Capitolo 47
[Pov's Alan]
Ti ricordi, mamma?
Ricordi cosa mi dicevi?
Le tue parole erano verità consacrate per me. Era come ascoltare il vecchio saggio del villaggio che aveva vissuto più di tutti ed io invece ascoltavo te.
Avevo soli sei anni, ma tu mi trattavi da ometto. Non come le altre mamme che segregavano i figli in una campana di vetro per non farli soffrire.
«La sofferenza fa parte della vita. Non la si può anche solo provare ad escludere.» mi ripetevi, perché molte volte il dolore ti aveva costretto a una vile resa.
«Esso tornerà lento e implacabile e non potrai più liberartene.» continuavi, nascondendo a un essere fragile la tua stessa fragilità trasformandola in caparbietà.
Dovevi essere forte, anche se il mondo dentro te crollava poco a poco. Dovevi fingere di sapere tutto, rispondere alle mie domande infantili e chiarirmi i dubbi e al contempo i tuoi.
Avevi una missione. Una missione importante che avevi accettato, quando per la prima volta mi avevi accolto nella tua vita. Quando il primo giorno, al primo vagito, ti avevano permesso di stringermi a te. Quando i nostri occhi si erano incrociati e i nostri cuori con fatica riconosciuti. A poco a poco avevamo fortificato quella simbiosi, quel filo invisibile, che ora si è spezzato. Ogni cosa aveva perso il significato. Le strade che scomparivano dietro la mia auto, grigie di un sole malinconico. I tetti del mio quartiere che sbuffavano fumo.
Le decine di macchine che avevo contato ferme dinanzi al cottage.
Tutti erano venuti a darti un ultimo saluto. Tutti ci tenevano ad accarezzarti la pelle gelida e inanimata, lasciarti fiori al capezzale e presentarsi al mio cospetto per ostentare le loro condoglianze, per fare il loro dovere di persone, vicine, conoscenti, parenti stretti e alla larga, ma nessuno avrebbe sofferto più di me nel lasciarti.
Guardarti allontanarti, come una bimba che giocava sulla riva del mare la cui acqua trasparente ti scivolava sui piedi. Voltarti e agitare le mani. Abbandonarti nel caldo abbraccio della terra natia.
Lutto, lacrime, omelie, parole che non bastaranno per compensare il vuoto che il ritrovato bimbo si porterà con sé. Le lacrime scivoleranno salate sulle guance, delle mani si appoggieranno sulle scapole, i silenzi, il vento fra le fronde degli alberi di pino che accompagnerà la fine delle esequie.
Alla fine tutti torneranno a casa loro, da chi li attenderà a braccia aperte e io invece?
Io entrerò in casa, e pregherò di seguire la tua stessa sorte.
Scesi dalla vettura trascinando le gambe con sforza. Avevo gli occhi socchiusi. Avevo pianto troppo.
La mia maschera di forza si era frantumata. Non restava nulla.
«Ce la fai a camminare, Alan?» mi chiese Enric viste le mie penose condizioni.
A stento avevo dormito, gravavano sul mio equilibrio mentale più di sette ore di insonnia.
«Sì», sibilai. Non avevo nemmeno il coraggio di parlare. Non avevo la facoltà di fare nulla. Il mondo si era fermato con quella chiamata.
«Vieni, ti accompagno.» prese il giubbino e mi ordinò di indossarlo visto il vento forte che si era alzato quella mattina in Wisconsin.
Non mi opposi. «Appoggiati a me.» ghermito nel cappotto, e trattenuto dal braccio teso di Enric andai incontro a una prima schiera di persone che bisbigliavano.
Al vedermi arrivare stravolto si avvicinarono uno alla volta.
«Condoglianze, Alan.» ripetevano, aggiungendo anche qualche commento positivo sulla bontà di mia madre. Altri per quanto erano stravolti dall'accaduto si limitavano ad abbracciarmi, sostenermi con parole incoraggianti, perché mia madre non voleva che piangessi. Accettavo quei consigli e accennavo un disperato cenno col capo senza proferire parola.
Dalla porta d'ingresso la grossa figura del medico Pitt fece la sua comparsa. Mi venne vicino e con una stretta di mano mi mormorò: «Condoglianze, Alan. Sapevo sarebbe accaduto.»
