Seconda prova
Il primo fiocco di neve lo colse di sorpresa, mentre camminava guardando dritto davanti a sé senza sapere in effetti dove stesse andando, visto che il vero posto dove era perso erano i suoi pensieri. Quel minuscolo punto bianco lo colpì gentilmente in viso, ricordandogli chi fosse e dove si trovasse.
Shirō Emiya si guardò intorno con sufficienza, come se ciò non gli importasse davvero. Prima alzò lo sguardo verso il cielo, lasciando che altri fiocchi raggiungessero il compagno sul suo viso congelato, poi girò la testa: la strada era silenziosa. Nessuna risata di bambino riecheggiava tra le case di quel quartiere residenziale, lasciando che il solo suono udibile fosse il gracchiare di qualche cornacchia. Tutti erano rintanati al caldo, nella propria dimora, a scherzare, gioire, rimpinzarsi in occasione del pranzo celebrato per una festa che non era nemmeno la loro. Non che Shirō odiasse il Natale: c'era stato un tempo in cui i suoi occhi si illuminavano al pari di tutte le luci appese ai lampioni quando sentiva avvicinarsi l' aria felice e genuina del venticinque dicembre. Poi, l'incendio aveva distrutto il suo quartiere, ridotto in cenere la sua casa, i suoi familiari, la sua vita. Kiritsugu, colui che lo aveva salvato e che gli aveva fatto da padre, non era spesso a casa. Prendere anche solo in considerazione l'idea di fare festeggiamenti gli sarebbe sembrata ridicola.
Le luminarie, ancora spenti e scuri contenitori di vetro colorato, gli aprirono la strada come le navate affollate di una chiesa aprivano quella di una sposa il giorno delle proprie nozze. Continuò a camminare, senza pause. Voleva vedere dove lo avrebbe condotto quella strada, se avesse una fine. Che stupido: certo, che l'aveva. Tutte le cose avevano un inizio e una fine. Anche lui, ma non sapeva se conoscerla prima del tempo fosse stato un privilegio.
Sentì freddo in testa, e si domandò se non fosse necessario indossare un berretto. La nevicata stava diventando più fitta, nonostante Osaka si affacciasse sul mare. Un brivido gli corse lungo la schiena, facendogli istintivamente stringere le spalle per provare un po' di calore.
La città non era poi così male, come posto. Ormai erano due settimane che era arrivato lì, e doveva ammettere di non aver avuto alcun tipo di problema: la mattina si alzava, si lavava, lasciava la minuscola stanza d'hotel che aveva affittato e usciva. Dove, lo avrebbe deciso il destino: Shirō si limitava a muovere le gambe, lasciandosi condurre dal vento, dall'odore del mare e dalle foglie secche che strusciavano contro il marciapiedi lungo le vie di un'Osaka frenetica, pulsante di vita nonostante il freddo, e pensava. Forse avrebbe potuto fare quella vita per un altro po', ma non sapeva se gli sarebbe convenuto.
Osservò una villetta bianca, col tetto nero, perfettamente verniciata, senza una sola macchia a far immaginare qualche anno di troppo delle pareti. Trovò ciò che gli interessava oltre la finestra: due bambini, che si rincorrevano senza troppa cautela intorno a un tradizionale tavolo basso, riccamente imbandito. Intravide un albero di Natale nell' angolo, e sotto diversi pacchetti ricoperti con una carta dai colori sgargianti. Una donna li raggiunse portando un vassoio in mano, seguita dal marito. La famiglia perfetta, che festeggiava in modo perfetto. Non li invidiò: semplicemente, si chiese se un tempo anche a lui fosse stato concesso un giorno simile.
Continuò il suo percorso con la neve che iniziava a posarsi timidamente su tutto, perfino su Shirō stesso, penetrando nei vestiti fino a raggiungere la pelle. Decise che non era più il caso di starsene all'aperto e affrettò il passo. Da qualche parte, prima o poi, sperava ci fosse un locale aperto, anche il più minuscolo bar. Non si era reso conto di star lentamente congelando finché non aveva sentito la testa umida e il cappotto zuppo, e se non si fosse messo al riparo al più presto nulla lo avrebbe salvato dal beccarsi un raffreddore.
All'improvviso, iniziò a soffiare il vento. Non quel vento possente e implacabile delle bufere, semplicemente una corrente invernale, che portò la neve ad andare a sferzargli con ulteriore forza il volto, che ormai non riusciva più a muovere per il freddo. Anche il sole stava tramontando, lasciando finalmente le luci natalizie libere di fare la loro figura, di colorare un po' la città e di scaldare coloro che vi si fossero imbattuti senza più nulla a riempire la loro anima. Shirō sorrise, per quanto i muscoli immobilizzati glielo consentissero, e lasciò scorrere gli occhi sulle file di piccole gocce blu, verdi, gialle e rosse che mandavano ognuna la propria sfumatura sulle abitazioni, investendole di un'aura nuova, euforica, e contagiando un anche lui. Forse era la prima volta che si sentiva così, da quando aveva lasciato Fuyuki. Era tanto che una felicità del genere non lo toccava che se ne sorprese un po'.
