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Aeterna fama

Tu quoque litoribus nostris, Aeneia nutrix, aeternam moriens famam, Caieta, dedisti.

Tu pure ai nostri lidi, nutrice di Enea, morendo desti, Caieta, eterna fama.

[Virgilio, Eneide, capitolo VII, vv 1-4]


Non rividi mai più il lupo dopo averlo sognato la notte successiva all'incontro con Camille nel Santuario. E non sapevo se questo fosse un bene o un male.

Nella settimana seguente, con l'aiuto di Chrysta e zio Magnus, cercai di dare un'interpretazione a ciò che avevo sognato, ma l'unica cosa che emerse fu la già assodata certezza che quel licantropo avrebbe avuto una grande importanza per me. Il fatto che poi nel sogno fosse comparso anche il simbolo della famiglia di Jean mi fece pensare che il mannaro mi avrebbe aiutato con quella questione, nonostante per il momento restassero solo congetture.

La mancanza di qualcosa su cui indagare e per la quale scervellarsi si fece sentire, e le giornate – che andavano man mano allungandosi – divennero sempre più pesanti. Nemmeno le retate nei tunnel della metropolitana e nei vicoli di Manhattan in cerca di demoni da ammazzare servirono a molto, così come gli estenuanti allenamenti con Sikh, i quali, però, almeno ci facevano crollare dalla stanchezza non appena toccavamo il materasso.

Ma una fresca mattina di metà aprile a zia Isabelle venne l'idea del secolo: pulizie di primavera, in rigoroso stile mondano, in tutto l'Istituto.

Ordinò a zio Magnus di far comparire scope, stracci, secchi, detersivi e quant'altro, si armò di vecchi vestiti e una bandana per i capelli e iniziò a commissionare incarichi a chiunque avesse più di dodici anni, ossia praticamente l'intero Istituto meno i figli di una coppia in permesso da Toronto. In teoria anche Jordan il cagnolino, che di anni ne aveva quattro, sarebbe dovuto rimanere fuori dai giochi; tuttavia zia gli attaccò un deodorante al collare e lo mandò in giro per i corridoi a profumare gli ambienti.

A me e Logan fu dato l'ingrato compito di staccare le tende da tutte le stanze del primo piano. Impresa facile, se le sopracitate tende non fossero state piene di polvere e Logan tremendamente allergico agli acari. Per fortuna la sua allergia era una di quelle che causavano solo improvvise e violente raffiche di starnuti e non peggio, come, non so, gola gonfia o shock anafilattico.

E poi, era bello poter passare un po' di tempo con mio cugino. Prima che arrivasse Jean avevo una spaventosa cotta per lui, e anche se ora non provavo più quei sentimenti nei suoi confronti era comunque affascinante osservarlo mentre si allungava verso l'alto per sfilare un bastone dal supporto oppure si aggiustava un ciuffo ribelle. Al collo portava ancora la catenina d'oro con appeso il suo primo plettro, e al dito l'anello dei Lewis con la stella di Davide infuocata.

Mi capitò di spostare lo sguardo sul suo avambraccio. L'incavo del gomito era l'unico punto in cui non c'erano rune. Quello infatti era il posto riservato alla runa parabatai.

In quel periodo le discussioni tra i gemelli sull'argomento erano più frequenti del solito. Trish non la finiva di supplicare Logan e lanciargli ogni genere di frecciatine, ma lui continuava ad essere titubante.

Che due fratelli diventino parabatai è raro, ma pur sempre possibile. Immagino che due persone che sono già cresciute insieme non vogliano essere legate l'una all'altra per l'eternità da una promessa tanto potente e straordinaria che implica accollarsi un impegno al quale non si può mancare.

Logan sosteneva che il legame parabatai non li avrebbe avvicinati ma allontanati. Trish, la minore, cercava da sempre di emanciparsi e farsi notare al di là del duo "gemelli Lewis", e il legame non avrebbe fatto altro che indebolirla. Lei controbatteva – a volte quasi urlando – che avrebbe potuto emanciparsi anche se fosse stata la sua parabatai e che, anzi, in quel modo chiunque l'avrebbe guardata sotto una nuova luce, per cui Logan doveva solo starsene zitto e smetterla di accaparrare scuse.

