Capitolo 1
Il silenzio divenne padrone dell'aula mentre il proprietario di un caffè italiano attendeva il suo destino. Dietro di lui sugli spalti sedeva suo fratello maggiore che teneva stretta la mano a quella del fidanzato spagnolo, entrambi respiravano a malapena. Il tempo sembrava essersi fermato; era come se le lancette del grande orologio appeso alla parete sopra la panca del giudice non potessero muoversi. Feliciano poteva sentire solamente i battiti del suo cuore spaventato rimbombargli nelle orecchie, il suo respiro veloce e ansimante, quasi in iperventilazione, mentre un membro della giuria consegnava un foglietto di carta al giudice.
Un oggetto così semplice. Un pezzo di carta quadrato bianco con una parola scarabocchiata al centro. Sembrava un atto così insignificante; la consegna del verdetto. Eppure avrebbe avuto un impatto molto grande sulla vita del giovane, colpevole o innocente; era questa la domanda. Qualcuno simpatizzava per l'italiano? Credevano nella sua versione della storia? Ora non c'era più speranza. Fu presa la decisione, e il vecchio dietro la panca avvicinò il foglietto di carta al viso per leggere il verdetto attraverso le lenti degli occhiali.
«Feliciano Vargas.» disse il giudice attraverso il microfono, spezzando il silenzio che si era creato. La sua voce echeggiò forte in tutta la stanza aumentando la tensione oramai papabile. L'italiano era sull'orlo di un attacco di panico e smise di respirare aspettando il suo destino. «È stato raggiunto un verdetto» continuò mentre posava lentamente la carta sulla panca. «Alla luce dell'eccezionale prova del DNA contro di te, aggiunta alla mancanza di testimoni e prove per dimostrare la tua innocenza...la giuria ha decretato che in realtà sei colpevole dell'assalto fisico sul signor Kiku Honda...»
«CHE COSA?!» era stato il fratello maggiore dell'imputato a parlare, o meglio dire urlare, mentre saltava su delle tribune col viso rosso dalla rabbia. «Questa è una cazzata!»
«Signor Vargas!» il giudice parlò duramente, picchiettando il martelletto sulla panca. «Voglio ordine nella mia aula di tribunale»
«Il mio fratellino è innocente!» ruggì Lovino, mentre il fidanzato cercava di tenerlo a bada.
«Signor Vargas!» urlò il vecchio martellando forte sulla panca. «Se non ti calmi ti farò togliere da questa aula di tribunale.»
L'italiano sul banco degli imputati non riusciva a sentire la confusione attorno a lui. Nel momento in cui la parola "colpevole" aveva lasciato le labbra del giudice il suo cuore era affondato come la pietra più pesante nella fossa stessa del suo stomaco. Non sapeva nemmeno se stesse respirando o no. Era come se fosse bloccato nel più orribile degli incubi realistici; nei mesi prima a questa data del tribunale questo scenario era apparso nella sua fragile mente...mai in vita sua avrebbe potuto immaginare di sentirsi così. Il suo corpo si intorpidì e i suoi sensi si allontanarono. Suo maggiore continuava ad urlare in aula, ma le sue urla gli sembravano un eco in lontananza.
Un altro colpo del martello lo fece rinsavire; Antonio era riuscito a trattenere Lovino e il giudice era pronto a dare la sentenza. «Feliciano Vargas, questa corte ti condanna a due anni di prigione federale per il tuo crimine; questa condanna deve essere scontata consecutivamente e deve iniziare immediatamente.» batté il martelletto per l'ennesima volta, sigillando il destino dell'italiano.
«QUESTA È UNA CAZZATA! MIO FRATELLO È INNOCENTE! MI SENTI?! INNOCENTE!» Lovino imperversava mentre lo spagnolo faticava a trattenerlo.
«Lovi, per favore, calmati...» lo implorò Antonio, anch'egli contrario al verdetto.
Due guardie carcerarie si stavano già dirigendo verso l'italiano tremante, prendendogli un braccio ciascuno lo scortarono in una stanza. Feliciano stette in silenzio, le spalle tremavano e le mani si sfioravano ad ogni passo per lo spazio delimitato imposto dalle manette che indossava. La sua mente annebbiata non aveva ancora capito cosa stesse succedendo. Stava...stava davvero per essere portato in prigione? Per un crimine che non aveva commesso?! Gli ultimi mesi erano passati così in fretta, come in un sogno, ma stava succedendo per davvero. Feliciano fu portato in una stanza vuota; un veicolo di trasporto bianco fuori dal tribunale.