Era lui che aveva certificato il decesso. «Come-» mi interruppe.
«È stato fulminante, Alan. Tua madre ha avuto un arresto cardio respiratorio. Non ho potuto fare nulla, solo certificarne la morte.»
Ascoltavo, ma non ero lì. Quelli erano solo flussi imprecisi di parole che mi investivano come acqua gelata. Guizzi di cose accadute nel giro di nano secondi. Potevo essere presente, invece che andarmene in giro a fare la figura del romantico con una ragazzina.
Dovevo occuparmi di mia madre. Del suo cancro. Della situazione che era disperata. Perché non ero stato presente quando era accaduto?
Volevo parlarle, dirle tante cose, dirle che non ero stato il figlio che si meritava, dirle che ero stato incapace di salvarla da quel mostro di Austin, che le aveva reso impossibile la vita solo nascendo.
Toccarle le mani, stringerle nelle mie per scaldarle, alleviare i dolori, prometterle di essere migliore, di starle vicino, e alla fine accarezzarle i capelli e guidarla nel suo ultimo respiro, prima che la vita le scivolasse via.
Non era andata così. Era morta, senza di me. Senza suo figlio.
Che razza di persona ignobile ero?
«Voglio vederla.»
Pitt si aggiustò gli occhiali.
«Meglio di no.»
Mi stava proibendo di stare al capezzale di mia madre? Era morta, non tornava in vita come nei film. Era realtà questa. La morte non ti rispediva indietro.
«Credimi. Soffriresti di più. Non è un buon momento.»
«Voglio vedere mia madre, cazzo! Lasciamela vedere, ho bisogno di rivederla, almeno un'ultima volta.»
Mi portavo dentro un peso insopportabile. I sensi di colpa di non essere stato presente mi corrodevano l'anima.
Pitt fissò Enric. Cercava da lui il permesso. Lui scosse il capo.
«Ok. Stalle vicino.» mi disse infine, e si spostò perché potessi accedere alla porta, dietro cui c'era il corpo inerte di mia madre. Avrei voluto picchiarlo, ma nelle condizioni in cui ero non mi era stato possibile per quanto lo avessi arditamente voluto. Enric mi guidò da paralitico fino alla porta, poi mi abbandonò per restare fuori a fumarsi una sigaretta. Quelle scene non gli piacevano. Gli facevano impressione i morti, tranne quando li sistemavano e li chiudevano nelle teche di legno.
Scese pazientemente il vialetto e si accese una Malboro, mentre io entrai nella mia casa. Mi chiusi la porta alle spalle, ottenendo l'attenzione delle persone in nero che costeggiavano i lati del corridoio. Ogni angolo era immerso nella malinconia, nel dolore di chi la conosceva e adesso la ricordava nei gesti quotidiani.
Come quando coltivava la passione per il giardinaggio, anche se il medico glielo aveva tassativamente sconsigliato per la salute precaria. Già, mia madre era una testona di quelle dure, forse per questo motivo negli anni, in quel quartiere di quattro gatti, si era fatta amare. Superai la provvisoria barriera di anziane munite di fazzoletti, e procedetti accalcato al muro fino alla stanza da letto al piano superiore dove avevano disposto la defunta.
Anche lì c'erano persone in lacrime, e altre dentro alla stanza, sedute sulle sedie recuperate dal tavolo in cucina.
Mi affacciai ed era lì.
«Mamma.» biascicai, chiedendo il permesso a un uomo con la barba, che me lo concesse slittando con la moglie poco più lontano dall'uscio. Entrai e subito tutta l'attenzione si catalizzò sulla mia presenza. Le donne sedute sulle sedie smisero di singhiozzare inutilmente e si asciugarono con i bordi del fazzoletto gli occhi. Una di quelle fu gentile e si alzò, liberando la sedia accanto al letto. Ringraziai e presi posto nel mutismo generale.
Puntellai il gomito sul letto, e presi fra le mani chiudendole nel pugno le sue invece gelate e robotiche.