Personalmente, notavo tra di loro quella particolare affinità che caratterizza i parabatai anche senza che lo fossero veramente, per cui mi meravigliavo che Logan fosse tanto restio a partecipare alla cerimonia. Come parabatai sarebbero stati più agili, più veloci, più forti; in una parola, sarebbero stati migliori. E mi sbalordiva che proprio Logan, il quale aspirava al meglio da quando era nato – o meglio, riteneva di essere tenuto a farlo in quanto figlio di due eroi della Guerra Oscura – rifiutasse una tale occasione.

Come compromesso aveva acconsentito a non marchiarsi nell'incavo del gomito in attesa della runa parabatai, che forse non vi sarebbe mai stata tracciata. Trish aveva fatto lo stesso nel medesimo punto. Avevano ancora un anno per decidere; chissà se la vacanza in Italia avrebbe aiutato anche loro a maturare una scelta.

Sulla mia, di scelta, per il momento non avevo dubbi: sarei diventata una Sorella di Ferro. Ora come ora, non volevo altro che scappare da una società che mi stava stretta e fuggire dal mio passato. Certo, mi rendevo conto delle conseguenze che avrei causato unendomi alla Sorellanza, ma ormai ero quasi maggiorenne e avevo tutto il diritto di stabilire cosa fare della mia vita, che la mia famiglia lo volesse o no. Almeno, prima di andarmene avrei potuto vedere l'Italia.

In quei giorni, molte delle mie visioni riguardavano l'Italia. Uno scorcio di mare, dei gabbiani che si alzavano in volo, l'interno di un ristorante e, strano ma vero, qualcosa che somigliava ad un casinò. A giudicare da quanto avevo visto e percepito, la vacanza sarebbe andata abbastanza bene. Con qualche eccezione, certamente.

E la prima di queste si presentò proprio alla partenza dall'aeroporto di New York.

~ • ~

Per colpa mia quasi perdemmo l'aereo.

Avevamo salutato zio Simon all'ingresso del terminal e fatto il check-in, e stavamo aspettando che chiamassero dagli altoparlanti il nostro volo seduti di fronte ad una filiale di Starbucks. Logan studiava degli spartiti, Trish scaricava informazioni su Gaeta in italiano e Chrysta sfogliava l'ultimo numero di Vogue. Io mi limitavo ad osservare le persone che correvano da una parte all'altra del corridoio trascinandosi dietro trolley e figli urlanti, mentre cercavo di non pensare che avrei dovuto passare sette/otto ore senza toccare terra.

Mio cugino non avrebbe potuto avere un'idea migliore. Vacanze rigorosamente mondane. Comportamento mondano, mezzi mondani, solo lo stilo e un pugnale di riserva in tasca. (Ovviamente nelle valigie avevamo anche altre armi, nascoste dagli incantesimi di zio Magnus e Chris. Si sa, la prudenza non è mai troppa).

Alle sette precise – miracolo! L'aereo non era in ritardo! – la voce sensuale di un'hostess annunciò ai passeggeri del volo 673 New York-Roma Fiumicino delle sette e trenta di presentarsi al gate per l'imbarco.

Fatto sta che Logan aveva preso fischio per fiasco e ci aveva portati dalla parte opposta rispetto a dove avremmo dovuto essere.

Ci guardammo in faccia per un secondo, poi iniziammo a correre.

A metà strada, avvertii una fitta all'addome e inciampai.

Raramente le mie visioni avevano un carattere tragico o drammatico. E ancora più raramente vedevo scene del genere. Scene di morte.

Capitava una volta ogni morte di Papa, inoltre, che provassi tanto dolore fisico.

Mi accasciai a terra, le mani premute sullo stomaco, in preda a tremendi crampi. Notai che le vene erano diventate luminescenti e attraverso la pelle s'intravedeva il sangue scorrere.

Trattenni un urlo e intimai a Chrysta di nascondermi alla vista dei mondani. Fu l'ultima cosa che feci prima di catapultarmi nel futuro.

~ • ~

Mi trovavo in una sorta di studio; lo capivo grazie alla presenza di una massiccia scrivania in legno sotto la mia schiena, alla quale ero legata per i polsi e le caviglie. C'era anche qualcos'altro sulla scrivania, qualcosa di caldo e vivo, forse un grosso cane, che ringhiava e a tratti guaiva.

Percepivo, oltre al mio e a quello dell'animale, tre battiti, tre cuori che palpitavano in modo irregolare. Riuscivo quasi a sentire il suono del sangue che sfrecciava nei loro corpi.

Poi tutto accelerò. La scena prese a scorrere velocemente davanti ai miei occhi, fotogramma dopo fotogramma, come in uno di quei vecchi film muti in bianco e nero.