Le guardie lo lasciarono andare con cautela, una di loro lasciò la porta aperta mentre il fratello e il suo compagno facevano irruzione scortati da un ufficiale di polizia. «Fratello...» Lovino corse dal castano e lo abbracciò stringendolo forte a sé.
Feliciano si morse il labbro, voleva ricambiare l'abbraccio del fratello maggiore ma le manette glielo impedirono.
Antonio trattenne le lacrime e abbracciò i due fratelli. «Andrà tutto bene...» sussurrò loro.
«Lo giuro...» Lovino si ritrasse leggermente guardando suo fratello negli occhi, mentre i suoi erano lucidi e prossimi alle lacrime. «Combatterò per te Feliciano, dimostrerò loro che sei innocente e ti farò uscire di prigione.»
Feliciano annuì lentamente, il viso privo di emozioni. «Grazie» disse a bassa voce, i suoni faticavano ad uscire.
Antonio si asciugò gli occhi e diede un bacio sulla testa del castano.
«Sii sicuro ragazzino, sii forte...»
«Non fare niente di stupido, eh?» Lovino cercò di scherzare ma il suo labbro tremante e la sua voce strozzata lasciarono trasparire l'immensa tristezza che provava.
Si abbracciarono per almeno un altro minuto prima che una delle due guardie del prigioniero parlò. «Okay dude, è ora di andare» disse mentre apriva la porta, nella sua voce si sentiva un accento americano.
Lovino non lasciò andare suo fratello nemmeno quando si intromise la seconda guardia. «Signor Vargas, il tempo degli addii è finito, suo fratello deve venire con noi ora» parlò dolcemente, compativa l'italiano e nella sua voce l'accento britannico era inconfondibile.
Antonio fece scivolare le braccia attorno al corpo del fidanzato allontanandolo dal fratello. «Lovi...non renderlo più difficile di quanto non sia già»
Con sua grande sorpresa, l'italiano tra le sue braccia non protestò; osservò il fratello minore scortato via mentre le lacrime gli scorrevano silenziosamente sul viso. Feliciano si voltò per vedere la sua famiglia e per la prima volta da quando successe tutto questo, lo spagnolo vide la paura negli occhi del piccolo e gracile italiano mentre scompariva alla vista, la pesante porta di metallo si chiudeva alle sue spalle.
~O~
«Okay man, cambiati e metti i vestiti e tutto ciò che hai con te sul tavolo» disse la guardia americana mentre metteva nelle mani tremanti, e non più ammanettate, dell'italiano una tuta da prigione arancione ripiegata. «È la taglia più piccola che abbiamo, dovrebbe starti, in effetti sei piuttosto piccolo di corporatura»
«Confortante come sempre, Alfred» disse l'altra guardia sospirando. «Feliciano Vargas...» mormorò piano alzando lo sguardo sull'italiano per conferma, il quale non mosse un muscolo. «...lo sai che l'abbigliamento è obbligatorio» disse ammiccando alla divisa della prigione che il castano non aveva ancora indossato.
Feliciano annuì in fretta e posò la tuta sul tavolo per poi iniziare a spogliarsi. Le due guardie carcerarie che l'avevano scortato dall'aula di tribunale alla prigione, un inglese e un americano, dovevano ancora presentarsi a lui completamente. Il drive over era stato molto inquietante; Feliciano era seduto tutto solo, fissato con le manette, sul retro del furgone bianco, mentre le due guardie chiacchieravano silenziosamente nella parte anteriore. Neanche durante la lunga attraversata l'italiano aveva fatto conto con le sue emozioni. Era ancora troppo scioccato e non riusciva a credere che quella situazione fosse reale.
Feliciano finì di mettersi la fredda tuta, armeggiando ansiosamente con le maniche un po' troppo lunghe per lui. Posò sul tavolo i propri indumenti che l'americano prese per controllare tasca per tasca. «Sicuro di non avere nient'altro con te, amico?» chiese mentre metteva i vestiti in un sacchetto di plastica.
L'italiano scosse la testa e sollevò le braccia tremanti mentre il britannico gli si avvicinava. Il biondo cercò di dare al giovane il sorriso più caloroso possibile mentre gli metteva le catene attorno ai polsi; quel piccolo e gracile italiano castano gli faceva tenerezza e provava pena per lui. «A proposito, sono l'agente Arthur Kirkland, e questo è l'agente Alfred Jones» disse ammiccando all'americano che stava leggendo dei documenti dell'italiano.
