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Capitolo 39

«Fanno male, fanno male le parole sopratutto quando sono troppo preda, in quei giorni dove piangere è assoluto...»

Cit. Non Devi Perdermi.
A. Amoroso

[Pov's Alan]

Mi appiattivo contro il muro della cabina, raggomitolato in posizione fetale, con il volto riverso sulle ginocchia perché anche guardarla, scrutare il suo corpo, immergermi nella trama blu dei suoi occhi mi facevano sentire un traditore.

Uno schifoso traditore.

Anche se mi tenevo a una certa distanza di sicurezza da lei, non mi sentivo protetto e non credevo di essere immune al suo fascino.
Rialzai il volto solo per fissare il pavimento grigio metallizzato, rimasto paurosamente in equilibrio, dopo il calo di tensione, tra un piano e un altro poi notando che si spostava per farvi entrare il suo corpo, rannicchiato dall'altra parte nel mio campo visivo lo incassai nelle scapole.

«Credi verranno a liberarci presto?» ebbi il coraggio di domandarle facendo appello alle poche forze che mi restavano di quella giornata... movimentata?

In un certo senso, lo era stata sotto ogni punto di vista. Prima la discussione con Austin, poi il ritorno di corsa al college, intervallato dalla mia proposta a Sofia di fidanzarci in segreto con lei che aveva accettato qualsiasi compromesso per stare al mio fianco, persino mentire.
Dickens che mi aveva beccato e l'incontro con Elly Hèrman, la ragazza che credevo di aver sepolto nel mio lontano passato e che era tornata. Ora questo, bloccato in ascensore senza possibilità di fuga. Di sicuro la mia esistenza oltre ad essere dolorosa, era anche interessante.. a chi non sarebbe piaciuto restare intrappolato, nella cabina dell'elevatore, con una donna avvenente e con un fisico statuario?

A tutti, eccetto me.
Mi sarei accontentato persino che il pavimento si aprisse a mo di botola, come nei film di spionaggio e io ci precipitassi all'interno.
Bastava che ci fosse una minima possibilità di salvarmi da Elly a qualsiasi costo, prima che il mio corpo venisse sfiorato dall'idea malsana di baciarla. Baciarla, quello proprio non mi saltava in testa per nessuna ragione al mondo; dopo quello che lei mi aveva fatto, dopo che le avevo consegnato il mio cuore senza riserve, accecato dalla sicurezza che lei lo avrebbe custodito senza graffiarlo, e alla fine me lo ero ritrovato tra le mani morente.

Non potevo perdonarla.

Qualche volta ci si liberava di un peso quando ci si chiariva e si per perdonava, ma talvolta il dolore era inerstitpabile come il cancro; lo stesso nemico infallibile che stava consumando mia madre.

«Speriamo.» mi rispose.
Respirai profondamente.
La ristrettezza del luogo iniziava a farmi un brutto effetto. Da piccolo avevo sempre sofferto di claustrofobia, era diventata parte integrante di me; odiavo i luoghi troppo chiusi con le mura troppo alte, restare troppo tempo nei posti frequentati dalla marmaglia perché mi provocava una fortissima emicrania, come per esempio quando i miei amici passavano le loro serate nei rave o nelle discoteche, in realtà ne avevo davvero pochi, nessuno voleva stringere amicizia con un taciturno come me, solo Enric, era come un fratello per me.

Man mano, con l'avanzare delle settimane, dei mesi, degli anni il problema peggiorò notevolmente e oltre all'emicrania si aggiunsero spasmi involontari, sudorazione, tachicardia e difficoltà respiratoria. Il medico di base consigliò a mia madre di sottopormi a una visita medica completa e di vedere uno strizzacervelli per discutere del problema familiare.

Avevo solo quindici anni.
«Mi ero già abituato all'assenza di Austin, - dissi alla prima seduta con una psicologa, - non mi fa più nulla. A parte che preferirei saperlo morto che vivo
«Quando vivi una situazione così complessa è normale che il corpo reagisca in un modo e la mente in un altro.» disse la psicologa a mia madre, mentre io ero stato allontanato. Secondo lei, il mio corpo si stava ristabilendo perfettamente, ma dentro di me vivevo nel caos, nel dolore, nella confusione. La claustrofobia mi permetteva di comunicare il mio disagio attraverso la mimica del corpo, ma non tutti sapevano interpretarlo, perdendosi in inutili paranoie. «La mente è una delle più complesse organizzazioni. Nessuno riuscirebbe mai a esplorarla tutta, in cinque miseri minuti.» concluse con un sorriso. Aveva tra le mani la possibilità di sventrare ogni aspetto umano rimasto latente e si sentiva fiera di aver acquisito un caso così complicato come il mio.

Vidi la psicologa molte altre volte, e ricordavo le nostre chiacchierate come se fosse successo ieri, che puntavano tutte allo stesso scopo: scoprire se la mia mente sentiva il bisogno di avere Austin al mio fianco. Una cosa impossibile, dal mio canto, visto che non volevo vedere il suo viso neanche per sbaglio, ma la psicologa non era di quel parere.