Adesso, oltre a sentire il suono del sangue, ne sentivo anche l'odore, ferroso e intenso. Per fortuna non era il mio, ma non era nemmeno normale sangue umano o Shadowhunter. Era più... primordiale, antico, ed evocava immagini di fitte foreste e boschi bui.

Urlavo. Urlavo a squarciagola. Urlavo in una lingua completamente diversa dall'inglese, una lingua che non ero sicura di conoscere, e urlavo una sola parola che in qualche strano modo collegavo allo zio Simon.

Urlavo perché qualcuno aveva sparato, sparato con estrema precisione, e qualcuno era morto.

E urlavo perché qualcun altro era stato pugnalato, e stava morendo.

~ • ~

Chrysta purtroppo non era riuscita a compiere l'incantesimo in tempo. Venni beccata da uno degli addetti alla sicurezza dell'aeroporto, che mi portò di peso nell'infermeria non appena ebbi ripreso conoscenza.

Il medico mi sottopose agli esami di routine, e dopo un quarto d'ora che sembrò durare un'eternità mi giudicò idonea al viaggio. Mi rendo conto che avrei dovuto ringraziarlo o perlomeno non guardarlo male per averci fatto rischiare di perdere l'aereo, ma la visione mi aveva lasciato talmente stanca e irritabile che per poco non gli mostrai anche il dito medio.

Durante il tragitto perlopiù dormii o sonnecchiai per riprendere le forze. Quella visione mi aveva inquietato a tal punto da non riuscire a pensare ad altro, così, semplicemente, decisi che non ci avrei pensato e chiusi gli occhi. Per fortuna non venne a perseguitarmi anche in sogno.

Il sogno però fu ugualmente scioccante.

Sognai la mia famiglia. Mamma, papà e persino Jon, che in teoria non avrebbe potuto essere dov'era, stavano partecipando ad una riunione del Consiglio ad Alicante. Come sempre da un po' di tempo a quella parte, la discussione verteva sugli omicidi di tre Nascosti – un vampiro e due lupi mannari – sul suolo di Idris, ancora irrisolti.

Omicidi di cui sia io che la mia famiglia sapevamo qualcosa, io più di loro. Ma nessuno di noi avrebbe tirato fuori la questione e il nome del colpevole fin quando in sala era presente anche Jean Argentsang, o almeno uno dei suoi fedeli – che erano davvero tanti. Se l'avessimo fatto, lui avrebbe spostato l'attenzione di tutti su di me, su di noi, accusandoci di occultamento di reato. E se la sarebbe cavata alla grande, uscendone con le mani pulite e pronto a continuare la sua ascesa al potere.

Evitavo di pensare che un giorno al posto di mio nonno ci sarebbe stato Jean. Sì, ne ero certa. Avevo... i miei motivi per esserlo.

Prima che succedesse quello che era successo, osservavo Jean ammaliata e intrigata dai suoi discorsi su come avrebbe cambiato le carte in tavola, da Inquisitore. Non aspirava al ruolo di Console; non voleva essere la mente, ma il braccio.

Era sempre stato un tipo molto pratico, nonostante a volte si perdesse nei suoi pensieri. Una sera, mentre danzavamo al suono di un quartetto d'archi, mi disse che attribuiva questa sua caratteristica al suo passato da ballerino: non si balla mai bene se non si resta a pensare, ma è altrettanto controproducente comportarsi come una macchina ripetendo ogni movimento automaticamente e non lasciandosi trasportare dalla musica.

Non dubitavo che avrebbe raggiunto i suoi obiettivi, che, persino alla luce delle sue più recenti azioni, continuavo a considerare retti e giusti. Dubitavo piuttosto sui metodi che avrebbe utilizzato per raggiungerli.

Dopo che aveva conosciuto quell'ambiguo forestiero e questi l'aveva portato con sé fuori da Idris per un'estate intera, Jean era cambiato. Non avevo idea del perché, ma vi era sicuramente implicato lo straniero.

Tornato ad Alicante, Jean aveva smesso di cercare suo padre.

Non l'aveva mai fatto. Mai.

E già questo avrebbe dovuto far suonare il mio campanello d'allarme.

A mia discolpa, posso dire che ero troppo innamorata per accorgermene.

Troppo innamorata anche per rendermi conto che lui aveva smesso di amarmi.