Feliciano annuì lentamente, sentendosi ancora più a disagio nell'abbigliamento della prigione. «Cosa...cosa succede adesso?» chiese piano, intrecciando ansiosamente le dita.
«Ora dobbiamo portarti da uno dei medici della prigione per un controllo sanitario» disse Alfred portando con sé le cose dell'italiano. Lui e il britannico lo portarono fuori dallo spogliatoio, lungo un corridoio fino ad una porta scura. Il castano poteva supporre che conducesse ai principianti blocchi carcerari dove venivano tenuti i detenuti.
Feliciano fu portato in uno studio medico, una delle stanze che si affacciavano al lungo corridoio. Non c'era alcuna porta per questa stanza particolare, solo un arco senza qualcosa che coprisse l'ingresso. L'italiano entrò con cautela nell'ufficio; la stanza era pulita, ordinata e completamente bianca. Una giovane donna con un grembiule bianco stava leggendo dei fogli sulla scrivania; aveva lunghe ciocche castane ondulate tenute indietro da una bandana giallo pallido. Quando sentì entrare il castano si voltò verso di lui e gli sorrise gentilmente.
«Ciao tesoro, sono Elizabeta, ti andrebbe di sederti lì?» disse indicandogli un lettino coperto da un foglio di carta, nella suo voce si poteva cogliere l'accento ungherese.
Feliciano annuì lentamente e salì sul letto; dovette fare diversi tentativi per salirci, in quanto le sue braccia tremanti non riuscivano a sostenere il peso del suo esile corpo. Una volta alzato si appollaiò sul bordo mentre Elizabeta prese alcuni documenti esaminandoli.
«Okay, Feliciano Vargas?» l'italiano annuì «Che bel nome...bene tesoro, io sono il medico della prigione per il blocco D, quindi mi occuperò di eventuali lesioni o malattie che incontrerai durante il tuo periodo qui» disse sorridendo dolcemente «Quindi non aver paura di far sapere a una delle guardie che hai bisogno di vedermi, va bene?»
Feliciano annuì lentamente, armeggiando con le catene attorno ai polsi.
«Sono sorpreso che abbiano lasciato lavorare in un posto come questo una signora così carina...» borbottò piano, il suo petto d'improvviso cominciò a fargli male.
Elizabeta sorrise, ridacchiando leggermente. «Grazie tesoro, mi hai appena resa felice!» disse allegramente.
«Non preoccuparti per me, sono abbastanza al sicuro, per questo non abbiamo una porta, per ogni evenienza. E fuori c'è sempre qualche guardia» fece un cenno verso lo stipite vuoto che conduceva al corridoio, Arthur e Alfred erano in piedi poggiati alla parete. La castana si strinse leggermente nelle spalle sorridendo al giovane.
«Nel caso tu provassi a farmi qualcosa le guardie saranno subito qui a proteggermi, ma non preoccuparti, so che non lo faresti mai»
Feliciano fece un sorrisetto e non riuscì a guardare l'ungherese mentre tornava alle sue scartoffie. «Okay, devo solo farti qualche domanda sulla tua salute medica, va bene?» l'italiano annuì debolmente «Okay, hai mai avuto o hai tuttora il diabete?» il castano scosse la testa «Va bene...» Elizabeta prese una penna e spuntò una delle domande del suo blocchetto degli appunti. «Qualche allergia?» Feliciano scosse la testa «Stai seguendo delle cure mediche?» un altro scuotimento di testa. «Sei portatore di malattie o virus?»
«Non che io sappia...» disse piano il castano, la sua voce tremava leggermente.
L'ungherese annuì mentre compilava il modulo. «Va bene, sai dirmi il tuo gruppo sanguigno, tesoro?» Feliciano rimase in silenzio per un momento prima di scuotere la testa. «Beh, in tal caso dovrò prelevare un campione di sangue in modo da scoprirlo, va bene?» posò il blocchetto e prese ago e siringa da un cassetto della scrivania.
Feliciano annuì intontito. «...perché devi saperlo?» chiese tremante.
«È solo una formalità, è improbabile che tu abbia bisogno di alcun tipo di trasfusione mentre sei qui, ma se lo fossi possiamo dire l'ospedale il tuo gruppo sanguigno o posso fare direttamente io la trasfusione se necessario» disse lei semplicemente, mentre sterilizzata l'ago e lo avvicinava al ragazzo «Puoi alzare la manica per me, tesoro?» chiese.