Il suo corpo era dritto come un tavolo di legno. I piedi uniti, le mani prima conserte e incrociate sul grembo in posizione innaturale. L'avevano pettinata. La sua criniera castana composta si appiattiva sul cuscino. Legata in una delle crocchie in un improvvisato raccolto e anche il suo volto era stato migliorato con del trucco appena visibile, il che la rendeva ancora viva con quelle sue labbra minuscole e violacee pitturate di rosso.
«Ciao mamma.» un singhiozzo mi frenò nuovamente. Mi portai una mano a coprirmi la bocca. Sospirai, e ripresi. «Non era così che volevo finisse. Avrei voluto passare più tempo con te che sei la cosa più importante della mia vita. Come farò?»
Lei manteneva quella sua posizione. Non rispondeva, non muoveva le palpebre, non stava fingendo di dormire, anche se pareva fosse in procinto di svegliarsi come tutte le mattine.
Era immobile. Statica.
«Come farò a vivere mamma? Ho perso tutto. Ho perso te, ho perso Sofia, e forse per le mie disattenzioni anche il lavoro.»
Silenzio.
«Non mi rispondi? E come potresti? Sei morta, mamma.»
Cercavo di autoconvincermi, ma sbagliavo. Dovevo accettarlo, nel suo corpo non scorreva più sangue, né ossigeno e non batteva più nulla. Ma il problema più grande era quello. Arrendersi.
«Scusa se non sono esattamente quello che volevi.» feci una pausa e le baciai le mani. «Ti ho tradito come quel lurido bastardo di Austin a quel tempo. Ti ricordi quando sei caduta dalle scale? Credevo di perderti, e invece no. Siamo stati insieme anche se in due. Tu eri la mia famiglia. Lo sarai sempre. So che chiedo un perdono che non otterrò mai dalle tue labbra.» alzai il volto alla finestra. Il davanzale era grigio come il cielo, e dava alla stanza mortuaria un tono orribilmente triste. Nella stanza si disegnavano minacciose ombre, che avvolgevano tutt'intorno i muri bianchi opachi. Un grosso armadio marrone, spinto nel fondo collocato alla parte sinistra e il letto coperto da un telo ricamato alla destra. Dietro alle mie spalle la cassettiera, e sul muro proprio sulla testa di mia madre il quadro di un santo.
Lei indossava un vestito con pizzi e merletti ricamati sul collo alto e scendeva man mano più stretto lungo la gracile figura mettendo in risalto le forme scheletriche corrose dalla malattia. Sembrava una sposa. Infatti non avevo sbagliato. Le vicine, prima che il corpo si raffreddasse del tutto, avevano trovato nella biancheria abbandonata in fondo all'armadio un vestito ricoperto da una custodia pieghevole di tessuto.
Al suo interno un semplice abito intero, molto semplice, senza troppi fronzoli. Un colletto abbellito da merletti e una fascia bianca che stringeva nella vita.
Il colore da bianco era sfumato in un giallo opaco, logorato dagli anni passati chiuso nella custodia.
Era passato molto tempo dall'ultima volta che la sua dolce proprietaria lo aveva indossato, ma nonostante tutto quel profumo di lavanda era rimasto intrappolato nel tessuto liscio.
«Ti sta bene questo vestito.» le sussurrai con la speranza che potesse in qualche modo ascoltare da dov'era. Il suo però era un corpo, un corpo e basta, che si toccava con mano ma non rispondeva agli impulsi. Era diventata un oggetto in grado solo di rimanere immobile, come una di quelle bambole di ceramica esposte nelle vetrine, che ti fissavano inespressive per un lasso di tempo indefinito.
Io avevo un disperato bisogno di sentire la sua voce roca e melodiosa trapassare ogni muro e ogni angolo di quella grossa casa.
Avevo bisogno di farmi coccolare e stringere dalle sue braccia come quando ero un bambino. Sentire i suoi consigli preziosi, le sue mille perle di saggezza che elargiva ogni volta che serviva. Guardarla, scrutarla nei suoi movimenti più sciolti. Percepire la sua presenza ed ammirare la bellezza che da sempre l'aveva contraddistinta da tutte le donne, e non perché centrasse il Complesso d'Adone, ma perché era stata una delle prime donne ad aver lasciato un'impronta visibile nella mia vita, ancor prima di Sofia Baglietti.