Ci fu una cosa però che lo rallegrò ben più delle luminarie, e fu vedere finalmente un' insegna ancora accesa, in un angolo della strada. Probabilmente, qualche giapponese più anziano aveva deciso che potevano essere gli altri a gioire della loro festa americana; di solito era sempre così che andava.
Si precipitò davanti al bar e aprì la porta immediatamente. Solo una volta fatto ricordò di essere in presenza di persone, e si ricompose.
- Konban-wa - salutò educatamente. Dentro, oltre a lui, c'era solo il proprietario. Era un uomo sui sessanta, proprio come sospettava, e gli dava le spalle, intento a lavare piatti e bicchieri nel lavello con la sola compagnia del gracchiare di una radio. Gli rispose, ma ci mise un po' prima di girarsi. Nel frattempo, Shirō ebbe modo di osservare vagamente il locale: l'interno era identico a quello di qualsiasi locale medio, con un bancone, un tavolo e un paio di sedie. Sopra esse, erano poggiati giornali vecchi di qualche giorno. Alle pareti erano appese un paio di fotografie che ritraevano la storia della vita del bar, di cui non aveva nemmeno letto il nome. Gli sfuggì un risolino quando vide che quell' uomo di era degnato di appenderci anche una minuscola ghirlanda.
- Cosa desidera? - domandò, con voce roca, prima di tossicchiare. Ma come faceva a stare in maniche corte in una giornata simile?
Si riscosse e ordinò un cappuccino, contando che ci mettesse più tempo che per un normale caffè. Si accomodò al tavolo, scostando i giornali e cominciando finalmente a riacquistare mobilità nelle dita e nei muscoli facciali. Gettò uno sguardo alle mensole dietro il bancone, cercando un termometro: quello che trovò, retto da un omino in costume che evidentemente non si era preparato a sere simili, segnava un grado.
Mentre aspettava di essere servito spulciò tra le notizie che gli capitavano sotto tiro, ma non trovò nulla di interessante, e aveva lasciato il cellulare chiuso a chiave nel cassetto della sua stanza d'albergo, perché non lo distraesse inutilmente dalla passeggiata.
Si abbandonò alla voce degli speakers della radio e al ronzio delle macchine in sottofondo. Perse il filo della loro conversazione all'abbassamento delle temperature, per poi riprenderlo alla stagione di sumo e finire di nuovo a riscuotersi dai suoi pensieri che stavano parlando ancora una volta di un Natale ormai sulla soglia dell' addio. La voce allegra di una presentatrice rise alla battuta del suo collega, poi presentò un titolo e cedette il posto a una canzone, River, di Joni Mitchell.
Lo colpí subito semplicemente perché l'inizio riprendeva le note della celebre Jingle Bells, ma a differenza di questa la melodia ripiegava su un ritmo più melanconico. Una voce femminile, tanto bella quanto triste, prese a gridare al mondo il suo Natale in cui non nevicava, in cui tutto restava verde, in cui voleva solo scappare.
I wish I had a river so long,
I would teach my feet to fly.
I wish I had a river i could skate away on,
I made my baby cry.
Quest' ultimo verso lo fece sussultare. In quelle note, in quella voce trasmessa attraverso un apparecchio antiquato e mezzo rotto, Shirō scoprì di aver trovato una compagna, un' amica che capisse come si sentiva. Anche lui l'aveva fatta piangere. Tohsaka non glielo rinfacciava mai, ma era sicuro che non gliel' avesse perdonata. L'unica cosa che lo differenziava da Joni Mitchell era l'averlo avuto, quel fiume lungo cui scappare. Forse non era poetico, ma il suo era stato un fiume nero, liscio, bollente d' estate e gelido d' inverno, che aveva percorso su una barca a quattro ruote e che ogni giorno continuava a consumargli le scarpe, chilometro dopo chilometro, mentre seguitava a errare in cerca di qualcosa che forse era proprio davanti ai suoi occhi, forse non avrebbe trovato mai. Chissà se Tohsaka aveva pianto ancora, mentre leggeva il biglietto che le aveva lasciato. Da un lato lo avrebbe fatto sentire importante, ma dall'altro non osò sperare che quella ragazza facesse qualcosa in più che stracciare il foglio, il volto contratto in una smorfia, unica rivelazione del fatto che il suo cuore era a pezzi.
Un tintinnare metallico gli annunciò che era stato servito. Shirō alzò lo sguardo, scorgendo una tazza bianca e fumante posata sulla tavola di marmo con accanto un cucchiaino e una bustina di zucchero. Andò al bancone e buttò giù d'un sorso la bevanda, una brodaglia torbida e amara senza schiuma che gli ustionò la lingua e che giù per la gola gli parve fuoco vivo, dopo tutto quel tempo passato all' esterno. Si concesse pochi istanti per riprendere fiato e pagare, prima di decidersi a lasciare il bar senza nemmeno ringraziare il proprietario.
