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Capitolo 6 - Un passo più vicino

La pioggia batteva sui vetri delle finestre prepotentemente.
Anche Novembre era giunto al termine, e Daphne se ne stava seduta sul cornicione della finestra nella sua camera, a contemplare la sua patetica vita.
Tra qualche giorno avrebbe compiuto diciotto anni, e le parole scritte nell'ultima lettera che aveva ricevuto le risuonavano in testa nonostante gli sforzi che aveva fatto per non pensarci.
Sapeva che leggere quelle lettere avrebbe cambiato tutto, ed era andata proprio così.
Daphne aveva provato a restare la stessa, a fare le solite cose, i soliti errori.
Aveva iniziato a frequentare il professore di francese, e nonostante l'eccitazione iniziale, quel senso di pericolo, del rischio di venire scoperti, si era ritrovata a sentirsi in colpa.
Non sapeva nemmeno lei come spiegarselo.
Era come se fosse consapevole di poter essere meglio di così.
"Le scelte, tutte le scelte che facciamo, hanno delle conseguenze. A volte lo si capisce in tempo, magari si ha la fortuna di recuperare agli errori commessi. Altre volte ci vuole più tempo. E forse la scelta che feci io quel giorno era sbagliata, ma era la più sensata per milioni di ragioni. Ed ora, a questo punto, ho paura che recuperare ai miei errori sia impossibile.
La mia malattia mi sta uccidendo lentamente, ma il pensiero di averti persa per sempre mi fa morire ogni giorno".
Daphne sentì le lacrime scorrerle sulla guancia. Le asciugò col dorso della mano, cercando di calmarsi.
Fece un respiro profondo, sbottonandosi la camicetta.
Si alzò e si chiuse nel bagno.
Si guardò allo specchio. Poi si girò, lasciando che lo specchio riflettesse la sua schiena. Voltò il viso, guardando la cicatrice sulla spalla. La toccò con le dita, leggermente.
Ne aveva anche un'altra, più in basso.
Non ricordava nulla dell'accaduto. D'altronde aveva quei segni sul corpo da quando era una bambina.
Socchiuse gli occhi, cercando di capire quale scelta prendere.

Durante i giorni di pioggia, gli studenti del collegio passavano il tempo chiusi nelle loro stanze, nella biblioteca o nella caffetteria.
Quel sabato Dan ed Hailey avevano deciso di pranzare insieme ai loro amici, poi la leggera pioggia mattutina si era trasformata in tempesta, e loro erano rinchuisi nella mensa in attesa che il tempo si calmasse per potersene tornare nei dormitori.
I tuoni rimbombavano tra le pareti, ed Hailey detestava l'idea di non poter andare con Dan al lago a suonare la chitarra.
Era quello che facevano praticamente ogni giorno, ed era il suo momento preferito.
«Se la pioggia non smette, resteremo chiusi qui dentro tutto il fine settimana» sbuffò Eliza con aria annoiata.
Raymond rise «È solo un po d'acqua».
«Scherzi? Mi sono piastrata i capelli stamattina, non ho assolutamente intenzione di bagnarmi».
Anche Hailey sbuffò «È uno spreco di tempo, stare qui a non fare nulla, comunque. Potremmo andare almeno nella biblioteca a studiare qualcosa...».
«Studiare? Stai scherzando, spero» commentò Eliza.
In quel momento Daphne entrò nella caffetteria. Indossava un paio di jeans ed una felpa scura con lo stemma della scuola sul petto, col cappuccio sulla testa. Aveva legato i capelli in una treccia e portava uno zaino sulla spalla.
Si avvicinò al tavolo, lasciando cadere lo zaino a terra.
«Dove vai conciata così?» le domandò Eliza.
«Ad Hoboken. Chi viene con me?».
Eliza sollevò un sopracciglio «Hoboken? A fare cosa, scusa?».
Daphne scrollò le spalle e guardò Jason «Ti va di accompagnarmi?».
Lui annuì sorridendo «Chi altro viene?».
Gli altri si guardarono. Comunque non avevano niente di meglio da fare.
Raymond alzò la mano. Eliza ci pensò un po su «Dobbiamo prendere i mezzi pubblici?» chiese rabbrividendo all'idea di dover salire sulla metropolitana.
«No, il mio autista sta venendo a prendermi» la rassicurò Daphne.
L'amica si convinse.
Hailey guardò Dan. Sembrava interessato anche lui «Vuoi andare?» gli chiese a voce bassa.
«Tu?».
Hailey scosse la testa, stringendosi nelle spalle.
Non moriva dalla voglia di andarsene in giro con Daphne, ma non voleva nemmeno fare l'asociale della situazione. Però aveva paura che i suoi genitori lo scoprissero. Le avevano espressamente vietato di andare uscire dal collegio, secondo loro doveva passare tutto il suo tempo libero chiusa lì a studiare.
«A che ora torniamo?» domandò dubbiosa.
Daphne sbuffò «Non lo so, entro il coprifuoco. Ma stiamo perdendo tempo, quindi decidetevi in fretta!» disse scocciata.
Hailey guardò di nuovo Dan, poi annuì.
Se rientravano entro il coprifuoco non rischiava nulla, i suoi non lo avrebbero mai saputo.