Questo mi sarebbe mancato di lei.
Tornare in Wisconsin nei fine settimana, dopo una dura settimana lavorativa e godermi un meritato riposo aiutato anche dai suoi dolci. Cucinava sempre secondo le mie preferenze e non le sue; si è sempre preoccupata di suo figlio, che nella vita non gli mancasse l'affetto, i divertimenti che Austin aveva tralasciato definitivamente dopo essersi trasferito e sposato con quella modella esordiente. Per lei, ora che aveva divorziato dal marito, esisteva solo una ragione che l'aiutava ad andare avanti: suo figlio. Io ero l'ultima cosa, e anche se certe volte si rivelava pesante ed oppressiva con la storia dei matrimoni, dei date al buio, della selezione delle ragazze perfette, in fondo la sua unica intenzione era darmi un futuro con una donna che mi meritasse, che non giocasse con i miei sentimenti e che mi amasse incondizionatamente.
Tutto quello che lei non aveva potuto avere. Il destino beffardo che prima le aveva regalato momenti di felicità con Austin, e infine le aveva dato il colpo di grazia con la scoperta del suo tradimento. Andava a letto con quella giovane modella ogni dannata notte invece di partecipare alle riunioni straordinarie - come invece lui le faceva credere.
Era stato benefico per mia madre smettere di credere a tutte quelle fandonie, ma la verità le aveva distrutto il cuore, dopo essere uscita malconcia dalla caduta rocambolesca.
La vista blasfema delle due figure, una seduta sulla scrivania con le braccia sollevate, e l'altro che le sfilava piano la camicia l'avevano segnata profondamente.
Trovarsi il marito, l'uomo che dinanzi alla comunità e al sacerdote vi aveva giurato amore eterno, che sbaciucchiava una modella sexy impegnata invece in un serissimo affare di lavoro avrebbe lacerato chiunque, anche la donna più forte. Per i primi tempi dopo la dimissione e la lunga cura a cui poi si era dovuta sottoporre non voleva nemmeno sentir pronunziare il nome di quel traditore e gli aveva persino fatto trovare le valigie e i panni gettati alla rinfusa nel giardino per dispetto perché non lo voleva sotto al suo tetto, ma man mano che il dolore veniva riassorbito e le ferite si rimarginavano cominciarono a incontrarsi nella stessa stanza senza azzannarsi, come persone pacifiche. Impegnati nelle pratiche del divorzio definitivo il rapporto si era trasformato in amichevole, ma se per mia madre tutto ciò era stato dimenticato, per me fu troppo difficile e doloroso accettare la sua presenza nella nostra casa. Era come chiedermi di cancellare degli eventi importanti che non potevo rimuovere dalla memoria. Leccare il suo culo dopo che aveva quasi ammazzato mia madre con la sua sconsideratezza? Mai.
E mentre lei ammorbidiva il suo cuore, e pareva riabituarsi al suo vecchio affetto io mi chiudevo in me stesso e sopratutto nei miei libri fin quasi a isolarmi in un mondo a parte. Non volevo parlare con il traditore, non volevo nemmeno fissare i suoi occhi, provavo disprezzo nel vedere che i miei erano simili. Odiavo avere il suo cognome, il suo sangue che scorreva nelle vene. Il sangue di quello stronzo che, - a giudicare dall'atteggiamento di mia madre negli ultimi periodi, - quando ci avevano dato pochissime speranze sulla guarigione dal cancro, per non dire alcuna, non le aveva mai fatto le corna e macchiato il suo onore oltre che quello della famiglia Scott che aveva sempre malvisto la loro unione.
Forse voleva solo che avessi lui, una persona che mi sostenesse, dopo la sua morte. Non doveva essere nessuno, lo aveva persino reso pubblico nel testamento redatto pochi mesi prima.
Austin, il mio ex consorte, dopo la mia morte avrà il dovere di consolidare il rapporto mai instaurato con suo figlio Alan, perché esiste non solo Peggy, ma anche il suo unico erede maschio.
