Capitolo 5
Wisconsin.
Alan Taylor sentiva qualcosa di speciale per quella terra, qualcosa che non percepiva per nessuna altra città. Il Wisconsin era il posto dove avrebbe voluto stare e vivere, il posto che lo faceva tornare ai tempi in cui la sua unica decisione era comportarsi da bambino, ma poi tutto cambiò.
Tutto mutò in qualcosa che non sarebbe più stato, alla vigilia di qualcosa che era inafferrabile come i diciotto anni che non sarebbero più tornati.
Fu Austin Taylor a distruggere irreparabilmente la vita di Alan, quando decise un giorno di fine primavera di lasciarli, perché quella sua esistenza non lo soddisfava più. Aveva cercato, infine aveva trovato la donna per lui e si era lasciato travolgere da una tempesta di sentimenti.
Aveva abbandonato la sua gracile madre e lui che a quel tempo aveva dodici anni.
Da quel momento Alan nella sua ingenuità iniziò ad odiare quell'uomo e si rifiutò di chiamarlo ancora padre, e si limitò ad Austin o a signor Taylor.
Aveva imparato a discapito di se stesso che tutto ciò che si creava in qualche modo andava in mille pezzi, come se il mondo potesse essere osservato come una grande teca di cristallo fragile, che conteneva quei pochi desideri che per un momento si toccavano, ma poi erano astratti, come quella sua breve felicità. Alan ormai non desiderava pensare a lui, che alla porta si sarebbe ripresentato, con quel sorriso, quelle braccia su cui gli piaceva dondolarsi costantemente, quando l'odio e il disprezzo non sommergevano quel poco affetto; ora quella porta per lui sarebbe rimasta chiusa, una dura corazza a far da sfondo alle patetiche sporadiche visite di convenienza. Tornava in Wisconsin, il più delle volte per riallacciare i rapporti con Alan.
Ma lui non lo voleva vedere.
Se poteva, con scusanti poco credibili che rifilava alla madre, se ne stava rintanato nei suoi studi.
Guardava da un piccolo spiraglio, e udiva dal secondo piano quella voce maschile, sensuale, con un pizzico di ripugnanza. Sua madre gli andava ad aprire, il suo cuore pareva ripristinarsi per quei pochi minuti che rivedeva il suo ex.
L'ultima volta che Austin si era trattenuto nel Wisconsin fu solo per avvertirli della nascita della sua figlia, la sorellastra di Alan.
Una piccola bambolina che tratteneva nelle mani come un piccolo gioiello e che fecero rimpiangere ad Alan i tempi in cui allo stesso modo lui veniva amato, la gelosia che la sua adorata sorellastra avesse ciò che lui aveva perduto.
Una famiglia.
Austin si era sposato.
Quello fu la goccia che fece traboccare il vaso, che fece cadere tutte le speranze, quello che uccise e piegò la donna forte e orgogliosa, che si nascondeva in qualche angolo buio se non riusciva a ricacciare indietro il suo dolore.
Alan le doveva tutto.
Era la persona che aveva anteposto le sue paure per sostenerlo quanto poteva e lui voleva fare lo stesso.
Anzi doveva.
Austin era un capitolo che si era appena concluso, e lui aveva imparato ad accettarlo nonostante gli costasse, nonostante non avesse coraggio per valicare quell'ostacolo e per la prima volta sapeva che sarebbe caduto.
Così si era deciso ad abbandonare la sua fanciullezza per delle responsabilità, le stesse che Austin gli aveva addossato, ma per lui non erano un dovere, ma solo il modo più semplice per ripagare quella donna, che si stava spegnendo come la luce consumata di una candela.
Alan non poteva fare niente per allontanare da lei il fantasma della sofferenza, poteva solo abbassare il capo, e attendere, attendere un miracolo che non sarebbe mai avvenuto.
Guardare con distacco a quel momento, che sperava sarebbe stato lontano e gli avrebbe permesso di passare quel tempo con lei, anche solo per accarezzarle i morbidi capelli o leggerle nello sguardo la stessa determinazione di quando era ancora bambino. Sapeva che sua madre era destinata a proteggerlo in un altro modo, e che lui aveva soltanto una cosa da compiere in quel percorso per dirsi completo: lasciarla andare.