Jason non era mai salito su una limousine, e per tutto il tempo non aveva fatto altro che guardarsi intorno eccitato toccando ogni cosa.
Sembrava un bambino in un parco giochi.
Ci volle un po per arrivare ad Hoboken, la pioggia aveva mandato in tilt la città, e quando furono giunti a destinazione Daphne congedò il suo autista ricordandogli di tornare a prenderli alle 17.

«Ok ora che facciamo?» chiesero Eliza ed Hailey guardandosi intorno.
Erano in una delle piazze centrali della città e non avevano idea di dove andare.
Daphne tirò fuori il portafogli e diede delle banconote da tagli da 50 dollari a Jason «Tieni, portali in giro, a fare qualsiasi cosa di divertente ci sia da fare qui intorno» disse, guardando in giro alla ricerca della stazione della metro.
Eliza la guardò confusa «No aspetta, tu dove vai?».
«Devo fare una cosa, ci vediamo qui alle 17» disse solo, e poi si allontanò.
Quando fu sola, tirò fuori dalla tasca dello zaino un foglio di carta e lesse l'indirizzo. Cercò il percorso sulla cartina affissa nella metropolitana e si avviò.

L'ospedale metteva i brividi a Daphne. Puzzava di vecchio, e di disinfettante e c'erano malati ovunque e la cosa le metteva i brividi.
Non era abituata a posti del genere. Lei e la sua famiglia si rivolgevano sempre a delle cliniche private di alto livello, e non erano nemmeno lontanamente paragonabili all'ospedale in cui si trovava ora.
Nelle cliniche private la gente aveva la decenza di non andarsene in giro in pigiama trascinandosi dietro dei cateteri pieni di urine e altre schifezze, mentre lì doveva fare lo slalom tra pazienti pieni di tubi e aghi e flebo, era disgustoso.
Mentre camminava alla ricerca del reparto giusto sentiva lo stomaco contorcersi per l'ansia.
Per un attimo pensò di tornare indietro, ma ormai era arrivata fino a lì.
Fece un respiro profondo, quando trovò la stanza.
Dovette farsi coraggio per entrare dentro.

