mi salutasse.
«Lo spero» rispose, e allungò la mano. Gliela strinsi. Si avvicinò e ci demmo quegli insulsi baci sulla guancia, sempre due, senza significato. Sentii per la prima e ultima volta il suo profumo. Forse crema, forse sapone.
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Da quel giorno venne lui.
Si presentava alle ore più disparate, senza soluzione di continuità. Veniva quando non poteva stare in ospedale con lei. Se avessi calcolato bene i lassi di tempo fra una volta e l'altra avrei notato che c'erano ore in cui non lo vedevo mai.
Il primo incontro dopo il patto fu imbarazzante. Almeno per lui. Io indossai la mia bella maschera del dovere e passai indenne dalla forca. Lui arrossì. Bofonchiò qualche parola circa la merce che aveva comperato. Non gli chiesi se avesse con sé il mio numero di cellulare: l'avrei scoperto a breve, comunque. Ci salutammo come estranei; non c'era nulla che facesse presagire l'abbattimento in tempi brevi del muro che ci divideva. Entrambi timidi, entrambi vittime di una richiesta più grande di noi. Eravamo soverchiati dagli eventi e consapevoli.
Poco dopo il ventuno di giugno venne da me senza comprare nulla. Capii dallo sguardo che era giunta l'ora. Aspettò che terminassi la fila; chiesi il cambio, misi il cartello e uscii dal supermercato con lui.
Come potevo chiedergli «È successo»? Gli domandai: «Come sta?».
«Qualche giorno.»
«Così presto» aggiunsi, e non mi riuscì di dire altro. Fotografai il marciapiede con gli occhi al punto che potrei disegnarlo anche ora con le crepe, i ciuffi d'erba, le cartacce, quello che c'era scritto sulle cartacce e tutto il resto. Faceva caldo.
«Dovrei andarla a trovare.»
«No, non è necessario» rispose lui. «Nessuno, a parte le infermiere, può assisterla.»
«Oh.»
Era pomeriggio. Provai a convincerlo a farmi entrare in ospedale, ma lui disse sempre di no. Aveva ragione: non eravamo amici, non ci conoscevamo per niente.
Cercai di dirgli che se avesse avuto bisogno io ci sarei stata – avrei dovuto esserci comunque. Ma lo vidi: era troppo lontano per ogni mia parola.
Ci salutammo e lo osservai andare via, le spalle gravate, lungo il marciapiede che avevo fissato. Sparì dietro una curva, dietro gli alberi del viale. Per un po' vidi solo macchine che passavano lungo la strada asfaltata e dritta.
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Non lo vidi per molti giorni. D'improvviso, realizzai che era morta. Non sapevo bene né il giorno né l'ora: fu una specie di rivelazione, un suggerimento divino.
Avevo pensato che quando fosse morta, quella specie di peso che la sua presenza mi aveva dato sarebbe sparito. Invece lo sentivo lì, sopra la mia anima rattoppata come uno straccio bagnato, un fastidio giornaliero.
Lavoravo, tornavo a casa, pensavo. Leggevo le carte funerarie, senza vedere comparire il suo nome. Infine trovai il necrologio appeso su una bacheca, una di quelle davanti alla quale non passavo mai. Lì sopra, il verdetto definitivo.
Di lei avevo avuto notizie. Di lui nessuna. I giorni passavano e io riflettevo. Cominciai a pensare che me l'avesse lasciato come si affidano i cuccioli quando i padroni muoiono. Per lei non rappresentavo una minaccia. Tuttavia, era un'eredità difficile: fra tutti quelli che avrebbe potuto scegliere aveva optato per una sconosciuta abbastanza cortese e capace che non aveva legami con loro.
Proprio come Calipso, io vivevo sulla mia isola, con un gatto al posto delle capre. Il mio giardino era in fiore, l'orticello sul balcone profumava il muro e l'aria. La mia dimora era una grotta accogliente. Ma il mare rimase vuoto.
Quando non attendevo nulla, ecco che il naufrago comparve. Fu una sera: ero a casa di riposo, era giovedì. Suonarono al campanello e io capii che non poteva essere altri che lui. Scesi le scale e me lo trovai davanti, un'ombra al di là della porta a vetri.
Vestiva con una maglia nera e calzoncini da surfer blu. Ai piedi aveva sandali da frate. Io indossavo una maglietta color borgogna e una gonna di jeans. Ai piedi portavo scarpe da ginnastica, anche d'estate, anche in casa. Niente veli da ninfa, i capelli raccolti in una coda, tutti all'indietro, fermati con mollette diverse. Ero solo truccata, questo mi salvò dalla vergogna.
Sorrise e notai che aveva un sacchetto di plastica in mano. «Ciao.»
«Oh, ciao» dissi senza inflessione.
«Ho trovato subito la casa.»
«Meno male.»
Lo feci entrare. «Vai dritto sopra le scale, la prima porta sulla sinistra.»