Wisconsin.
Alan accelerò l'andatura della sua Porche bianca fino a circa 70 km/h su strada sdrucciolevole che si apriva verso l'orizzonte. La stessa strada che faceva ogni volta, che ormai aveva imparato, circa cinque chilometri che lo separavano dal quartiere di ValsBorguses.
Il ragazzo aveva il finestrino del conducente semiaperto, mentre il vento gli muoveva quelle ciocche, che gli sfioravano il mento.
Alan passò dalla seconda alla terza, aumentando la velocità, perché voleva annullare quella distanza che lo separava dalla sua amata ragazzina deboluccia come un giunco in estate. Poco era il tempo che gli riservava il destino, presto la casa sarebbe stata vuota e la sua voce inconsistente di emozioni, ancora una volta ignorata da quelle pareti e dal mondo che continuava a remarle contro. Sola la sua dolce donna in Wisconsin, mentre lui in Minnesota per sua scelta e per lei.
Alan sterzò una curva mentre il deserto di fronte andava diminuendo, gli spogli alberi adunchi sulla strada davano spazio a una primitiva piazza.
La piazza di ValsBorguses.
Inoltrandosi un mucchio di tetti spioventi, casupole di legno marcito, tegole consumate, dai comignoli una scia di fumo nero.
Alan osservò quella città ormai allo stremo delle forze, schiacciata dalle tasse e dell'estrema solitudine, poi passò alla quarta marcia arrivando a sfiorare il limite. Quando vide il cottage diminuì improvvisamente e fermatosi le ruote stridettero contro il margine del marciapiede.
Alan tirò il freno a mano e tolse la chiave dal quadro, recuperando il giubbino dal sedile posteriore poi scese e chiuse la portiera.
Vide due macchine. Una nera, lunga, una Ford ferma davanti al garage, e un'altra rossa, di tipo sportivo. Appoggiato con la spalla un signore stempiato, ingabbiato nel giubbino si fumava una sigaretta.
Alan gli andò vicino e il tipo appena voltò lo sguardo, guardandolo, gli andò incontro.
<<Alan, finalmente!>>
Era il vicino di casa di Alan
Gruber, quello della chiamata.
Alan gli piantò gli occhi blu nei suoi grigiastri. <<Signor Gruber! Avete già chiamato il dottore?>>
<<È forse la prima cosa che ho fatto.>> gli rispose quello, disponendosi al suo lato sinistro per accompagnarlo dentro.
<<È in casa.>>
Alan entrò nella piccola ma confortevole abitazione, avendo accesso al breve tratto di corridoio poi si apriva il piccolo salotto dai mobili antichi mogano e un divanetto blu, più in là una vetrinetta con varie robe di argenteria disposte.
Alan e Gruber non appena aprirono la porta, si trovarono la figura imponente del dottore, l'unico della piccola cittadina del Wisconsin, mentre dava istruzioni alla paziente.
La donna se ne stava sotto un plaid marrone che le copriva le gambe scheletriche e una sciarpetta di lana che le stringeva il collo; non appena Allison vide Alan apparire alle grandi spalle del robusto Pitt, le sue labbra violacee e screpolate incresparono un sorrisetto sincero.
<<Ma guarda... Alan, tesoro.>>
Il figlio posò il giubbino sullo schienale di una sedia della grande tavola, poi si sedette sul ciglio del divanetto.
Allison tolse le mani rugose e fredde dal plaid e gliele strinse nella sue per cercare un po' di caldo, i suoi occhi dolci e stanchi lo spinsero a tirare su col naso.
<<Ma che bella sorpresa, figliolo. Cosa ti porta qui da questa povera vecchia e malata?>> mormorò.
Alan la guardò serio, come se stesse per rimproverarla, ma poi vedendola sparire così velocemente, la rabbia diede posto a preoccupazione e angoscia.
La madre lo notò.