~ • ~

Tutte queste riflessioni mi attraversavano la testa in quei pochi minuti in cui ero sveglia. Quando un'hostess comunicò di allacciarci le cinture poiché eravamo in fase d'atterraggio, immaginai di infilare in una scatola qualsiasi cosa riguardasse Jean e poi chiuderla fissandola con una tonnellata di nastro adesivo.

Era quanto di più simile ad una cassaforte potessi creare. Per il momento, non ne avevo le forze. Pregai perché un giorno, finalmente, riuscissi ad acquisirle.

Scesa dall'aereo e toccato il suolo italiano per la prima volta, buttai mentalmente una pietra sulla scatola. Ero in Italia ormai, e i seguenti tre mesi sarebbero potuti essere gli ultimi che passavo da normale Shadowhunter, perciò feci silenziosamente voto di pensare solo e soltanto a me stessa. Jean ed annessi e connessi sarebbero rimasti a Idris.

Logan ci fece strada fino al check-out, orientandosi grazie ai milioni di cartelli informativi scritti in italiano, inglese, arabo, greco, russo e cinese. Mangiammo qualcosa, poi ritirammo le nostre valigie – menomale che c'erano tutte – e seguimmo nuovamente Logan per una miriade di corridoi, che alla fine ci portarono in una stazione ferroviaria all'interno dell'aeroporto.

— Andiamo in treno fino a Formia, poi lì prenderemo un autobus per raggiungere Gaeta — spiegò Trish, controllando gli orari degli arrivi. — Dovremmo partire tra cinque minuti.

Magari fossero stati solo cinque minuti. Il treno arrivò dopo tre quarti d'ora esatti, senza che il ritardo venisse annunciato.

— Benvenuti in Italia — brontolò Logan.

Due ore dopo eravamo a Formia. A parte i passeggeri del nostro treno, in stazione non c'era quasi nessuno. Gli orologi dei nostri cellulari – che nel frattempo si erano settati sul fuso orario italiano – segnavano mezzanotte e mezza.

Per fortuna l'autobus era già lì. Non che quindici minuti facessero una grande differenza, considerato il ritardo di Fiumicino, ma non avevo voglia di starmene ancora seduta a far niente. E poi, volevo assolutamente vedere Gaeta.

Gaeta non mi deluse. Niente di speciale: una piccola cittadina circondata per tre lati dall'acqua, ex repubblica marinara. Ma era meravigliosa.

La prima immagine che ebbi del paese, visto dalla spiaggia di Vindicio, fu un mandolino spaccato a metà per la lunghezza immerso in un mare azzurro e calmo, popolato da stormi di gabbiani. La luna si rispecchiava nell'acqua, rendendo il paesaggio simile a un quadro impressionista.

Mi formicolavano le dita, e mi ritrovai a disegnare ghirigori invisibili sulla mia coscia. Quanto avrei voluto avere il tablet – o anche un foglio e una matita – a portata di mano, in quel momento!

Non appena l'autista svoltò una curva e un cartello annunciante "Villa Irlanda – Hotel & Restaurant" comparve nella nostra visuale, Gaeta mi apparve come un mostro marino dormiente, con metà del corpo in acqua, che aspetta il momento propizio per svegliarsi e trasportare tutta la cittadina e i suoi abitanti all'altro capo del mondo.

Mi tornò in mente uno dei miti greci che amavo tanto ascoltare da piccola, seduta in braccio a papà di fronte al caminetto: la storia dell'isola galleggiante di Delo, dove Leto partorì Artemide e Apollo.

Lungo la strada, occhiai lo scheletro di un vecchio cantiere navale e i resti di una fabbrica, della cui insegna s'intravedevano solo una P, una O e una G.

— Era la Pozzi Ginori — mi spiegò Chrysta, notando dov'era diretto il mio sguardo. — Produceva sanitari e altri oggetti in ceramica e porcellana; molto tempo fa erano famosi i piatti e le mattonelle decorati a mano.

Mi indicò un edificio che avevamo sulla destra. — Quella, invece, è la dogana. E più dietro, dove si trova quel murale del bambino circondato dai giocattoli, ci sono i Vigili del Fuoco.

— Come fai a sapere tutte queste cose?

— In realtà non sono io a saperle, ma Trish.

— Esattamente — confermò la diretta interessata dal sedile dietro il mio. — Ho iniziato a passarle informazioni mentre sorvolavamo il Mediterraneo. Ho scaricato parecchia roba al JFK, e poi a Fiumicino ho, diciamo così, hackerato un sito di prenotazioni per trovare un algoritmo che ha automaticamente selezionato i locali e i ristoranti migliori.