Con mano tremante, Feliciano sollevò lentamente la manica della divisa arancione più alto che poté, per agevolare il prelievo del campione da parte del medico. L'ago fu spinto dentro il suo braccio e una piccola quantità di sangue venne estratta fino a riempire la siringa, che venne rimossa subito dopo. Solo in quel momento l'italiano si rese conto di quello che stava accadendo realmente. Era rimasto per mesi quasi insensibile, privo di emozioni, e solo in quell'esatto momento erano tornate.
Forse quando l'ago aveva rotto le pareti della pelle delicata aveva rotto anche le pareti che Feliciano aveva costruito attorno a sé stesso. Stava lentamente tornando consapevole e cosciente di ciò che era e che stava accadendo, le emozioni tornarono in superficie. Elizabeta portò l'ago pieno di sangue sulla scrivania e quando si girò Feliciano crollò. Per la prima volta da quando era stato processato e arrestato, il castano iniziò a piangere.
Una lacrima, due, tre...finché non iniziò a singhiozzare e le sue guance non furono completamente inondate dalle lacrime. Elizabeta si girò allarmata quanto sentì i singhiozzi. «Oh, tesoro, cosa c'è che non va?» chiese avvicinandosi immediatamente a lui preoccupata, e prendendogli la scatola di fazzoletti posta accanto al letto. «Ti ho fatto molto male? Vuoi che ti metto qualcosa sopra?» chiese guardando attentamente il puntino rosso sul braccio del castano.
Elizabeta si morse il labbro, la sua natura premurosa ebbe la meglio su di lei. «Oh dolcezza, vieni qui...» l'ungherese tese le braccia, lasciando che il giovane collassasse su di lei e le piangesse sulla spalla. La giovane donna sapeva che stava andando contro ciò che il regolamento le imponeva di fare. Durante l'addestramento per la posizione in prigione le era stato detto innumerevoli volte dal suo mentore, di essere seria e fredda verso i detenuti poiché i criminali non meritavano gentilezza.
Ma questo giovane spaventato e singhiozzante, ruppe ogni controllo e lei dovette confortarlo, indipendentemente da ciò che le era stato insegnato.
«Va tutto bene lì dentro?» chiese Arthur dal corridoio.
Elizabeta sorrise tristemente. «Sì, va tutto bene» coccolò il castano per ancora un paio di minuti e quando si staccò gli passò un fazzoletto. «Povero caro, ti senti meglio adesso?»
Feliciano si asciugò gli occhi con il fazzoletto «...sì, grazie» disse a bassa voce.
Elizabeta gli accarezzò delicatamente il braccio e lo aiutò a scendere dal lettino. «Penso di poter riempire il resto di queste scartoffie, puoi pure andare da Arthur e Alfred, adesso ti sistemeranno» disse dolcemente mentre gli stringeva la mano con fare rassicurante «Se mai ti dovessi sentire male faglielo sapere e vieni a trovarmi, va bene tesoro?»
Feliciano annuì, sentendosi incredibilmente a disagio quando lei gli lasciò la mano e lo accompagnò all'uscita. Voleva solo stare con lei e non lasciarla più andare; poteva anche essere solo una sconosciuta, ma la dolce ungherese era per lui un supporto premuroso di cui aveva estremamente bisogno in quel momento così difficile. «Grazie Elizabeta» disse piano, continuando a tamponarsi gli occhi mentre veniva portato via dalla guardia carceraria americana.
Arthur li seguì mentre la castana usciva nel corridoio. «Lo terrai d'occhio per me, vero Arthur?» chiese lei guardando il castano che seguiva ansiosamente Alfred.
Il britannico inarcò un sopracciglio folto. «Lo terrò d'occhio come faccio per qualsiasi altro detenuto»
«Oh Arthur, sai che è innocente» disse Elizabeta piano, osservando Feliciano con tristezza.
«Dici?»
Fu il turno di Elizabeta di alzare un sopracciglio mentre guardava il biondo. «Arthur, io e te sappiamo quando qualcuno è stato ingiustamente condannato, basta guardare quel povero ragazzo...»
