Capitolo Tredici
Il giovane Carabiniere Riccardo Felici, alla guida della volante, entrò nella via della villetta dove era avvenuto l'omicidio, come indicava la telefonata arrivata in caserma poco prima, e si meravigliò di trovarsi nel quartiere più ricco e curato della cittadina in cui prestava servizio. Nel suo anno e mezzo come Carabiniere non aveva mai trattato un omicidio, ma era pronto a scommettere che certe cose accadevano solo nella parte malfamata delle città, non certo in quella più ricca. Di sicuro, da dove veniva lui, a Milano, non si sarebbe verificata una cosa simile tra una figlia minorenne e un padre direttore di banca, ma lì nell'entroterra siciliano la vita era molto diversa.
Parcheggiò davanti al cancello di entrata, ricambiando uno sguardo d'intesa con il suo collega, il Carabiniere Simone Usai, seduto in macchina con lui. Nemmeno Simone era originario di quei posti, ma si era trasferito dalla Sardegna molto tempo prima con i genitori e ormai era più siciliano che sardo. Tra l'altro nessuno lo avrebbe mai detto dato i suoi capelli biondo cenere e gli occhi chiari, neanche l'accento era più lo stesso.
Varcarono un piccolo cancello in ferro battuto a forma di rami intrecciati e si ritrovarono ad attraversare un grazioso giardino con varie piccole aiuole fiorite, il quale continuava anche dietro la villetta, circondandola con un prato all'inglese molto pulito. La villa ricordò a Riccardo quella di suo zio, a Milano, che usava soprattutto durante il periodo di villeggiatura. Quando era piccolo e andava a trovarlo ne rimaneva sempre affascinato, i suoi genitori non erano ricchi come lui, ma lo zio ci aveva visto bene comprando quel ristorante a Milano due, tanto che alla fine ne aveva aperto addirittura un secondo, vincendo perfino una stella Michelin...
Arrivarono di fronte al portone d'ingresso e suonarono il campanello. Dopo alcuni secondi, aprì loro una donna bionda di circa cinquant'anni, che li guardò con aria scettica.
"Lei è la signora Caruso che abita in questa casa?"
"Ah, no no, io sono la vicina di casa, Concetta Misenti. Sono io che vi ho chiamati perché la signora era da me quando abbiamo sentito lo sparo, finalmente ce l'avete fatta ad arrivare!" Si fece di lato per farli passare. "Prego, entrate."
I due giovani carabinieri entrarono nell'ingresso guardandosi attorno, nessuno dei due aveva mai visto un disimpegno così pieno di quadri e soprammobili di ogni genere e dimensione. Riccardo si soffermò per un attimo ad ammirare un grazioso carretto siciliano di legno, con tanto di cavallo e cavaliere dipinti a mano, mentre la signora che aveva aperto la porta aveva ripreso a parlare raccontando in modo nervoso l'accaduto senza l'intenzione di voler prendere fiato. "...e vi giuro che ritrovarlo in quello stato è stato davvero uno shock. Fortuna che c'ero anch'io, altrimenti..."
"Mi scusi, ci può portare dalla padrona di casa, per cortesia?" La interruppe il brigadiere Usai.
La donna chiuse la bocca di scatto, contrariata. "Sì, certo, da questa parte." E con stizza fece loro strada verso il grande salone. Vi trovarono una donna di circa quarant'anni rannicchiata sul divano, con il viso rigato di lacrime che si tamponava convulsamente con un fazzoletto stretto tra le dita.
"Lei è la signora Caruso Margherita? La padrona di casa?" Chiese Simone, avvicinandosi.
"Sì, sono io..."
"Io sono il Carabiniere Usai, e il mio collega con me è il Carabiniere Felici. Le dispiacerebbe dirci quello che è successo?"
La donna si tamponò per l'ennesima volta le guance e poi guardò fisso di fronte a sé con sguardo assorto. "Lo sapevo che quella ragazzina sarebbe stata solo fonte di guai." Si soffiò il naso con la voce lamentosa, poi finalmente raccontò quello che era successo come un fiume in piena, iniziando da quando era andata incontro alla figlia alla fermata dell'autobus, mentre la vicina continuava a interromperla per commentare dal suo punto di vista. Alla fine, ai due carabinieri fu chiaro quello che successe. La signora era andata incontro alla figlia fino alla fermata dell'autobus e, nel tornare indietro, l'aveva mandata in casa da sola, avvisandola di non disturbare il padre che stava riposando nel suo letto, mentre lei si sarebbe fermata a prendere un caffè dalla vicina lì presente e, mentre erano intente a chiacchierare, hanno sentito uno sparo provenire da quella casa. Sono corse immediatamente a vedere cosa fosse successo, recandosi subito nella stanza da letto padronale, dove hanno trovato la figlia adottiva ancora con il fucile tra le mani e il signor Caruso inanime disteso nel letto con un foro al centro della fronte.
Riccardo Felici si accostò alla signora Margherita: "Possiamo dare un'occhiata al cadavere?"
La signora Misenti si avvicinò subito."Certo, vi accompagno io. Seguitemi, per favore."
