«The First Time i Ran Up That Hill»
Ascoltai per la prima volta Running up that hill di Kate Bush nel settembre del 1985, in compagnia dell'ultima persona da cui mi sarei mai aspettata anche solo una minima tolleranza per quel genere di musica.
Lui non era tipo da Kate Bush. Associarlo a quell'artista mi veniva naturale quasi come parlare a Mike Wheeler senza far prevalere l'istinto di insultarlo ogni dieci secondi.
No. Da quando lo conoscevo, Billy Hargrove aveva sempre ascoltato canzoni che scuotessero le pareti di casa quando Neil era via, costringendomi il più delle volte ad indossare le cuffie nel disperato tentativo di bloccare quella che per me definire "musica" era un paradosso.
Le urla delle sue band preferite - Metallica, Scorpions? - non potevano essere più distanti dalla voce melodica della mia Kate: ed ecco perché quella mattina di fine settembre non ero riuscita a trattenere un fischio di sorpresa quando, frugando tra le cassette custodite nello scomparto della Camaro nuova, il mio sguardo si era posato sul nome di Kate Bush scribacchiato su una delle Cover.
Billy teneva lo sguardo fisso sulla strada, ignorando il fatto che mi fossi presa la libertà di sfiorare anche solo con un dito la sua amata auto e tutto ciò in essa contenuto: una cosa del genere non l'avrebbe mai permessa, prima.
Ma io - noi - stavamo disperatamente cercando di non pensare al prima.
«Cosa c'è?» Si limitò a chiedermi Billy. A qualsiasi altra persona sarebbe sembrato brusco - come biasimarli? - come se la domanda nascondesse un'accusa più che curiosità.
Ma io ero diventata brava a fare quel genere di distinzioni, oramai.
«Kate Bush, Billy?» risposi quindi con un ghigno, appoggiando la schiena al sedile e rigirandomi la cassetta tra le mani. «sul serio? Chi l'avrebbe mai detto che prima o poi avresti avuto gusto in fatto di musica.»
Con la coda nell'occhio lo intravidi sbarrare gli occhi e voltarsi verso di me con in volto l'espressione sconvolta di uno a cui era stato appena comunicato che la sorella più piccola stava aspettando un bambino. Alzai un sopracciglio in tutta risposta, mentre Billy tentava di recuperare il fare disinvolto di poco prima: si schiarì la gola e tentò di concentrarsi nuovamente sulla strada.
«Ti piacerebbe, Shitbird. Qui l'unica persona ad avere gusto tra i due sono io.» rispose, serrando ancora di più le dita attorno al manubrio. Avevamo appena raggiunto il semaforo, perciò fermò l'auto e con uno scatto secco mi prese la cassetta dalle mani.
«Ehi!» feci, tentando di recuperarla.
«Se proprio vuoi saperlo, non è mia. Perciò non devi toccarla.»
«Ma se è nella tua macchina!»
«E quindi?»
«Quindi è tua.»
«Sbagliato. È un regalo.»
Oh. Pensai. Interessante.
«Per chi?»
Il semaforo era di nuovo verde.
Billy prese un respiro profondo, premendo un piede sull'acceleratore. Avvertendo ancora il mio sguardo addosso, scrollò le spalle. «Non sono affari tuoi.»
«Okay, beh, deve essere una persona importante se hai deciso di spendere i tuoi risparmi su qualcos'altro che non siano i Metallica. Perciò-»
«Dio santo, Max. Puoi farti gli affari tuoi, per una volta?» lasciò andare un grugnito frustrato, passandosi una mano tra i capelli.
Okay. Me l'ero cercata.
O forse no?
Dio, parlare con Billy era sempre così, come affrontare un percorso ad ostacoli: non sapevi mai se al prossimo passo ti saresti imbattuto in qualche sorta di trappola nascosta.
Era da un po' di tempo che le cose andavano così, tra noi: tendevamo a punzecchiarci a vicenda lanciandoci contro insulti e commenti che non avevano nulla del veleno di prima, almeno finchè qualcuno di noi non oltrepassava il limite oppure semplicemente diceva la cosa sbagliata al momento sbagliato, e solo a quel punto calava il silenzio. Ed era come se nessuno dei due avesse mai parlato.
Stavamo ignorando a tutti i costi l'elefante della stanza, questo lo sapevamo entrambi. La verità era che nel corso del tempo eravamo giunti ad una sorta di accordo silenzioso: se tu non ne parli, io non ne parlo.
