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Capitolo 4: La cella

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L'aria era densa di freddo e neve quando il gruppo finalmente raggiunse il regno di Harald. Le mura della fortezza, costruite con pietre scure e robuste, sembravano una parte delle montagne che si ergevano alle loro spalle, alte e minacciose. Le fiaccole appese agli spalti proiettavano lunghe ombre sulla neve, e il silenzio, interrotto solo dal rumore dei cavalli e dai passi affondati nel gelo, era soffocante.

Dopo giorni di marcia, sfidando temperature estreme e vento tagliente, l'arrivo a Rogaland fu una tregua per i guerrieri, stremati dal viaggio e dalle battaglie. Harald e i suoi uomini avevano sfidato l'inverno per compiere la loro missione e tornavano con la gloria della vittoria sulle spalle. La festa che li attendeva all'interno della grande sala sarebbe stata ricca e abbondante, come ricompensa per il coraggio dimostrato. Per Ingrid, però, il ritorno nella fortezza segnava solo l'inizio di una nuova prigionia.

«Portatela via,» ordinò Halfdan, il tono tagliente mentre indicava Ingrid, ancora incatenata e indebolita dal viaggio. Alcuni uomini la presero per le braccia, spingendola in avanti senza alcuna delicatezza.

Non le fu concesso di entrare nella sala principale dove i festeggiamenti erano ormai imminenti. Invece, la trascinarono attraverso un corridoio buio e umido, conducendola fino a una stanza piccola e fredda che ricordava più una cella che un alloggio. Le catene le vennero rimosse, ma la porta si chiuse dietro di lei con un rumore secco, lasciandola da sola, circondata da mura di pietra.

L'unica luce proveniva da una piccola finestra in alto, che lasciava entrare solo un soffio gelido di vento e un flebile bagliore lunare. Ingrid si avvicinò alla finestra, le mani tremanti dal freddo e dalla stanchezza, guardando fuori verso il cortile della fortezza. Da lì, poteva vedere le fiamme delle torce e udire, in lontananza, il rumore delle celebrazioni che avevano già avuto inizio. I guerrieri ridevano, cantavano e brindavano alla vittoria. Per loro, la battaglia era finita; per Ingrid, stava appena cominciando.

Sospirò, avvolgendosi stretta nel mantello logoro che aveva ancora addosso. La stanchezza le pesava sulle spalle, eppure la sua mente non si fermava. Aveva bisogno di riposare, ma sapeva che non sarebbe riuscita a dormire facilmente. Ogni movimento nel silenzio di quella stanza le sembrava una minaccia. Ma Ingrid non era il tipo da cedere al panico: se voleva sopravvivere, avrebbe dovuto trovare il modo di usare la sua astuzia. E, sebbene fosse sola e lontana da casa, il pensiero di suo padre e della sua terra le dava la forza di resistere.

Il freddo si insinuava nelle ossa, rendendo difficile anche solo restare immobile. Ingrid si accucciò su una piccola panca di legno nell'angolo della stanza, stringendosi le gambe al petto nel tentativo di trattenere il calore. Si sforzò di chiudere gli occhi, ma la fame e il dolore le impedivano di rilassarsi. I giorni di prigionia si stavano facendo sentire, e ogni parte del suo corpo le ricordava la brutalità del viaggio.

Fu allora che sentì un leggero cigolio provenire dalla porta. Si irrigidì, pronta a reagire, ma invece di una guardia o di un guerriero, entrò una figura minuta e silenziosa. Una giovane donna, con lunghi capelli biondi intrecciati, chiuse la porta dietro di sé, muovendosi con la cautela di chi sa di non dover essere visto.

Ingrid la osservò con sospetto, ma la ragazza le sorrise dolcemente e si avvicinò, portando con sé un piccolo vassoio con del cibo. Un pezzo di pane e una ciotola di stufato fumante.

«Non dovresti stare senza mangiare,» sussurrò la giovane, posando il vassoio davanti a Ingrid. «Nessuno sa che sono qui. Mangia, prima che qualcuno se ne accorga.»

Ingrid la fissò, sorpresa dalla gentilezza. La sua mente era abituata a sospettare, ma l'odore dello stufato era così invitante che la fame prese il sopravvento. «Chi sei?» chiese, mentre prendeva il pane con mani tremanti.

«Mi chiamo Astrid,» rispose la ragazza, sedendosi accanto a lei. «Lavoro qui, ma non mi piace vedere qualcuno soffrire, nemmeno i prigionieri.»