Arthur lanciò un'occhiata in fondo al corridoio dove Alfred stava conversando con l'uomo d'ufficio, consegnando gli oggetti dell'italiano. Lo stesso Feliciano era in piedi dietro di lui, il suo corpo tremava leggermente mentre i suoi occhi si muovevano nervosamente, ancora lucidi dalle lacrime. Il britannico fece un sospiro sconfitto mentre si passava una mano sui capelli disordinati. «Okay, lo controllerò...un ragazzino del genere avrà bisogno di tutto l'aiuto che potrò offrirgli...» mormorò, per poi affrettarsi a raggiungerli.
«Stai bene Feliciano?» chiese il britannico mentre metteva una mano sulla spalla dell'italiano.
Prima che il giovane potesse rispondere l'americano parlò, o meglio dire imprecò. «Oh shit» disse mentre fissava il documento di ammissione che gli era appena stato consegnato.
«Che cosa c'è Alfred?» chiese Arthur.
Alfred fece una faccia imbarazzata. «Dude...guarda con chi lo hanno messo» sollevò il foglio per farglielo leggere.
Feliciano avrebbe potuto giurare che il britannico fosse impallidito. «Oh god...Alfred, non possiamo farlo, è troppo piccolo e gracile...» lanciò uno sguardo preoccupato all'italiano, cosa che lo fece spaventare ulteriormente.
Alfred picchiettò il vetro, attirando l'attenzione dell'uomo in ufficio. «Amico, sei serio? Hai visto che razza di ragazzo è Feliciano? Non sopravvivrà con lui!»
«C-cosa?» disse Feliciano piano, mentre l'ansia aumentava.
L'uomo in carica scrollò semplicemente le spalle e disse che era definitivo. Alfred sospirò, voltandosi di nuovo verso di loro. «Mi dispiace amico, siamo al completo, dobbiamo usare tutto lo spazio che ci resta»
«Non potremmo trasferirlo in un altro blocco?» suggerì Arthur.
Alfred scosse la testa. «Amico, ci vorrebbe un'eternità»
«Beh, molto probabilmente dovremmo farlo comunque. Se ricordi abbiamo già spostato gli ultimi tre detenuti da quella cella per la loro incolumità»
«C-cosa sta succedendo?» chiese Feliciano mentre le sue mani tremavano.
Arthur cercò di mascherare la sua preoccupazione sospirando profondamente. «È il tuo compagno di cella...intendo il ragazzo con cui ti hanno messo» disse per poi ripiegare il foglio d'ammissione.
Feliciano deglutì leggermente intrecciando le proprie mani «...e lui?»
Arthur si morse il labbro, lottando per non dirgli la pura verità. «Diciamo solo che lui...non è il ragazzo più simpatico al mondo...»
Alfred fece una risata aspra. «Arthur, non rivestire la verità con lo zucchero... intendo...per l'amor di Dio ha ucciso uno dei suoi compagni di cella!»
«Alfred!» lo rimproverò Arthur mentre Feliciano si lasciava sfuggire un gridolino di terrore. «Quell'uomo si è suicidato, l'omicidio non è mai stato provato»
«Va bene, prendi la sua parte come sempre» mormorò l'americano mentre tirava fuori il suo ampio mazzo di chiavi. «Comunque dai, meglio andare»
«...cosa?» chiese Feliciano mentre Alfred apriva le molte serrature della grande porta di metallo.
«L'introduzione, non ti preoccupare, ti terrò d'occhio e mi assicurerò che non ti succeda nulla» disse Arthur in modo rassicurante, dando una pacca sulla spalla dell'italiano mentre guardava l'americano aprire la pesante porta, tenendola aperta per loro.
Feliciano entrò lentamente; la porta si chiuse alle loro spalle togliendogli la libertà. C'erano celle, stipate insieme una accanto all'altra, su entrambi del corridoio che si trovò davanti, alla fine di esso c'era una grossa scala di metallo che dava accesso all'ultimo piano di questo blocco di celle; ma l'italiano fu portato oltre.
Le sbarre altre e strette che le circondavano e in ogni cella c'erano un paio di occhi che fissavano minacciosi il castano. Mai in vita sua Feliciano di era vergognato tanto del suo fisico in quel momento. Magro e fragile, non un accenno di muscoli; già sentiva gli altri grandi e corpulenti detenuti giungere alla conclusione che era una preda fragile. Fuori era pieno giorno, ma la prigione era debolmente illuminata; alcune finestre sbarrate lungo i muri, che lasciavano entrare pochissima luce, proiettavano ombre spettrali sul duro pavimento.