<<Oh andiamo! Che sarà mai svenire per qualche minuto?>> disse sarcastica, osservando Gruber, che se ne stava in disparte da quella che pareva assumere un qualcosa di familiare che a lui non era concesso farne parte.
<<Diglielo tu Gruber a questo testardo di mio figlio!>>
Gruber fece spallucce.
<<Mamma, non è questo il punto!
Non devi scherzare come se fosse una cosa normale che capita a tutti, perché non è così, la tua malattia va tenuta sotto controllo.>>
Allison massaggiò la guancia di Alan tirandogliela e scompigliandogli la profonda massa di capelli neri, che aveva ereditato da Austin, come quando era piccolo.
<<Lo so che ti preoccupi e ti faccio preoccupare, ma se il destino vuole portarmi via da te se domani o tre mesi, noi dobbiamo accettarlo.>>
Alan abbassò lo sguardo, appoggiando la sua mano su quella bianca della madre portata verso la sua guancia e chiuse gli occhi. Erano quei momenti in cui le sue mille spiegazioni filosofiche non sarebbero servite, quel momento in cui bisognava colpevolizzare la vita; una reazione a catena che lo avevano privato di troppe cose, della sua famiglia unita, di suo padre e del suo amore definitivamente morto, e ora della sua cara mamma, che debole e piccolina si sarebbe addormentata nelle nuvole nere della morte e di lei cosa gli sarebbe rimasto?
Polvere, essenza non percepibile, forse i tanti momenti, il dolce profumo per quel cottage dei suoi dolci o delle sue crostate, la voce che lo chiamava a tavola che avrebbe finito per dimenticare assieme al dolore che gli avrebbe lacerato il cuore e i suoi ultimi brandelli, ma non era colpa di nessuno se non di chi aveva sentenziato questo.
Sua madre sarebbe morta.
Tre giorni.
Tre settimane.
Tre mesi o tre anni.
Ma lei non voleva ossessionarlo con il tema della morte, non voleva dargli altri problemi come il suo costante deperimento, sapeva che la morte non le avrebbe dato via d'uscita, che nessuno le aveva dato speranze, il suo male era talmente grande da averle inglobato il corpo; il suo cuore già non sopportava, voleva finire quella corsa, voleva staccarsi, smettere di soffrire e per trovare pace lei doveva morire. Anche se questo avrebbe distrutto Alan e lo avrebbe ridotto al dolore più profondo, anche se sarebbe rimasto emarginato ai confini di un mondo ingiusto che non faceva che corrompere con le proprie azioni un domani che non voleva arrivare.
Alan non aveva mai accettato il cancro, come invece Allison, che non aveva più motivo di costruirsi una nuova vita, cercare quegli orizzonti che Austin aveva trovato in Nancy. Le restava solo navigare nei ricordi dove suo marito le appariva come una forte luce che compariva dalla sua porta.
Era ancora innamorata, anche se Alan non riusciva a capire perché non lo odiasse dopo tutto quel male che le aveva causato.
Allison rispose che quando è amore, quando vedi una persona in ciò che fai e in ciò che immagini, hai completamente perso la ragione e ti sei innamorato follemente.
Anche lei era folle, solo perché nonostante la visite, nonostante lui chiudesse alle spalle la porta della sua casa e la lasciasse affranta, nonostante il secondo giorno si ripetesse sempre la stessa storia, lei ancora lo voleva al suo fianco.
Malediva quella donna, Nancy, la biondina che il marito aveva preferito più di lei, che adesso aveva la sua protezione e il suo totale appoggio, mentre lei morente aveva perduto la sua ultima speranza e stava per concedersi a un destino crudo e strafottente. Allison si preparava alla condanna suprema, dopo una lunga degenza in ospedale e altrettante sedute di chemioterapia per ridurre il male interiore, non c'era che attendere immobili la propria ora, senza possibilità di tornare indietro.
Allison sorrise.
<<Anche se morirò.. io starò con te per sempre, e se Dio me lo permetterà ti verrò a trovare ogni notte.>>
Alan le baciò la mano.
<<Io non vorrei mai perderti.>> sussurrò in un filo di voce, mentre sentiva gli occhi pizzicare.