Lo sentii: qualcosa di reale che camminava per le scale, riempiendo lo spazio. Aveva un odore particolare, il sottile profumo di qualcuno che ha appena finito la doccia, un rimasuglio di pulito e bagnoschiuma, senza colonia o altro. Non si era rasato, avevo visto la peluria ispida sulle guance e intorno alla bocca.
Lo seguii come se fossi una cameriera in casa mia. Si era fermato sulla soglia del soggiorno, e io gli sfilai davanti mostrandogli la cucina. Guardò in giro senza particolare indole famelica.
«Ho portato una vaschetta di gelato» disse, e la tolse dall'incarto. Era una comunissima vaschetta di gelato due gusti, cioccolato e fior di latte. Meglio della stracciatella o della fragola, per me.
Lo feci sedere e gli chiesi se volesse un the o dell'acqua. Non avevo birra né liquore. Mi domandai se avessi dovuto tenerne almeno qualche bottiglia di scorta, da lì in avanti.
Lui tolse una lattina di Heineken dalla borsa di plastica. «Mi sono arrangiato» disse, quasi allegro.
«Io non ho birra. Non la bevo.»
«Non fa niente. Mi piace anche il the in brick.»
So a cosa alludeva. Quando ero in pausa, chiacchierando con qualche signora fuori dell'ingresso del supermercato, ne bevevo sempre.
«Com'è andata, oggi?»
Cominciò così. Argomenti neutri, anime neutrali.
Con la conversazione ordinaria ci so fare: è un'arte che ho affinato nel tempo, mettere a proprio agio l'interlocutore. Non confesso quasi nulla di ciò che riguarda me: mi limito a intavolare discussioni usando tutto quello che so, facezie e pensieri intelligenti presi a prestito da ciò che leggo o sento. L'unico difetto di questa tattica è che si tratta di un meccanismo a tempo. Raramente evolve in rapporti più profondi.
Lui veniva quasi tutti i giorni, all'orario che sapeva più discreto. Non credo che gli sia mai capitato di presentarsi mentre ero ancora al lavoro o stessi facendo il bagno. Era quel genere di uomo che pensa prima di agire, che ha avuto una donna con la quale avere a che fare e che, pertanto, ha sviluppato il modo appropriato di trattare. È qualcosa che apprezzo, anche se sono consapevole che un uomo del genere ha nel passato l'impronta di una donna quindi, come direbbe un mio collega molto diretto, non è di primo pelo.
Portava sempre qualcosa, mai che l'abbia accolto a mani vuote. Non era Ulisse, che non possedeva nulla, nemmeno l'integrità della pelle che aveva addosso. Cioccolato, bibite, torte, una volta addirittura un piatto di carne di rosticceria e degli spaghetti cinesi.
Era fuoco, pura e semplice fiamma. E avvicinandola a una marionetta di paglia era impossibile che non bruciasse.
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Dimenticai presto la mia risoluzione.
Mi piaceva. Mi piacevano i suoi tatuaggi e i suoi capelli. Quello che mi raccontava del suo lavoro, le storie dietro ai disegni sulla pelle.
Sembrava che fossimo diventati amici: ci trattavamo con affettuosa cortesia: sapevamo che fra noi non c'era niente che conducesse al soddisfacimento carnale. Il dolore teneva a bada i suoi istinti, credo. Per ciò che riguardava me, il sesso non è mai stato al primo posto nella mia lista degli interessi. Eravamo una garanzia per chiunque avesse voluto esportare il falsissimo credo che "un uomo e una donna possono essere amici".
Ma mi piaceva. Era sempre stato così.
Eppure per lui ero solo la grotta di Calipso e mani calde. Ero un rifugio temporaneo prima di tornare all'abitudine, lo spazio dove indulgere prima di lasciare il legame con lei. Ero un luogo accogliente, sereno. Non avevo dolori esposti da spartire: potevo assorbire il suo.
Parlavamo di lei. Succedeva e basta, era per quel motivo che trascorrevamo del tempo insieme. Quello era ciò che lei avrebbe voluto, essere mantenuta viva attraverso le parole e i racconti. E per lui c'era molto da dire perché io non la conoscevo affatto.
Seppi tante, troppe cose di lei. Persino quelle che, francamente, in condizioni normali, avrei evitato di udire. Ma potevo sopportarlo perché era morta. Adesso era lei a non costituire un pericolo. Non che questo fatto cambiasse la situazione. Era una minuscola, spregevole consolazione.
Talvolta, dietro suo permesso, cucinavo per lui. Semplice pasta. Una volta uscì fuori una torta decente, un qualcosa che mi aveva fatto sudare: è da pazzi usare il forno pochi giorni prima di Ferragosto. La apprezzò e non fece paragoni. Riuscii a convincerlo a portarne a casa la metà restante.
L'estate proseguì e noi non uscimmo mai. Nessun cinema, nessun pub o concerto.