Fece strada fino al piano di sopra, dirigendosi immediatamente verso la camera da letto padronale alla destra delle scale. Si fermò di fronte alla porta e li fece entrare. Riccardo entrò per primo e si avvicinò al cadavere disteso nel letto, facendo attenzione a non contaminare la scena del crimine. Osservò la ferita al centro della fronte, constatando che non avrebbe potuto sopravvivere assolutamente, il foro aveva forato l'obo occipitale, fuoriuscendo in traiettoria storta verso destra. Aveva gli occhi chiusi e gli schizzi di sangue sulla parete testimoniavano la vicinanza del punto di fuoco; il fucile utilizzato giaceva a terra ai piedi del letto, come se fosse stato gettato senza cura, mentre la cartuccia era vicino al comodino. Si chinò per osservarla meglio, prendendo l'occasione per guardare anche il pavimento lustro sotto al letto. Nell'alzarsi notò che l'uomo portava dei tappi nelle orecchie. Strano, per quale motivo un uomo doveva mettersi dei tappi nelle orecchie per riposare in una casa dove non c'erano fonti di rumore tali da poterlo disturbare? Si alzò in piedi e avrebbe voluto coprire il viso dell'uomo con il lenzuolo, ma prima di toccare qualsiasi cosa nel luogo del delitto si dovevano aspettare i rilievi dei NAS.
Uscirono dalla stanza e si avviarono verso le scale, quando fermò la comitiva, volgendosi verso la donna: "Signora, vorrei parlare con la ragazza, se è possibile."
La donna sembrò aver ricevuto un insulto. "E per quale motivo? Non c'è niente da chiarire con quella piccola vipera, è lei l'assassina. Non so cosa mai possa esserle preso per fare una cosa simile ma c'era da aspettarselo visto il suo passato..."
"Il suo passato?"
"Certo! È solo una piccola randagia, i signori l'hanno adottata e questo è stato il suo ringraziamento..."
"La prego," la interruppe il Carabiniere, "ho solo bisogno di parlare qualche minuto con lei."
La donna la accompagnò fino alla porta della sua stanza con aria contrariata e lì si fermò. "È questa la sua stanza." La indicò con un gesto della mano, come se le facesse ribrezzo anche solo toccarne la maniglia.
Riccardo si accinse a bussare alla porta senza badare alle parole della donna. Se la ragazza fosse o no colpevole dell'omicidio non era compito suo scoprirlo, l'unica cosa che voleva fare era parlare con lei a tu per tu per farsene un'idea personale. Bussò, ma non ottenne nessuna risposta. Bussò di nuovo e ancora nessuno lo invitò a entrare. Decise di entrare lo stesso. Aprì la porta e si ritrovò a fissare una ragazzina seduta in posizione fetale al centro di un enorme letto, intenta ad abbracciarsi le gambe e a dondolare avanti e indietro continuamente, fissando un punto imprecisato di fronte a sé. Era magrolina e molto carina, con un cespuglio di capelli rossi e ricci sulla testa che le mettevano in risalto i lineamenti fini e regolari del viso.
"Riaccompagno la signora al piano di sotto, nel frattempo." Lo avvertì il collega. Riccardo annuì e poi si avvicinò alla ragazza. Si chino vicino al letto mentre questa continuava nel suo movimento ripetitivo, senza dare cenno di averlo visto.
"Ciao, tu sei la figlia, vero?"
Selvaggia sembrò non sentirlo nemmeno, continuando a dondolarsi, sotto shock.
"Ti dispiace se ti faccio alcune domande?" Insisté con cautela "Vorrei parlare con te."
La ragazzina sembrava del tutto assente. Continuava imperterrita il suo movimento ondulatorio, come se fosse in un limbo dove non aveva cognizione di quello che le succedeva attorno.
Non sapendo che fare per risvegliarla dal suo letargo, Riccardo si sedette sul letto accanto a lei e le mise una mano sulla spalla. "Ti va di raccontarmi quello che è successo?"
Finalmente Selvaggia sussultò a quel contatto e si voltò verso di lui guardandolo con occhi sgranati e umidi. "Io non volevo ucciderlo... non volevo... io..."
Riccardo rimase letteralmente folgorato da quegli occhi meravigliosi. Erano rossi di pianto, sì, ma estremamente verdi e incredibilmente luminosi, nonostante fossero pieni di dolore e pena. Era talmente colpito che rimase a fissarla per un tempo imprecisato. Per un attimo gli sembrò che anche lei lo stesse osservando, poi di colpo lei ripeté con voce roca: "Io non volevo farlo... non volevo..."
"No, ti credo, tesoro... Come ti chiami?"
"Selvaggia..."
Bene, gli aveva risposto, era già qualcosa. "Ti va di raccontarmi quello che ricordi?"
Selvaggia non rispose, tornò a guardare davanti a sé con sguardo assente e a dondolarsi avanti e indietro.
Sembrava così piccola, così vulnerabile. Riccardo non poté credere che quell'essere così dolce e delicato potesse commettere un omicidio simile. Forse era ancora troppo ingenuo, come continuavano a ripetergli i suoi colleghi in caserma, ma l'istinto gli diceva che quella dolce ragazzina non avrebbe mai potuto uccidere un uomo a sangue freddo come invece la situazione suggeriva. Spesso l'apparenza era più ingannevole di quello che sembrava, spesso andava solo osservata da un diverso punto di vista.
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