La donna era distesa sul letto, addormentata. Era magra e pallida, aveva la testa fasciata con una bandana a fiori.
Non aveva i capelli. Eppure Daphne riconobbe quella donna come se la conoscesse da sempre.
I lineamenti delicati, le labbra carnose, il naso alla francese. Fece un respiro profondo, avvicinandosi al letto con fare leggero. Non era sicura di volerla svegliare.
La guardò in silenzio per un po. Poi sobbalzò quando sentì qualcuno alle sue spalle.
«Non può stare qui, l'orario di visita è terminato» disse l'infermiera guardando Daphne «Puoi tornare stasera alle 18».
Daphne sospirò «No, non credo di poter tornare» mormorò continuando a guardare la paziente.
Lentamente portò la sua mano sul braccio della donna. Lo accarezzò leggermente. Non voleva svegliarla.
«Scusa se sono arrivata così tardi» sussurrò, guardandola per bene ancora una volta prima di andare via.
Uscì dall'ospedale di corsa, sentendo il bisogno di respirare aria pulita.
Fuori la pioggia aveva smesso di cadere.
Daphne si incamminò verso la sua prossima tappa.
Non era molto lontano da lì, doveva arrivare in un quartiere di periferia, e preferiva camminare perché aveva bisogno di distrarsi.
Sentiva il desiderio di piangere, ma al tempo stesso non riusciva a farlo.
Provava uno strano mix di emozioni: malinconia, tristezza, rabbia.
Più camminava, più le sembrava di cominciare a ricordare.
Piccoli dettagli a cui non aveva dato mai peso prima di allora.
Le ritornavano in mente le parole scritte in quelle lettere, e forse cominciava a trovare una giustificazione a parecchie cose.
I suoi genitori l'avevano sempre allontanata. Chiudendola in prestigiosi collegi, evitando di andare a trovarla più del dovuto, andando in vacanza senza di lei.
Aveva sempre pensato che fossero semplicemente due emeriti stronzi.
Sua madre la guardava sempre con aria di sfida, con occhi pieni di giudizio.
Aveva visto tante mamme andare a trovare le loro figlie al collegio, e mai nessuna le era sembrata così fredda e distaccata come la sua.
Si ricordò di quella volta in cui sentì i suoi genitori litigare, in cui sua madre urlava "Ci ha rovinato la vita". E Daphne sapeva che sua madre era fin troppo melodrammatica, ma ora le cose avevano più senso.
Sentì lo stomaco contorcersi, la rabbia aumentare.
Aveva vissuto cercando di fare di tutto per compiacere gli altri. Provando il dannato bisogno di sentirsi importante.
Il bisogno di fare in modo che tutti si ricordassero di lei, nel bene e nel male.
Arrivò su una strada quasi deserta. C'erano dei capanni, ed un locale alla fine della via.
Guardò l'insegna al neon. Era spenta.
C'era scritto "Wild Owl".
Le vennero in mente dei ricordi un po confusi.
Riconosceva quell'insegna e quell'edificio.
Era un vecchio pub. Sulla fiancata sinistra c'era una scalinata esterna che portava ad un appartamento al piano superiore.
Ricordava di essere caduta da quelle scale, da piccola.
Restò a qualche metro di distanza, a guardare quel posto, cercando di ricordare qualcos'altro.
Nella sua mente prendevano vita delle immagini sfocate di lei da bambina.
Tornò alla realtà quando sentì il rumore di una moto farsi sempre più vicino.
Guardò nella direzione del rumore.
Erano due motociclisti. Uno dei due tirò dritto, verso il pub.
L'altro sembrò rallentare, guardando Daphne mentre le passava davanti.
Daphne lo guardò percorrere qualche altro metro avanti a lei, per poi girare la moto, una Harley nera tirata a lucido, e tornare indietro.
Continuava a guardarla, percorrendo la strada per raggiungerla.
Poi si fermò davanti a lei, mettendo a terra il piede destro e sfilandosi il casco dalla testa.
Era giovane, aveva dei bei lineamenti nascosti sotto una barba bionda incolta, i capelli lunghi fin sotto le orecchie.
Gli occhi blu, puntati su Daphne.
La ragazza fece un passo indietro, stringendo le mani sulle spalline dello zaino.
«Ti sei persa?» le domandò il ragazzo, tirando fuori dalla tasca della sua giacca di pelle un pacchetto di sigarette.
Indossava due grandi anelli d'oro ed aveva le mani tatuate.
Daphne scosse la testa, senza parlare.
Aveva un viso familiare.
Lo guardò accendersi una Marlboro. Lui la stava scrutando, con un sorriso sulle labbra.
Daphne provò un attimo di terrore.
Quel tipo non smetteva di guardarla, e cominciò a provare un po di paura.
Era in una città che non conosceva, da sola, in una zona sperduta di fronte ad un vecchio locale decadente.
«Se non ti sei persa, che ci fai da queste parti? Non sembri il tipo di persona che frequenta posti del genere».
Daphne fece un respiro profondo. Non sapeva cosa dire, e non le capitava mai.
«Ti serve un passaggio? Posso accompagnarti da qualche parte?» chiese ancora il ragazzo, cercando di sembrare cordiale.
Daphne fece una smorfia «No, grazie» disse scuotendo la testa. Si schiarì la gola, cercando di assumere la sua tipica aria sicura di sé «Non sono così stupida da accettare passaggi da uno sconosciuto su una moto, con l'aria da criminale».
Non appena finì di parlare, si maledì, ricordandosi di non essere tra le mura del collegio dove poteva comportarsi da stronzetta con tutti rischiando al massimo di ricevere qualche insulto.
Fortunatamente il motociclista non sembrava offeso, anzi sorrise divertito.
«Giusto, è più che lecito».
Anche Daphne ora sorrise. Non era andata male, per un attimo aveva temuto di trovarsi in pericolo.
«Ti va di venire a bere qualcosa?» propose il ragazzo, accennando al pub con la mano.
Daphne ci pensò un po su.
Quegli occhi blu, quel sorriso, erano dannatamente familiari.
«

Ok».
Il ragazzo sorrise, allungando la sua mano destra verso Daphne «Mi chiamo Charlie».
Charlie.
Daphne strinse la sua mano «Daphne».
Vide il ragazzo annuire «Si, lo so».

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