Rimasi inebetito da queste parole, che dichiaravano proprio la presenza inequivocabile di Austin Taylor nella mia vita. Ero riluttante. Potevo benissimo indorare la sua morte senza nessuno, ero adulto e capace di proseguire il mio cammino senza un tutore legale, ma il futile tentativo di mia madre non era accollarmi un tutore legale che si curasse di me alla sua scomparsa improvvisa, ma ridarmi il padre che non avevo mai sentito di avere. Un padre presente, affidabile e premuroso verso ogni necessità, e Austin non era certamente quel tipo di persona che volevo al mio fianco in un momento particolare come questo. Purtroppo era legge e volontà del testatore ormai deceduto e non potevo oppormi con successive clausole. Il de cuius aveva stabilito che Austin Taylor doveva essere presente nella mia vita e doveva provvedere alle mie necessità primarie senza mia forma di sabotaggio. Io purtroppo non avevo fatto altro che accettare a malincuore quel testamento.
Lo avrei fatto perché erano le sue ultime volontà.
«Perché l'hai fatto? Perché? Dopo tutto il male quell'uomo non meritava il tuo perdono. Non meritava di essere inserito nelle tue ultime volontà.»
Le accarezzai i capelli tirati con una mano, e scivolai verso il suo volto. Era freddo come la morte che l'avvolgeva nella sua stretta e non l'avrebbe più lasciata libera.
«Posso risponderti io a questa domanda, Alan.»
Sgranai gli occhi. Il mio cuore sussultò, mentre la stanza mortuaria era immersa in un mutismo fatto di singhiozzi e leggeri tremiti.
No, non poteva essere.
«Volevi una risposta ai tuoi dubbi. Ecco, sono qui per chiarirli.»
Deglutii lasciando il volto della mia defunta madre e rimasi immobile. Quella persona, una sagoma scura fra le altre troneggiava dietro di me.
«Cosa ci fai qui?» gracchiai.
«Il testamento.»
«Sono stupidissime carte. Non mi interessa ciò che sta scritto.»
«Quelle stupidissime carte come le chiami tu mi ordinano esplicitamente di starti vicino.» continuò lui con voce profonda.
«Io voglio che te ne vai.»
«Non hai capito.» si piegò leggermente e mi pose la mano su una spalla. «Devo. È un ordine.»
«Nessuno ti obbliga. Vattene!» gli urlai infine nell'indifferenza generale. Mi alzai di scatto e la sedia si rovesciò in un rumore sordo sul pavimento. «Non voglio usare le maniere forti. Non sono nelle condizioni, ma se lo fossi stato ti avrei cacciato a pedate da questa casa. Quindi te lo dico gentilmente porta il tuo culo fuori da qui!» gli addittai la porta con un dito. Feci qualche passo e mi avvicinai al suo corpo robusto ghermito in uno smoking nero.
«Fuori!»
Le persone ci guardavano come se fossero al circo, e alcuni addirittura accennavano un veloce segno della croce come se volessero scacciare la presenza del diavolo, come se io stesso fossi manovrato da un'entità infernale.
Austin mi guardava senza muovere un muscolo.
«Non hai capito, Austin? Ti voglio fuori di qui, fuori, esci da questa casa e non farti più vedere.»
Lui continuava a non accennare a un minimo cambio di atteggiamento e a restare in quella stanza come se non gli avessi detto nulla. «Prima di sparire, ho bisogno di parlare con te..» si decise a rompere il ghiaccio dopo una lunga pausa, e mi prese delicatamente il braccio. «Non qui, non davanti agli sconosciuti.»
«No, non voglio parlare con te, traditore. L'ultima volta sono stato abbastanza chiaro, e credo che ora lo sia stato anche meglio.»
«Sei stato chiaro. Devo andarmene e lo farò, ma prima devo dirti una cosa che riguarda me e Allison.»
«E io cosa centro?» sbottai spazientito. «Se interessava te e mia madre dovevi parlarne con lei ma ora è morta.»
«Interessa indirettamente anche te.»
«Come indirettamente?»
«Te lo spiegherò fuori.» mi disse, agguantandomi un braccio per trascinarmi fuori da quella stanza deprimente. Guardai la figura di mia madre e poi lui, e con un sospiro accettai di farmi scortare dalla canaglia.