Ancora più mesto e sofferente fu l'espressione di lei, mentre si stringeva le mani al petto, mentre la sua sagoma scivolava sotto il peso del plaid. Alan smise si stringere la mano e gliele nascose sotto la calda coperta, mentre Pitt riposto tutto l'occorrente nella valigetta gli andò vicino.
<<Figliolo, sono stanca.>>
<<Allora dormi, mamma.>>
Alan si alzò e le consegnò un frettoloso bacio sulla fronte, mentre la robusta mano di Pitt gli stringeva una scapola.
<<Signor Taylor.>> si schiarì la voce.
Alan si voltò.
<<Ehm... dovrei parlarvi, se potete seguirmi di là in corridoio.>> continuò, facendo segno di dirigersi verso la porta.
Alan dette una frettolosa occhiata alla madre, che si era lietamente assopita, e si congedò con l'ordine di controllarla dal signor Gruber poi uscì, socchiudendo la porta.
Il dottor Pitt si aggiustò gli occhiali che gli cascavano sul naso un po' storto, alla cui fine aveva una gobba.
Alan era addossato al muro, torturandosi il labbro inferiore, mentre attendeva quel referto medico, che poteva farlo salire in cielo fra luci e cielo indistinguibile o scaraventarlo nel fuoco dell'inferno. Ma quello stupido medicuccio non si decideva, guardava in basso al pavimento sotto di loro, cercando il più possibile di rimandare al domani quell'atroce sentenza che a nessuno medico piace dire.
Alan però sapeva che niente di ciò che interessava sua madre, la sua gracile fanciulletta sofferente dei tanti affanni era da ritenersi positiva, visto e considerato una situazione fin troppo disperata.
Pitt sospirò.
<<Dottore, per favore.>> lo esortò in cagnesco Alan, suonando più come una protesta che altro.
<<Va bene.>> dalla sua valigetta ne tirò fuori un foglio bianco con delle scritte indecifrabili. <<Purtroppo la signora è peggiorata, signor Taylor.>>
<<Questo lo so!>> sbuffò il giovane, sapeva che sua madre stava male, altri specialisti le avevano predetto che sarebbe deceduta e non avrebbe superato il mese, ma tutto si era rivelato infondato nonostante la materia fosse ormai impregnata di quel male incurabile, quel mostro che tutti hanno paura di pronunciare.
<<Aspetti.>>
<<Mi dia notizie vere e provate.>>
<<Gli ultimi mesi rivelano che il cancro di vostra madre si è esteso fino al settantacinque per cento della sua massa corporale e che ha smesso di sottoporsi alle chemio previste.>>
<<Ho cercato di convincerla, ma è testarda come un mulo!>> esclamò il ventiquattrenne.
<<Sì, però devo dirvi una cosa nuova che purtroppo questa volta è vera.>>
<<Sì, lo so. Anzi so benissimo che il suo cancro non è curabile.>>
<<Non solo non è curabile.>> aggiunse Pitt, mostrandogli la cartella. Alan cercò di decifrarla con occhio clinico, ma gli risultò molto difficile. <<Ma se la matassa di cancro invaderà tutti gli organi e tutto il corpo.>> si interruppe, ordinandosi un silenzio religioso.
Alan alzò gli occhi dalle scritte.
<<Cosa intende dottore?>>
Pitt evitò lo sguardo del giovane.
Sentiva che questo lo avrebbe certamente distrutto, soprattutto perché per quanto si fosse impegnato con il suo lavoro in Minnesota sua madre comunque non aveva altro da fare che aspettare. Aspettare di morire.
<<Sto intendendo che a vostra madre rimane pochissimo tempo.>>
<<Quanto?>> chiese.
<<Poco, il cancro la sta divorando.>>
Il mondo gli precipitò addosso.
Davvero, non c'era giustizia?
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Alan sta per perdere sua madre, dopo che Austin l'ha abbandonato.
Non ha nessuno che lo posso consolare, ce la farà a non autodistruggersi?
Se vi è piaciuto il capitolo una stellina e un commentino per il mio -spero accettabile - lavoro.
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