Tutto il mondo entrava e ruotava dentro la mia grotta. Lui viveva nel loro appartamento, aveva già ucciso due piante di gerani, pensava di prendere un cane. Si era affezionato al mio gatto che, per natura, è approfittatore e schizzinoso, e che non serbava gli stessi sentimenti per lui. Qualche volta il gatto usciva da sotto il letto per ascoltare stralci dei nostri discorsi; camminava un po' per il soggiorno standoci alla larga e poi tornava a infilarsi nel suo nascondiglio. Altre volte si metteva sul balcone e stava lì come una statua annoiata.
Quando le sere divennero più corte, comparve l'abitudine di guardare la televisione. Ad entrambi piacevano alcune serie tivù americane e, quando le trasmettevano, ci buttavamo su quelle. Spesso, però, lasciavo scegliere a lui di guardare film d'azione o noiosissimi lungometraggi di samurai. Sport. Altre volte toccava a lui essere straziato dalle mie scelte. Quando capitò che esprimessi il desiderio di guardare qualche vecchio cartone animato non mosse obiezioni. Si divertì e si annoiò. Succedeva a turno.
Quelle erano le sere migliori, cercavamo di adeguarci a ciò che faceva il mondo esterno, almeno in parte.
Capitava che ascoltassimo musica rock o punk. Alla fine di agosto portò un cd di Bob Marley e trasformammo la cucina in una spiaggetta giamaicana. Senza marijuana né sigarette. Nessuno di noi tre aveva mai fumato in vita sua.
I tempi peggiori capitavano quando indugiavamo su di lei. Era abbastanza prevedibile. Se il bagliore del tramonto svaniva, non accendevamo le lampadine. Un po' per le zanzare, spesso per merito di lei. Parlavamo al buio con la sola luce del lampione più vicino che penetrava a scaglie dalla tapparella. Ero sicura che a lui non piacesse che io lo vedessi piangere. Era sufficiente ascoltare le interferenze nel suo respiro per accorgersene.
A lei piacevano il gelato, la cucina italiana e giapponese, il giardinaggio, i cani, fare gite fuori porta in macchina o in bicicletta. Mare o montagna non facevano differenza per una vacanza. Insieme erano stati a Londra, Parigi, in altre città europee. Avevano girato un po' l'Italia, ma non come avrebbero voluto. Avevano partecipato a qualche raduno motociclistico perché a lui piaceva quel genere di cose.
Era indubbio che lei avrebbe avuto un peso sulla sua coscienza per molto tempo a venire: lui l'aveva amata e continuava ad amarla com'era giusto, precludendosi ogni altra possibilità.
Dal canto mio, settembre aveva portato la rassegnazione. Settembre fu Mercurio e io dissi «Sì». Obbedii senza protestare a una legge più tenace di me che proveniva da qualche parte del destino.
Ancora adesso non azzarderei ad affermare che siamo migliori amici, nonostante lui, sono certa, non abbia mai pensato il contrario o avuto dubbi di sorta.
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Quando arrivò l'inverno, parte della sua ferita era bianca e cicatrizzata. Avevo compiuto la mia parte di dovere e continuavo a farlo.
A differenza dei primi tempi, quando lasciava la mia casa sull'orlo dell'abisso del pianto – potevano essere le undici, mezzanotte, la una se arrivava di sera, o le otto, nove se veniva di pomeriggio – ora potevo affermare che la sua salute era migliorata.
Lo capii quando lo sentii dire che la domenica successiva sarebbe andato con degli amici – l'avevano contattato dopo aver saputo del lutto – in un posto che non ricordo. Mi sembrò di ricevere una coltellata, poi la ragione mi disse che dovevo essere felice. Forse quella sensazione apparteneva allo spettro che traghettavamo con noi durante il tempo trascorso insieme. Non lo so, dopo quella volta la sensazione non comparve più.
Lo lasciai andare. La sua direzione era incerta, la barca faceva acqua. Stetti a vedere dall'alto della mia scogliera. I nostri incontri non si diradarono, ma presero sempre meno tempo, fino a che, all'anniversario della morte di lei, mi portò al cimitero. Un avanzamento?
No. È scritto che Ulisse parta e torni a Itaca. Così accadde.
Fu un processo lento.
A tutt'oggi, capita che lo veda ancora. Si presenta, come sua abitudine, a casa mia, oppure viene a fare la spesa dove lavoro. Ci trattiamo con affetto, parliamo. È come se fosse diventato mio fratello, nonostante io abbia il terrore che trovi qualche altra ragazza. Non so nulla della sua vita al di fuori della grotta, ma temo stia sondando il terreno alla ricerca di una donna simile a lei. L'ho capito da mezze frasi: gli uomini come lui sono pessimi bugiardi. Ho fatto la gnorri.
Nelle sere in cui non ci vediamo, mi capita di pensare a loro. Mi spiace per lei, adesso posso dirlo davvero. Mi spiace per lui, ma è vivo e può accomodare le cose, se lo vuole. Anch'io sono viva e ho le stesse possibilità.
Resto la grotta di Calipso, ma spero che esista un navigatore che non abbia fretta di tornare ad Itaca o in qualunque altro posto abbia lasciato qualcosa che non si può dimenticare.
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