Scesi le scale seguendo la sua grossa figura fino alla porta d'ingresso. Appena fummo fuori Enric mi si avvicinò con espressione palesemente preoccupata, ma mentre stava per parlare tacque notando la presenza del mostro che mi era affianco e che mi stringeva il braccio come un pitone.
«Non preoccuparti. Devo allontanarmi, ma sarò subito da te.»
Lui mi fece un cenno col capo come a farmi intendere che aveva afferrato il codice e tornò a fianco del medico occhialuto che stava discutendo con gli addetti delle pompe funebri. Austin mi portò verso la piccola stradina per raggiungere la zona lacustre, che mai come quel giorno pullulava di ricordi recenti e dolorosi. Ci avvicinammo alla staccionata di legno e ci affacciamo per ammirare la striscia blu che appariva all'orizzonte. La foschia nascondeva ai nostro occhi le piccole barche arenate in qualche insenatura e quelle che invece galleggiavano come grossi galeoni.
In alto si andavano ammassando grosse nubi di piccoli e grandi dimensioni cariche di pioggia, ma per Austin pioveva oppure no doveva parlarmi. Puntellò i gomiti e si irrigidì osservando malinconico quel posto dove si era innamorato per la prima volta della donna, che in quella stanza allestita a lutto, giaceva distesa come una principessa.
[Pov's Austin]
Quel posto non era un luogo qualsiasi, segnato sulla carta geografica. Quel posto dove dominava una genuina aria umida, grazie alla presenza del lago, aveva un significato importante. Proprio su quelle sponde melmose, in quelle acque, in una di quelle canoe avevo iniziato la mia lunga e travagliata storia d'amore con una giovane del posto, Allison Scott.
Era da anni che non tornavo a osservare pensieroso il paesaggio che quel luogo mi regalava, sia col sole, sia con la pioggia che lo rendeva sentimentale. Avevo sempre fretta. Ero un instancabile paladino dei viaggi fra Los Angeles e Wisconsin. A stento potevo dire di ricordare quale fosse stato il mio ultimo respiro profondo.
Forse non ero umano. Gli umani si ricordavano di respirare, lo facevano anche di notte, sospirando quando avevano bisogno di rilassarsi, io invece no. Ufficio, lavoro, famiglia rubavano il mio tempo, ma mi sarebbe piaciuto tornare a respirare a pieni polmoni senza dover dar credito al tempo che scorreva.
Respirai finalmente. L'aria mi solleticò i polmoni e li riempì. Chiusi gli occhi. Il vento mi muoveva delicatamente una ciocca corvina e mi graffiava le guance rendendole screpolate.
Ero in buona compagnia. Alan mi stava affianco, appoggiato alla staccionata di legno, e guardava malinconico la riva del lago come se fosse perso in un complicato ragionamento. Voltai il capo e lo studiai attentamente. Non era più un bambino ormai, per quanto lo avessi voluto. Era un uomo migliore del sottoscritto, che era stato capace in un sol giorno di distruggere la sua felice famiglia.
Aveva i capelli scuri scolpiti dai flebili fasci di luce, che filtravano con difficoltà dal minuscolo spazio fornito dal cielo, una mascella pronunciata, delle labbra carnose e degli occhi blu iniettati di rabbia e disprezzo nei miei confronti. Eravamo simili, anche se lui non lo voleva ammettere per via della mia condotta nei tempi passati, ma quel che era importante?
Che avevamo lo stesso sangue. Padre e figlio e nessuno, nonostante gli sbagli commessi, avrebbe potuto cancellarlo.
Lui era mio figlio.
Non avevamo un bel rapporto, neanche ora. Avrei voluto stargli vicino nel momento del bisogno, ma ero stato vigliacco. Lo avevo abbandonato a sé stesso, senza una presenza paterna, con un pesante fardello da portare. Sulle prime ero stato egoista a fuggire a Los Angeles, avere una figlia e dimenticarmi di avere anche lui nella mia vita, ma era troppo tardi per tornare indietro e lui aveva cominciato a odiarmi, a detestarmi, a non volermi incontrare, e con banali scuse rifiutava di passare il tempo con me. Mi trattava male. Mi diceva che ero un traditore, l'inizio di ogni male e non aveva torto.