Sentii Logan ridere. — Sei terribile.

— Non per niente il mio nickname da hacker è Attila, flagello di Dio.

Stando alle voci di corridoio che circolavano in famiglia, Trish, che già da piccola aveva mostrato familiarità con la tecnologia, si era inizialmente fatta il culo sul web da autodidatta e poi aveva ricevuto un qualche tipo di aiuto da un tizio misterioso di cui nessuno sapeva il nome, forse neanche lei. Se provavi a tirar fuori l'argomento, Trish sfuggiva alle tue domande con la facilità con cui un'anguilla ti scivola dalle mani – sì, ho tenuto un'anguilla in mano. O, perlomeno, ho tenuto in mano un demone che vi assomigliava.

Comunque, l'abilità di Trish ci è risultata utile molte volte. Ha stanato parecchi culti demoniaci infiltrandosi nel deep web e ha persino scoperto un traffico illegale di armi magiche gestito da un ifrit del Bronx. Sulle prime il Consiglio si era dimostrato un po' restio davanti a questo metodo d'investigazione "alternativo", ma una volta visti i risultati si era immediatamente ricreduto. Dopotutto, Trish era riuscita ad entrare nel sistema della polizia di New York ed aveva annullato diverse multe a carico di membri del Conclave locale che avevano parcheggiato la macchina nel posto sbagliato o commesso qualche altra infrazione, quindi non avevano motivo per disprezzare lei e il suo infallibile portatile.

In quel momento, però, avrei tanto voluto che non fosse così brava.

Quando il conducente comunicò che la prossima fermata sarebbe stata la nostra, Trish colse l'occasione per annunciare che non avremmo alloggiato in un hotel bensì in una casa vacanza che aveva scovato nelle profondità di HomeToGo.

Chris soffocò un urlo. — E me lo dici solo ora? Io ti... ah, sei fortunata perché dopo tutta quella faccenda di Camille ho acquisito un minimo di autocontrollo!

Non esitai a darle manforte. — Sul serio, Trish? Siamo in vacanza, per la miseria!

— Ehi, calmatevi — intervenne Logan, sempre pronto a sedare gli animi. — È stata una decisione sofferta e meditata tra gemelli. Punto primo: non vorreste davvero dividere una quadrupla, spero. Per quanto mi riguarda, è già tanto aver dormito nella stessa stanza con Trish fino ai dieci anni. Ahi!

La sorella doveva avergli dato una gomitata, perché proseguì con il fiato spezzato: — Punto secondo: anche se la villa – sì, gente, è una villa – che abbiamo affittato ci è costata un bel po', un hotel sarebbe stato molto più caro. Punto terzo: avevate veramente intenzione di mangiare ogni giorno in un ristorante per tre mesi?

— Tu sei solo tirchio — sbottò Chris.

— No, cara, io sono parsimonioso — la corresse lui. — Ve lo prometto: non ve ne pentirete. Mi ci gioco il ciuffo.

Sgranai gli occhi. — Oh, wow. Allora dev'essere una cosa seria.

Chris si allungò all'indietro e gli scompigliò i capelli. — In effetti, cuginetto, mi pare che questi siano un tantino lunghi.

— No. — Logan le scacciò via la mano. — Vanno benissimo così.

— Ragazzi, è la vostra! — urlò l'autista, impedendo a Chrysta di replicare. — Aspettate, vi aiuto con le valigie.

L'autista se ne sarebbe rimasto a posto se non avesse constatato che avevamo almeno tre valigie ciascuno, ma gli fummo comunque grati e Chrysta insistette per dargli una mancia.

Mi guardai intorno. L'autobus ci aveva lasciati in un parcheggio all'inizio di una serie di salite, non molto ripide ma comunque faticose. Trish ci fece strada, controllando una mappa sul cellulare. — La casa è nascosta in una macchia di vegetazione. Logan sospetta che sia abusiva.

— Certo che è abusiva, Trish! — replicò lui. — Questa è un'area protetta, anzi, se non sbaglio è addirittura un Parco Regionale. Dovrebbe essere vietato costruire qui.

— E infatti Villa Orlando è appena fuori dal territorio del Parco — continuò Trish, raggiante. — Di qua.

