L'AMANTE DEL NAGA SADHU
Amane ritornò ai suoi alloggi con la nausea e un'emicrania tali da lasciarlo stordito. Si lavò con l'acqua fredda prima di sistemarsi alla scrivania sommersa di rotoli e volumi. Aveva studiato le immagini che contenevano, cercando di estrapolarne un qualche significato, ma non era stato in grado di tradurle in qualcosa di concreto.
La lingua che gli haku parlavano si era sparsa fra tanti popoli per motivi economici e commerciali. Era una modalità di trasmissione privilegiata per affari e questioni diplomatiche. Con la guerra la sua importanza era cresciuta, rendendola una delle lingue ufficiali presso molti Stati, compreso Patala. I testi religiosi, tuttavia, non erano mai stati intaccati e la cultura naga restava in gran parte a loro inaccessibile.
I testi che aveva recuperato giacevano di fronte a lui immobili e segretati. Ne prese uno fissando le raffigurazioni raffinate che abbellivano una raccolta di miti. Era stato Kazuya a suggerirglielo, quando l'aveva trovato a trafugare i libri religiosi naga invece di bruciarli. In circostanze normali l'avrebbe denunciato al capitano come monito, ma nella posizione in cui si trovava aveva bisogno di uomini leali. Si era tenuto stretto Kazuya, tacendo quel suo vizio e la simpatia che provava verso i naga.
Era convinto che stare con Itachi e Sato lo avrebbe cambiato, temprando il carattere e riaggiustandone gli ideali. Kazuya doveva capire, in un modo o nell'altro, che simpatizzare per il popolo oppresso gli avrebbe messo contro la milizia e allontanato i compagni. Avrebbe annientato la sua reputazione e qualsiasi prospettiva futura nella società haku. Prima esiliato, poi emarginato e infine cancellato dalla memoria.
Osservò la pagina con la figura di un medico. Accarezzò l'immagine chiedendosi se non contenesse una qualche formula di guarigione. Non era una coincidenza: la malattia doveva essere un'opera umana. Mai avrebbe ammesso l'esistenza divina e mai si sarebbe sottomesso ad essa. Non restavano che i naga.
Guardò le proprie mani che tremavano, la sinistra più della destra. Ripensando a come i sintomi fossero comparsi si chiese, in fondo, se la malattia non fosse il risultato di un autoinganno. Le prime vittime erano cadute a Devi: guerrieri e soldati che avevano combattuto in prima linea. Erano succedute loro altre morti fra governatori e comandanti. E per finire i civili, gli haku che non avevano mai combattuto o brandito un'arma.
Era una terra maledetta. Dovevano conquistarla invece di restarne intrappolati. E ora non avevano dove andare. Che la nagini potesse portare prosperità e pace era una speranza ingenua e pure folle. Ma se l'epidemia non si fermava, agli haku sarebbe servito un potere diverso per tenere sotto controllo i naga. Potevano sfruttare la nagini per calmare gli animi ribelli e indurli verso una pacifica sottomissione. Una volta manipolata adeguatamente, sarebbe stata lei a renderli ciechi e inoffensivi nella loro devozione, limitando la violenza e le perdite nel doverli combattere.
Forse un giorno, impietosendosi, l'Imperatore avrebbe riaperto i confini. L'idea lo ossessionava, ma con amarezza Amane ammise a se stesso che non avrebbe mai fatto ritorno in patria. Non avrebbe pregato gli antenati nella tomba di famiglia né avrebbe rivisto la madre e il padre. Non soltanto sarebbe morto, avrebbe fallito nel generare prosperità e discendenza al clan Yamato. Era un destino umiliante e vergognoso degno di nomadi e vagabondi, non di guerrieri qual era. Eppure era la sorte che gli spettava.
Un velo di sudore gli copriva il volto in quella stanza umida e afosa. Lui non apparteneva lì. Odiava quella terra, il suo clima tropicale, gli insetti, l'afa che si alternava a piogge torrenziali. Disprezzava il loro cibo e il modo di mangiarlo, l'ammassarsi di animali in strada, le scimmie e i serpenti che si muovevano con libertà dominando quella terra di schiavi.
Richiuse il libro. Si abbandonò sulla sedia guardando il cielo dalla finestra aperta. Era buio, le stelle si vedevano appena: dei frammenti di luce che baluginavano pigramente. Accanto a lui una lampada a olio illuminava la stanza, lasciando gli angoli in penombra. Un unico baule conteneva i suoi averi. Aveva fatto spazio per custodire i testi naga. Lo infastidiva saperli là dentro, in così stretto contatto con la divisa, i suoi abiti e le armi. Pure accettando la sua condanna, il pensiero di restarne contaminato si insinuava a fondo in lui: essersi abbassato a tanto pur di capire, trovare la nagini e studiare la loro cultura, attraverso libri che si passavano di mano in mano. Portavano il loro odore, sapevano d'incenso e spezie. Ed era come vivere con un'entità naga in costante presenza.
Inspirò a fondo mentre si alzava. Doveva stendersi per calmare la nausea.