Ero stato un cattivo padre.
Ma ora volevo impegnarmi per riallacciare il rapporto. Allison mi aveva dato l'opportunità col testamento redatto. Mi pregò, sul letto di morte, di occuparmi di Alan, di dargli l'affetto paterno che fino ad adesso gli era mancato, di chiamarlo figlio e di fargli superare la sua morte senza troppi intoppi. Era stata una delle prerogative per cui mi ero trovato quella sera del decesso a casa di Allison, ma ad Alan non l'avevo detto, non gli avevo confessato di aver assistito impotente alla morte della madre, di averla vista accasciarsi sul cuscino con la bandiera bianca sollevata e gli occhi serrati. Una lacrima le aveva rigato la guancia, mentre le parlavo di ciò che avrebbe trovato nel mondo successivo, e la guidavo piano, stringendole le mani fredde verso il suo ultimo alito di vita.
Mi aveva mormorato con un soffio: «Dì ad Alan la verità.» poi inclinando la testa, socchiudendo gli occhi aveva lasciato il mondo.
«Te lo prometto.» le sussurrai, aggiustandole le mani sul grembo mentre il medico certificava il decesso. «Ora della morte 11,59.» guardando l'orologio al suo polso, poi le aveva coperto il viso con il lenzuolo mentre io mi ero portato la mano al petto stringendola a pugno. Un dolore sordo nel cuore.
«Ora siamo soli.» cominciai mentre Alan si girava verso di me.
«Non c'era bisogno di allontanarci così tanto, potevi pure dirmelo vicino alla macchina-» ma io lo interruppi. «Sigaretta?» tastai la tasca dello smoking, e gli mostrai un pacchetto di ChesterField.
«No, grazie.» rifiutò. «Allora, qual è questa cosa importante di cui vuoi parlarmi?»
Mi accesi una sigaretta, e dopo averla aspirata poco, la tolsi sputando fuori il fumo condensato dal freddo. «È importante.» precisai. «Non posso dirtelo davanti agli altri. È un segreto di famiglia, mio e di tua madre.»
«Mh.»
Strinsi la sigaretta fra indice e medio e ciccai nelle erbacce secche. «Io e tua madre ci eravamo messi d'accordo. Tu eri troppo piccolo per capire. Avevi solo otto anni e non avresti mai compreso le dinamiche degli adulti, o almeno le avresti comprese ma a modo tuo, in modo infantile.»
«Arriva al dunque.»
Sospirai. «Bene.» aspirai nuovamente la sigaretta.
«Ascolta allora, perché dopo che te ne avrò parlato probabilmente mi odierai più di quanto non fai già.»
Alan sbuffò esasperato. Era stanco dei giri di parole. Era sicuro e questo mi piaceva, era uno delle caratteristiche fondamentali che a un Taylor non doveva mancare.
«Basta aspettare.» mi dissi, e lanciando la cicca a terra la calpestai, appoggiandomi di schiena alla staccionata con le mani nel giubbino.
«Te lo devo dire.»
«Alla buon'ora.»
«Alan, ti ricordi quando tua madre è caduta dalle scale il giorno che ha scoperto che la tradivo?»
«Sì. Non potrò mai dimenticare la persona disonesta che sei stato.»
Respirai.
«Quel giorno.. è successa anche un'altra cosa oltre alla caduta.»
«Cioè?»
Alzai il volto e mi specchiai negli occhi di mio figlio come non facevo da tempo e la verità uscì lenta ma implacabile dalle mie labbra.
***
Lo so che state pensando che sono molto malvagia, e infatti lo sono stata, ma per ora non vi svelo cosa ha detto Austin al figlio di così sconvolgente, ma posso anticiparvi che cambierà drasticamente il destino del nostro professore e protagonista.
Quale sarà mai la verità?
Avete qualche idea, riferitela nei commenti, e dedico il capitolo a chi indovina. Per il momento vi ringrazio di esserci sempre e vi do appuntamento al prossimo.
Mi raccomando stelline e commentino, e il prossimo capitolo arriverà.
Jo
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