Ingrid rimase in silenzio per qualche istante, osservando Astrid. Sembrava sincera, e la sua voce era calma, quasi confortante. «Grazie,» mormorò, spezzando il pane e mangiando lentamente. Il calore del cibo le diede un sollievo immediato, ma non distolse la sua attenzione dal fatto che era ancora in una cella, lontana da casa, e circondata da nemici.

«Non preoccuparti,» disse Astrid con un sorriso incoraggiante. «Non resterai qui per sempre. Le cose cambiano, e a volte in meglio.»

«Ne dubito,» rispose Ingrid con una punta di amarezza. «Ma apprezzo quello che stai facendo.»

Astrid si alzò, sistemando il mantello e facendosi verso la porta. «Ricorda, c'è sempre qualcuno disposto ad aiutare, anche nei posti più bui. Non sei sola, Ingrid.»

Ingrid la guardò sparire nell'oscurità del corridoio, mentre il silenzio tornava a riempire la stanza. Le parole di Astrid rimasero con lei, come una piccola scintilla in mezzo all'oscurità. Non sapeva se poteva davvero fidarsi di quella ragazza, ma in quel momento, quel piccolo gesto di gentilezza era tutto ciò che aveva.
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Il sole pallido del mattino filtrava a fatica tra le nubi grigie, portando con sé un freddo pungente che sembrava non voler mai abbandonare quelle terre. Ingrid non aveva chiuso occhio quella notte, nonostante il calore temporaneo del cibo che Astrid le aveva portato. Le domande le tormentavano la mente, e il silenzio glaciale della cella non faceva altro che amplificare le sue paure. Il pensiero di suo padre, Ulf, il valoroso conte di Vestfold, era diventato una spina nel fianco.

Perché non è venuto a cercarmi?
Quella domanda le rimbombava in testa da ore. Suo padre non era un uomo che fuggiva da una battaglia, men che meno quando sua figlia era stata catturata. Eppure, non c'era stato alcun tentativo di salvarla, nessun segno del suo esercito all'orizzonte. L'incertezza cominciava a divorare il suo orgoglio e la sua fiducia in lui. Era come se il mondo intero avesse smesso di avere senso, e la sensazione di abbandono le serrava il petto.

Il rumore di passi pesanti nel corridoio la riportò alla realtà. Ingrid alzò lo sguardo verso la porta della cella proprio mentre questa si spalancava, lasciando entrare una luce accecante. Due figure imponenti entrarono nella stanza. Il primo era Halfdan, con la sua solita espressione sprezzante e il passo fermo, ma fu la seconda figura a catturare completamente l'attenzione di Ingrid.

Harald Finehair, l'uomo che sognava di diventare re di tutta la Norvegia, la osservava con occhi attenti. Era più basso e massiccio di suo fratello, ma c'era un'aria di calma e controllo che lo distingueva da Halfdan, la cui natura più selvaggia e impulsiva era evidente in ogni movimento.

Harald si avvicinò a lei, piegandosi leggermente per guardarla da vicino. «Ingrid, figlia del conte Ulf,» iniziò, la voce profonda e ferma, «devo ammettere che sei stata una prigioniera sorprendentemente tranquilla. Ma oggi abbiamo bisogno di risposte.»

Ingrid incrociò le braccia al petto, cercando di nascondere la sua tensione. Sapeva che sarebbe arrivato quel momento, ma non era pronta a cedere. «Cosa volete sapere?»

Halfdan si avvicinò bruscamente, il viso a pochi centimetri dal suo. «Dove si nasconde tuo padre? Dove ha portato il suo esercito?»

Ingrid si sforzò di mantenere lo sguardo dritto, senza distogliere gli occhi da quelli di Halfdan. «Non lo so,» rispose con fermezza. «Non so dov'è. E anche se lo sapessi, non ve lo direi.»

Halfdan strinse la mascella, trattenendo un'imprecazione. La sua mano si mosse minacciosamente verso l'elsa della spada, ma Harald lo fermò con un gesto calmo, ma deciso.

«Non c'è bisogno di minacciare, fratello,» disse Harald, voltandosi verso Halfdan con un sorriso ironico. «Non è così che otterremo ciò che vogliamo.»

Harald si sedette su un piccolo sgabello di legno nella cella, rilassato, come se fosse lì per una conversazione casuale. «Ingrid, non ci stai dicendo tutto. Tuo padre non avrebbe abbandonato la sua terra senza un piano. E sicuramente non avrebbe lasciato te, sua unica figlia, nelle nostre mani senza un motivo. Cosa sta tramando?»