Chrysta sbuffò. — Okay, mi sono scocciata. — Ad un suo schiocco di dita tutte le valigie si alzarono in volo. — Adesso sì che si ragiona.

La ringraziammo con un coro di "Alleluia", che subito si trasformarono in esclamazioni di sorpresa.

Abusiva o non abusiva, Villa Orlando faceva la sua figura.

Era una recente costruzione a due piani più mansarda dipinti di bianco con gli infissi in alluminio scuro. La porta d'ingresso era coperta da una tettoia in legno sulla quale si erano avviluppati dei rampicanti che arrivavano fin quasi a terra. Tutt'attorno al perimetro erano sistemati dei vasi in terracotta contenenti orchidee gialle e rosa e grosse piante di cycas.

Il primo piano ospitava la zona giorno, con un ampio atrio, un salotto, una graziosa cucina con penisola e un piccolo bagno di servizio; il secondo piano era invece dedicato alla zona notte, con il bagno padronale e tre camere da letto: una matrimoniale, una singola e una doppia. La mansarda era chiusa a chiave; Trish ci disse che quello era lo studio personale della padrona di casa, tale Rita D'Amante.

— Be', con una villa del genere non mi sorprendo che abbia voluto tenere chiusa la mansarda — commentò Logan. — Chissà quanti cadaveri nasconde lì dentro.

Trish gli assestò un pugno sulla spalla. — Macabro come sempre.

— La matrimoniale è mia! — Chrysta sfrecciò su per le scale con le valigie al seguito.

Ci affrettammo a raggiungerla e Trish la bloccò di fronte alla porta della stanza. — No, la matrimoniale va a Lori. Se troverà un bel tipo con cui tentare l'avventura di una storia estiva avrà bisogno di un letto più grande, no?

— Esatto — concordò Chris, zittendomi con un incantesimo. — Di sicuro non farai certe cose nel mio letto. È tutta tua, cuginetta.

Logan corse verso la singola. — Questa ovviamente me la prendo io. Non dormirò di nuovo con Trish, scordatevelo.

— E chi ha detto che avresti dovuto dormire con me? — ribatté la sorella. — Era già nei piani originari che la doppia sarebbe andata a me e Chris.

Provai a parlare, ma l'incantesimo di Chrysta era ancora attivo. La guardai in cagnesco. — Oh, scusa Lori. — Mi liberò con un cenno della mano.

— Se permettete, io vado a farmi una doccia — annunciai. — Devo assolutamente togliermi di dosso lo sporco dell'aeroporto e della stazione.

— Certamente — convenne Logan. — Ma spicciati e non farci aspettare!

Sogghignai. Eccome che li avrei fatti aspettare.

Per curiosità, prima di entrare nel bagno impostai il cronometro sul cellulare. Quando uscii, segnava quaranta minuti e cinquantatré secondi.

Ignorai le proteste dei miei cugini e mi buttai sul letto. Era l'una passata, vale a dire le sette di sera a New York, ma evidentemente il jetlag non funzionava con me. Nonostante avessi riposato in aereo, mi sentivo come se avessi combattuto contro un Demone Superiore per un'intera giornata. Ancora postumi della visione, probabilmente.

Non fu una notte proprio tranquilla – colpa dei soliti sogni – ma dormii come un sasso fino a mattina inoltrata.

Mi svegliai alle nove e per abitudine aprii subito le finestre. Tirava una fresca brezza proveniente dal mare, che portava l'odore della salsedine.

Con il sole che mi baciava la pelle e una vista spettacolare davanti agli occhi, decisi che, considerando che avrei trascorso il resto dei miei giorni rinchiusa in una fortezza di adamas, mi sarei goduta ogni singolo attimo di quella vacanza e ne avrei serbato il ricordo in eterno.

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Ciao!

Capitolo mezzo buono mezzo cattivo, questo. Ci sono parti che mi piacciono e altre che odio. Mi fa piacere aver inserito una parentesi sui gemelli Lewis, come qualche tempo fa feci con Chrysta, e soprattutto aver presentato Gaeta nel modo migliore, per ora.

Come avrete letto, la frase ad inizio capitolo è tratta dall'Eneide. Vi avverto inoltre di fare molta attenzione alle visioni di Lori, e in particolar modo ai dettagli. Lo so, lo so, non è facile, però è davvero importante. Così avrete la possibilità di prevedere cosa succederà più avanti MUHAHAHAHAHAHA.


Okay, mi fermo qui. VOTATE e RECENSITE, alla prossima guys!

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