Feliciano stette affianco ad Arthur mentre fu condotto alla fine del blocco, fino all'ultima cella. Alfred sbatté il suo manganello sulle sbarre della cella per attirare l'attenzione dell'uomo dentro; era sdraiato sulla cuccetta superiore di un letto a castello. «Ehi Ludwig, ti abbiamo portato un nuovo compagno di cella»
Inizialmente l'uomo non rispose e passarono un paio di minuti di silenzio carichi di tensione. «Che cosa?» sputò con un aspro accento tedesco mentre si metteva seduto.
Feliciano abbassò il capo non volendo vedere il volto del detenuto, mentre il suo corpo iniziò a tremare in modo incontrollabile. «Questo è Feliciano Vargas, il tuo nuovo compagno di cella» ripeté Alfred mentre tirava fuori le chiavi per aprire la porta.
«Pensavo di aver detto a voi Arschlöcher che non voglio un verdammten compagno di cella» ringhiò il tedesco facendo intimidire l'italiano.
«E io pensavo di averti già detto che dobbiamo usare tutto lo spazio possibile» disse tranquillamente Alfred per poi aprire la cella.
Arthur diede una pacca rassicurante all'italiano sulla schiena dopo avergli tolto le manette. «Bene Feliciano...questo è Ludwig...»
Feliciano scosse la testa freneticamente mentre le guardie lo spingevano delicatamente nella cella, chiudendo poi la porta alle sue spalle. In un attimo Ludwig scese dal letto e si avvicinò a lui. L'italiano strillò allarmato, indietreggiando fino a toccare le sbarre della cella mentre il tedesco, incredibilmente alto e muscoloso, gli si avvicinava ulteriormente togliendogli ogni via di fuga. Feliciano cominciò a lagnarsi piano senza un apparente motivo mentre lacrime iniziavano a rigargli il viso.
«Ludwig lascia in pace quel povero ragazzo!» disse Arthur sbattendo il suo manganello sulle sbarre della cella.
Feliciano singhiozzò, chiudendo gli occhi mentre aspettava di ricevere qualche abuso fisico. Ludwig lo fissò, il naso arricciato per la confusione. Mai in vita sua era riuscito a intimidire qualcuno così tanto senza dover nemmeno parlare. Sospirò irritato facendo un passo indietro. «Dimentica; uno patetico come te non merita il mio tempo» ringhiò. Feliciano aprì lentamente gli occhi, ancora tremante per la paura. Il tedesco fissò l'italiano con occhi stretti. «Stai per essere mangiato vivo qui, ragazzo» disse lentamente per poi risalire sul letto.
Feliciano era vicino all'iperventilazione, respirava piano e affannosamente mentre le sue ginocchia tremavano. Arthur e Alfred si erano assicurati che la situazione fosse apposto prima di andarsene. Anche se il tedesco si era ritirato nel suo letto, l'italiano si sentiva tremendamente in pericolo senza le guardie pronte a proteggerlo. Feliciano rimase fermo, il suo cuore batteva furiosamente mentre sentiva la presenza infuriata del biondo nello spazio limitato.
Era come un predatore affamato pronto a balzare sul piccolo italiano tremante, che non si era ancora mosso di un centimetro.
Il disagio del giovane doveva essere troppo perfino per il tedesco perché si mise su a sedere guardando l'italiano. «Resterai lì per sempre, piccola scheiße?!» ringhiò.
Feliciano deglutì sommessamente agitandosi sotto agli occhi azzurro ghiaccio del biondo. «U-umm...n-no...io um...» balbettò spaventato, non sapeva cosa fare «...c-cosa dovrei...voglio dire, non...»
«Basta sedersi!» abbaiò Ludwig. Feliciano annuì ancora più spaventato, affrettandosi a sedersi su una delle due sedie poste accanto al tavolino quadrato al centro della stanza. Il tedesco lo guardò sprezzante per poi ristendersi, il letto scricchiolò leggermente.
Feliciano era seduto sulla sedia, le mani strette sulle ginocchia per non farle tremare. Erano passati appena cinque minuti e il tedesco già lo odiava nelle viscere; ora capiva le reazioni delle guardie quando scoprirono chi era il suo compagno di cella. Mentre l'italiano sedeva in silenzio, il suo sguardo terrorizzato era posato sul tedesco; poteva solo sperare che suo fratello fosse là fuori da qualche parte a cercare un modo per tirarlo fuori da lì.
Arschlöcher - stronzi
Verdammten - fottuto
Scheiße - merda
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