Ingrid scosse la testa, più a se stessa che a loro. «Non lo so,» ripeté, ma questa volta la sua voce era meno sicura. Il dubbio che aveva cercato di ignorare durante la notte tornava a farsi sentire. Perché suo padre non era tornato? Perché non aveva fatto nulla? L'idea che potesse esserci qualcosa di più grande dietro il suo silenzio cominciava a insinuarsi nella sua mente.

Halfdan, notando il suo momento di esitazione, le si avvicinò di nuovo, questa volta con un tono meno aggressivo, ma altrettanto pressante. «Ingrid, tu sei forte e intelligente. Lo vedo. Ma se pensi davvero che tuo padre non abbia un piano, ti stai illudendo. Non lascerebbe mai un'erede come te nelle mani del nemico senza un motivo. Forse non ci stai dicendo la verità perché tu stessa non la conosci.»

Le parole di Halfdan la colpirono come un fulmine. E se fosse vero? Forse suo padre non era fuggito. Forse si era ritirato per riorganizzarsi, o peggio, per fare qualcosa che lei non riusciva a comprendere. Il silenzio da parte sua era insopportabile, ma non sapeva cosa fare con quelle nuove paure che le stavano nascendo dentro.

«Non ho idea di dove possa trovarsi,» mormorò infine, più per se stessa che per loro. «Ma se avesse avuto un piano... me l'avrebbe detto, no?» Una punta di incertezza cominciava a fare breccia nella sua corazza di sicurezza.

Harald si alzò, avvicinandosi a lei con un sorriso enigmatico. «Tuo padre è un uomo furbo, Ingrid. Non c'è nulla che ci sorprenda più della famiglia. Forse ti ha lasciato qui per un motivo che ancora non conosci. Ma sappi questo: che tu lo voglia o meno, ora sei parte di questa storia. E se collabori con noi, potresti ricavarne vantaggio, ma se proverai a pugnalarci alle spalle....» Quella frase venne lasciata volutamente in sospeso, come se volesse sfidare la mente della guerriera a pensare a delle conseguenze disastrose.

Ingrid abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Le parole di Harald erano insinuanti, ma piene di una logica crudele che non poteva ignorare. Suo padre l'aveva davvero abbandonata? O c'era qualcos'altro in gioco? Forse era un trucco dei fratelli per farla crollare?

Halfdan, vedendo che la pressione di Harald stava facendo effetto, si voltò verso il fratello con un sorrisetto soddisfatto. «Vedrai, fratello, non abbiamo bisogno di torturare nessuno. Le risposte verranno da sole.»

Harald annuì lentamente, poi tornò a guardare Ingrid. «Pensa a quello che ti abbiamo detto. Potresti scoprire che abbiamo più in comune di quanto tu creda.» Detto ciò, fece un cenno a Halfdan, e i due uomini lasciarono la cella, chiudendo la porta con un tonfo pesante.

Ingrid rimase sola, le mani tremanti mentre si massaggiava le tempie. Per quanto volesse odiare entrambi, sapeva che c'era una parte di verità nelle loro parole. Ma quale verità? Quella che suo padre aveva un piano... o quella che l'aveva abbandonata senza spiegazioni?

Si lasciò scivolare lentamente a terra, le spalle appoggiate alla fredda parete della cella. Le parole di Harald e Halfdan continuavano a rimbombarle nella mente, e per quanto volesse respingerle, non poteva fare a meno di considerarle. In quell'epoca, non era raro che le famiglie si tradissero tra di loro. Lei stessa aveva sentito racconti di padri che sacrificavano i propri figli per il potere, di fratelli che si pugnalavano alle spalle per un trono o per una manciata di terre in più.

Il potere aveva un modo di corrompere le anime, trasformando uomini che un tempo erano onorevoli in creature spietate, disposte a tutto per ottenere ciò che desideravano. I re e i signori della guerra non vedevano legami familiari come un vincolo sacro, ma piuttosto come un'altra arma da usare a proprio vantaggio. Ulf era sempre stato un uomo forte e strategico, ma anche lui non era immune all'ossessione del potere.

Ingrid si abbracciò le ginocchia, lo sguardo fisso nel vuoto. E se anche suo padre fosse caduto preda di quella stessa sete di potere? L'idea la faceva rabbrividire. Non poteva credere che Ulf l'avrebbe mai tradita... eppure, in quel mondo crudele, la lealtà poteva essere fragile. Essere la figlia del conte non la rendeva immune al tradimento, nemmeno da parte della sua stessa carne e sangue.

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