E ora? La cosa più saggia da fare, naturalmente, era tornare in hotel. Shirō era certo che anche il suo corpo, che di certo non aveva reagito bene al ritrovarsi di nuovo faccia a faccia con la temperatura polare che c'era quella sera, sarebbe stato d'accordo; tuttavia, quando cominciò ad avviarsi, fu come se i piedi andassero per conto loro. Lui li lasciò fare, incerto. Riattraversò il quartiere residenziale in cui era capitato qualche ora prima, poi svoltò. Destra, sinistra, destra, destra, finché non perse il conto. Si fece guidare dal semplice istinto e dalla curiosità di esplorare parti della città non ancora viste, risbucando in una zona commerciale. Lì gli capitò di incrociare finalmente qualche anima che non stesse ancora festeggiando: impiegati, casalinghe con la spesa che sarebbe servita a preparare la cena o anche semplici senzatetto. Fu a causa dell'aumentare di questi ultimi che si accorse di dove era finito davanti: Osaka-eki, la stazione dei treni più grande della città.
Si appoggiò un attimo a riprendere fiato ad un muro, scrutando sopra di sé: l'edificio era enorme, un mostro bianco di cemento e vetro, pronto a inghiottire chiunque decidesse di addentrarvisi come un gigante che ingoiasse briciole di pane. Con gli occhi castani, arrivò fino alle porte di vetro e anche oltre esse, raggiungendo il tabellone. Un nome gli risaltò allo sguardo, come se fosse stato messo lì apposta per lui e si fosse accorto che il suo destinatario era lì. Fuyuki, venti e venti.
Si sentì attratto come da una calamita ed entrò; venne investito immediatamente dal brusio assordante di centinaia di pendolari che continuavano a spostarsi perfino quel giorno, e da una luce fredda, inespressiva, mal abbinata con alcuni festoni che erano stati sparsi qua e là con noncuranza. Come se i passeggeri si fermassero a badare alle decorazioni, in effetti.
Shirō osservò l'orologio digitale sul tabellone: le cifre arancioni segnavano le otto. Conoscendo le dimensioni di Fuyuki e la distanza, probabilmente quello sarebbe stato l'ultimo treno della giornata.
Passeggiò un po', confondendosi con la folla, non perdendo mai di vista il botteghino. Non c'era molta fila.
Perché lo stava pensando, però? Gli sembrò incredibile che gli stesse anche solo balenando in testa di tornare a casa e soprattutto di affrontare Tohsaka. Ma quanto era stato via? Facendo un rapido calcolo, non meno di tre mesi, se non sbagliava. Aveva girato il Giappone senza un ordine preciso, prendendo la prima strada che gli si parava davanti: non gli interessava dove sarebbe andato con il corpo, ma dove quel viaggio avrebbe condotto la sua mente, e ora era proprio quest' ultima a portarlo lì, poco prima dell' ultima corsa. L'ultima corsa del giorno di Natale.
L'altoparlante gracchiò:
- Il treno per Fuyuki è in arrivo al binario sei. Il treno per Fuyuki è in arrivo al binario sei.
Scosse la testa: non poteva continuare a vivere passivamente la vita proprio in un momento del genere. Se non avesse preso una decisione, di certo quel treno non si sarebbe trattenuto per lui. Andò al botteghino e, con gesti e parole meccanici, tirò fuori una banconota e lasciò che gli venisse messo in mano un biglietto. A dir la verità, non era ancora certo che stesse facendo una cosa sensata... ma ormai non importava. Se Shirō Emiya compieva una scelta, non desisteva per nessun motivo al mondo; Archer lo avrebbe schiaffeggiato, se solo fosse stato lì, proprio per quel motivo, per le conseguenze che ciò comportava... incluso Archer stesso. Ma stavolta era diverso.
Il binario sei era il più vicino a dove si trovava, per fortuna. Il treno, uno di quelli ultramoderni ad alt velocità che ormai avevano cominciato ad infestare le stazioni e che presto avrebbero regnato incontrastati, si fermò con un sibilo. Aspettò che gli altri passeggeri scendessero, prima i avvicinarsi. Stava davvero compiendo quella follia per una ragazza? Sghignazzò. Come se Tohsaka fosse una persona normale. Per lei, lasciare tutto ciò che aveva in un'altra città spendere le ultime ore del venticinque dicembre non era che una piccolezza.
I made my baby cry.
Non lo avrebbe permesso ancora. Shirō si accostò al treno, varcò la porta e, una volta chiusasi questa alle sue spalle, sospirò, mentre una scossa gli annunciò che il suo Natale era appena cominciato, in realtà.
[Parole usate: 2326]
Finalmente ce l' ho fatta😅😅😅 chiedo ancora scusa ai giudici per aver avuto bisogno di questa proroga, ma sono riuscita a pubblicare e per questo li ringrazio ancora.
Spero sia di loro gradimento e che trasmetta qualcosa; se riuscirò a passare all' ultima fase, vedremo come andrà a finire il Natale di Shirō e Rin, sperando di farcela😅
Ancora scusa per il ritardo,
Kincha007
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