Una volta fatto il possibile per trovare la nagini, se ne avesse avuto la forza sarebbe tornato sulle montagne. Se non poteva morire fra la sua gente, sarebbe morto nella terra in cui aveva trovato pace da quando l'imperatore aveva chiuso i confini, intrappolandoli a Patala. Il pensiero gli tenne compagnia e gli allietò la notte, fin quando non si rese conto che ovunque fosse stato, sarebbe morto solo e poi dimenticato.
Trascorsero tre giorni da quando aveva prestato visita a Kinari. Andò a cercarla nel suo locale, trovando la naga invecchiata di parecchi anni, meno sicura di sé e con un volto tirato e cupo. Al vederlo Kinari si rasserenò perfino, mostrando una cortesia fredda e studiata. Lo guidò lungo un corridoio e poi giù per le scale, verso una stanza sotterranea che fungeva sia da dispensa che da ufficio. Ne veniva un forte odore di umidità e muffa, che gli fece venire voglia di finire l'incontro senza varcarne la soglia.
Lo scantinato era pieno di scatole e bauli, accatastati su un pavimento sudicio e grigio. Scaffali arrugginiti erano addossati ai muri, straripanti di carte e vecchi registri e con annotazioni malmesse che spuntavano dall'interno. Amane si addentrò nello spazio ristretto, evitando ogni contatto con gli oggetti sparsi lì attorno.
«Le informazioni che ti avevo chiesto, Kinari,» si rivolse a lei con una smorfia disgustata.
Una volta che si fu seduta dietro la scrivania, lei gli indicò il posto sulla sedia vuota. Amane osservò la sua postura, il volto fermo e lo sguardo determinato. Sorrise appena: la naga intendeva negoziare.
«Non ho trovato la nagini, non so neanche se ne esiste una adesso. Se ne sente parlare, ma se ne sentiva anche prima.»
«Quindi non hai niente per me.»
«Affatto!» La sua voce si alzò di tono. «Non posso darti la nagini ma voglio proporti uno scambio, qualcosa che potrebbe davvero interessarti.»
Niente più gioielli e ori, suppongo.
Con un lieve gesto della mano, Amane la esortò ad andare avanti.
Il labbro di Kinari tremava. «Ti propongo un naga sadhu.»
Amane rimase impassibile mentre il battito accelerava. «Un naga sadhu?» ripeté lentamente.
«Quanti dei vostri hanno ammazzato? Quante navi vi hanno bruciato? Te lo ricordi?»
Amane ricordava. L'esercito di Patala aveva resistito grazie al loro intervento: una grande forza fisica, eccellenti abilità nel combattimento e delle tecnologie mai viste prima, come la pietra incendiaria che avevano sviluppato. Erano chiamati tagliatori di teste per la ferocia con cui si accanivano contro gli haku.
Con la caduta di Devi, il nuovo governo li aveva brutalmente perseguitati fino ad annientarli. Pur non venerando la nagini, si erano messi al suo servizio e il giorno della sua morte, erano stati in molti a combattere per lei, dapprima tentando di difenderla e poi di vendicarla.
«Ricordi anche la strage di Manasa?»
La strage di Manasa. La fissò con un brivido; lo sguardo freddo e le narici dilatate mentre inspirava a fondo.
«La più grande strage dopo quella del Mandir di Uma Devi. Centinaia di asceti massacrati... Ma i naga sadhu vi hanno dato del filo da torcere. Per uno ammazzato, sono caduti tre asura.» Kinari si sporse verso di lui al di sopra del tavolo. «Un naga sadhu ancora in vita.» Cercò di ingaggiare il suo sguardo. «Scampato alla persecuzione. Un tagliatore di teste ancora in vita dopo aver trucidato i tuoi simili. Accetti lo scambio, haku? Mio nipote in cambio del naga sadhu?»
Amane si poggiò allo schienale incrociando le braccia, vide le mani di Kinari in preda a un tremito. Piegò il collo all'indietro, lo sguardo puntato sul soffitto annerito dal tempo. Aveva combattuto contro i naga sadhu, aveva visto i suoi uomini cadere per mano loro. Aveva preso d'assedio il tempio di Manasa, partecipando al loro sterminio.
«Haku?» sussurrò Kinari con urgenza. «Accetti lo scambio?»
Amane si alzò lentamente. Poggiando le mani sul tavolo si sporse verso di lei, fissandola negli occhi. «Dovrai convivere con la consapevolezza che avresti potuto salvarlo, ma non l'hai fatto. E il ragazzino è morto per la tua inezia. Arrivederci, Kinari. Non mi farò più vivo.»
Le diede le spalle, sul punto di andarsene.
«Ho parlato alla sua amante!» Kinari scattò in piedi. «Ha detto che la morte della nagini ha scatenato l'epidemia e soltanto con il suo ritorno la farà finire.» I suoi occhi luccicavano ricolmi di un folle spregio. «E io spero che non arrivi, fino a quando l'ultimo di voi non è stato soppresso!»
Amane si voltò e con impeto violento sbatté le mani sul tavolo facendolo traballare. Kinari sobbalzò con un'espressione atterrita sul volto.
«Fai sapere al tuo naga sadhu che presto raggiungerà la nagini nell'eterno nulla. Se noi cadremo, vi battezzeremo nel fuoco. Di Patala non resteranno che rovine e polvere.»
Seguito dalle sue urla e maledizioni risalì le scale, portandosi lontano da quel posto marcio e depravato.
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