Non ero mai stata sicura che quella fosse la soluzione giusta, in realtà. Sapevo solo che il senso di colpa mi stava divorando giorno dopo giorno, ogni volta che incrociavo gli occhi di Billy, ogni volta che il mio sguardo si posava sulla piccola cicatrice sul viso o quelle sulle braccia. Potevamo far finta di nulla per quanto volevamo, ma il segno di ciò che era stato rimaneva.
È colpa tua, Maxine. Mi sussurrava quella fastidiosa vocina in continuazione. È solo colpa tua.
«Scusa.» bisbigliai nel tentativo di zittirla, riprendendo a guardare fuori dal finestrino con il mento appoggiato sul palmo della mano.
Mi chiesi se d'ora in poi sarebbe stato sempre così, parlare con lui: in costante attesa che qualcuno dei due dicesse la Cosa Sbagliata con la CS maiuscola, raggiungendo un punto di non ritorno.
Dentro di me, conoscevo la risposta. Tutta questa tensione... era diversa da prima. Io non ero la stessa persona di due anni fa. E di certo nemmeno Billy.
E forse era proprio quello che mi spaventava: il modo in cui tutto stava cambiando così velocemente.
Da lì a poco, anche El mi avrebbe lasciata: Joyce alla fine aveva deciso di trasferirsi. Era strano, trovarsi dalla parte di quella che rimane a guardare mentre gli altri fanno le valigie — strano nel senso negativo del termine.
Persa com'ero nei miei pensieri non mi accorsi che Billy si era mosso finché non lo udii smanettare con qualcosa.
Poco più tardi sentii il suono inconfondibile della cassetta che veniva infilata nella scomparto radio, e poi...
It doesn't hurt me, do you want to feel how it feels?
Do you want to know, know that it doesn't hurt me?
Do you want to hear about the deal that I'm making?
Era il nuovo singolo. Non l'avevo ancora mai sentito.
La settimana prima avevo pregato mia mamma di accompagnarmi al negozio di musica vicino casa per "dare solo un'occhiata, ti prego." , al che lei - con quel suo sguardo vacuo e stanco di sempre - aveva semplicemente ribattuto con un "adesso non è il momento, tesoro. Domani, promesso."
Il giorno seguente, e quello dopo ancora, aveva ripetuto lo stesso concetto con parole diverse.
Seppur infastidita, ero alquanto impressionata dal livello di creatività delle scuse inventate da mia madre.
Lentamente, con la paura di rompere quel momento così delicato, smisi di guardare il panorama al di fuori dell'auto.
Chiusi gli occhi poggiando la testa contro il sedile, avvertendo la tensione scivolarmi via dal corpo come acqua. Kate Bush mi faceva sempre quell'effetto: nonostante tutto ciò che avevo visto e affrontato durante i miei anni ad Hawkins, la musica non mi sembrava meno magica.
You, it's you and me...
Billy Hargrove non chiedeva scusa. Non a parole, almeno.
Questo io l'avevo compreso col tempo, e forse nemmeno del tutto.
Socchiudendo gli occhi voltai il viso in direzione del ragazzo in questione, il quale teneva lo sguardo testardamente puntato davanti a sè ma con una presa meno ferrea sul manubrio. Quando decise di parlare, quasi sussultai:
«Non è così male.»
Se non fosse stato per il fatto che la musica non era poi così alta, avrei pensato di essermelo immaginato.
«Già.» risposi dopo un attimo di intontimento, abbassando lo sguardo sulle mani intrecciate in grembo. «Non è male per niente.»
Non mi ero nemmeno accorta di star sorridendo.
...tell me, we both matter don't we?
You, it's you and me
***
Billy partì il 10 gennaio del 1986.
Per la California.
Quel posto sembrava esser fatto apposta per le partenze e gli arrivi — e per prendersi le persone a me più care.
Prima El e Will... poi lui.
Mi chiesi cosa ci trovasse la gente in quel posto. California non era mai stata casa per me. Non quanto Hawkins.
L' assenza di Billy tuttavia la si percepiva in ogni angolo dell'abitazione, in ogni piccolo anfratto o crepa. Quelle mura che avevano assistito a così tante liti, urla e tonfi, adesso apparivano semplicemente... svuotate.
Il giorno della partenza, ricordo di essere rimasta sulla soglia di quella camera per Dio solo sa quanto tempo, aspettandomi quasi di vederlo spuntare dalla finestra all'improvviso nel tentativo di spaventarmi.
Ci eravamo salutati con un abbraccio imbarazzato e durato troppo poco. Billy mi aveva assicurato che quello non sarebbe stato un addio. ("So che vorresti sbarazzarti di me in eterno, Shitbird, ma non accadrà.")
Subito dopo mi aveva chiesto se stessi bene, visto il pallore improvviso comparso sulle mie guance. Ed io avevo risposto che sì, ovvio, stavo benone, nonostante la verità fosse ben altra: Qualcosa in quella frase pronunciata con tono scherzoso aveva spalancato porte della mia mente che avevo sempre tentato con tutte le mie forze di tener chiuse a chiave.
Billy non poteva leggermi nel pensiero. Non avrebbe potuto sapere.
Ma in ogni caso non glielo avrei mai chiesto. Perché lo avevo lasciato andare, e non è che io a lui sarei mancata più di tanto... perché sarebbe dovuto essere il contrario? Andarsene da Hawkins era ciò che Billy aveva desiderato praticamente dal momento in cui avevamo oltrepassato il cartello "Welcome to Hawkins" in auto, ancor di più dopo...
Dopo la cosa di cui non avevamo mai parlato.
Gli dissi che gli avrei inviato delle lettere. Lui rispose che mi avrebbe chiamata.
Non avevamo saputo dirci addio.
Nonostante tutto, eravamo sempre stati Billy e Max. A Hawkins ci eravamo arrivati insieme, e adesso lui se ne stava andando, e a me erano rimasti i miei amici, una stanza vuota e una famiglia dimezzata.
Non avrebbe dovuto fare così male.
Il Billy Hargrove che avevo conosciuto prima della cosa di cui non parlavamo era morto quella notte del 4 luglio 1985. Ciò che ne era emerso era qualcuno che non avevo ancora compreso.
Avrei voluto avere più tempo con quel Billy.
Ma quel Billy apparteneva alla California, oramai.
Con un sospiro, chiusi la porta della camera di quello che avevo col tempo imparato a chiamare "mio fratello" e tornai nella mia.
Lì, tutto era rimasto uguale. Ogni cosa era al suo posto.
La odiavo.
Mi avvicinai alla finestra e la chiusi. Dopodichè mi voltai e feci per uscire dalla stanza, finché un oggetto sul comodino non attirò la mia attenzione.
Aggrottando le sopracciglia mi avvicinai al materasso e vi ci sedetti; presi tra le mani il pacchetto rosso e lo scartai con mani tremanti, senza aspettarmi chissà che, ma il mio cervello ci mise un po' ad elaborare ciò che i miei occhi stavano osservando.
Per Max.
Sarebbe dovuta essere una sorpresa, ma come al solito devi rovinare tutto.
- Billy.
Era la cassetta di Kate Bush.
Mi accorsi di star piangendo solo quando vidi una lacrima cadere sulla "Y" di "Billy", macchiando la cover.
Perché questo nuovo Billy Hargrove non chiedeva scusa: trascorreva il tempo ad osservare e a intercettare ogni tua debolezza o desiderio, e poi ti sorprendeva tanto da far sì che ti riuscisse impossibile non perdonarlo. E poi se ne andava prima che tu potessi farlo.
ANGOLO AUTRICE:
Se due anni fa mi aveste detto "ehi, indovina che cosa sarà a far terminare il tuo blocco dello scrittore? Una fanfiction di Stranger Things scritta in prima persona." avrei fatto un po' fatica a crederci. Poi però ci avrei pensato su e avrei detto "beh, la fanfiction su stranger things mi ha sbloccata anche nel 2019, so what's new?". Quindi la parte più scioccante sarebbe stata la narrazione in prima persona, che prima detestavo. Penso però che per i personaggi di Stranger Things sia più adatta rispetto alla terza: rileggendo le due versioni che ho scritto - quella in prima e quella in terza - ho sentito Max più in questa, però voi comunque fatemi sapere che ne pensate. Ci tengo alla vostra opinione.
Comunque, è stato un po' nostalgico riprendere in mano questa storia dopo tre anni e dopo tutto ciò che è accaduto nel mondo.
Ho però tante idee che spero di riuscire a portare a termine: ci saranno molti flashback e in un capitolo cercherò di scrivere più di un singolo POV.
Per il resto, questo come v'è parso? Mi scuso in anticipo per eventuali errori, sono un po' arrugginita.
In ogni caso vi ringrazio di cuore se siete riusciti a leggere fino a qui e... beh, ci si becca al prossimo capitolo!
P.S: pensavate che Billy vivo avrebbe significato "no more trouble for Max?" Well...
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