Un giorno decisi di non farmi accompagnare da nessuno e mi incamminai verso il suo studio che si trovava nel centro del Wisconsin, poco più lontano dal mio quartiere. Ghermito nel cappotto e nella sciarpa per combattere le sferzate gelide di gennaio. Giunsi dinanzi al portone della palazzina e bussai. Ci vollero due minuti, prima che Katia, l'assistente della psicologa, rispondesse al videocitofono.
«Sì? Ufficio psicologico dottoressa Barman. Sono Katia, la sua assistente.»
«Katia, sono Alan, Alan Taylor.» le risposi, mentre con le punte delle scarpe mi sollevavo per farmi riconoscere.
«Oh, certo Alan.» chiuse il citofono e aprì il portone principale.
«Grazie Katia.» spinsi la porta ed entrai chiudendomela alle spalle.
Percorsi l'atrio e arrivai all'inizio della rampa di scale. L'ufficio si trovava al primo piano, alla mia sinistra, - nella mia testa risuonavano le parole di mia madre, - tutto chiaro Al?
Cristallino, risposi sottovoce per non sembrare un matto da internare aggrappandomi al corrimano di ferro; presi a salire la prima rampa, e contai col dito tre porte. «Prima porta, destra?»
Portai un dito alla guancia.
Sinistra, tesoro, mi corresse la coscienza. «Giusto.» mi diedi una pacca sulla fronte e mi fermai dinanzi alla porta dello studio.
Bussai di nuovo, e nell'interno risuonò la voce melliflua di una donna. Avvertii il ticchettio dei decoltè divenire sempre più forte e frenarsi dinanzi alla porta.
Katia la aprì.
«Alan!» strillò con la grazia di un venditore di pesce in piazza.
«Ciao Katia. La dottoressa?»
Ero ancora fuori, piantato di qualche centimetro prima dell'uscio.
«È nello studio.» alzò le sopracciglia curate e spalancò la porta. «Dai, entra.»
Con un cenno del capo si spostò dietro per non ostacolarmi il passaggio, dopodiché richiuse la porta con energia.
Transitammo velocemente nella sala d'attesa, antecedente allo studio della dottoressa Barman.
La vedemmo camminare verso di noi con le sue anche ondeggianti.
Sembrava stesse ballando. Aveva dei camosciati trampoli al piede, ma il suo passo restava leggiadro.
Nelle mani recava con sé delle cartelle marroni, da cui fuoriuscivano fogli volanti immacolati con una scrittura illeggibile, forse le cartelle mediche dei suoi pazienti.
Rialzò il capo e la bellissima criniera rosso fuoco le cascò ribelle sul volto a contrasto col bianco della dentatura.
«Alan!» con una falcata ci raggiunse. «Che piacere. Ti trovo bene, come stai?» mi strinse la mano mollamente, abbandonando l'iniziativa di studiare le cartelle mediche. «Come sta tua madre?»
«Bene. In realtà non sa che sono qui, non le ho detto nulla.» le confessai con una punta di colpa a tingere le mie ultime parole.
«Uhm..» mi guardò interrogativa, poi posò lo sguardo sulla sua assistente. «Katia, potresti farmi un favore?»
L'interpellata annuì.
«Certo, dottoressa Barman
«Dovresti controllare questi.» consegnò i documenti di prima nelle unghie laccate di azzurro di Katia. «Dovresti archiviare i casi risolti e riordinare tutti gli altri. Avrei anche una certa fretta, quindi il prima possibile.» spiegò.
Katia prese in mano quella pila di fogli ingestibili, e con un lieve cenno del capo, tornò alla scrivania. La fissai mentre gli occhi suoi scorrevano su quelle righe, finché non sussultai a sentire la mano della psicologa sfiorarmi e prendermi sottobraccio. «Andiamo nel mio studio. Potremo parlare e discutere meglio sul problema di oggi.» e mi tirò verso la stanza.

«Allora, iniziamo.»
Chiuse la porta.
Lo studio della dottoressa Barman era un piccolo monolocale, e non era molto spazioso; a malapena riusciva a contenere il lettino delle sedute che non veniva usato quasi mai, la sua scrivania e le due poltrone. Il muro era tappezzato da foto inquietanti e al tempo stesso interessanti della nostra mente tagliata e divisa in varie sezioni cerebrali.
«Qual è il tuo problema?» raggiunse la scrivania e si sedette sulla sedia, proprio dinanzi a me.
«Ma non spaventano i pochi pazienti queste foto 'mostruose'?»
Avevo cambiato discorso e aggirato la ragione per cui mi trovavo allo studio psicologico.
La dottoressa voltò il capo verso le foto appese al muro bianco, che sembravano essere stata scattate dall'interno durante un'autopsia.
Puntellò i gomiti sulla scrivania.
«Non è interessante? Mi piace pensare che mostri tutto ciò che l'uomo non può vedere. Le sue parti nascoste, quello che neanche io facilmente riesco a tirar fuori dai miei pazienti.» la ascoltavo, ma parlava arabo ed era affascinante.
Forse avevo addirittura una cotta per quella donna di mezz'età, anche se io avevo a malapena sedici anni.
«Sai cosa diceva Freud sulla sua 'Interpretazione dei sogni'?»
Scossi il capo.
«Lui aveva un'idea completamente diversa dalla visione onirica e utopica popolare. "Ciò che sogniamo non sono altro che nostri desideri e non premonizioni" ma contrariamente a lui alcuni grandi della Psicologia affermavano il contrario. Non possiamo saperlo se Freud aveva ragione oppure no ad affermare ciò, possiamo solo porvi dubbi, ragioni, per cui valga pensare che sia vero.»
«Con questo?»
«Con questo? La nostra mente è un grande mondo, un universo intero che ci controlla. Non è il cuore il motore di tutto nella diagnosi psichica, ma la mente e ogni spicchio di ciò che vedi nella foto rappresenta ogni nostra peculiarità.»
«Scusi dottoressa. Il cuore pure è importante, dopotutto se si ferma moriamo no?»

Sembrava una domanda stupida.

La dottoressa prese la penna stilografica e appuntò qualcosa di ostrogoto sulla 'chiacchierata'.
«Posso farti una domanda?» alzò il capo dal bigliettino, che avrebbe aggiunto agli altri, e puntò i suoi occhi nocciola nei miei.
«Certo.»
«Il cervello, il cuore, il fegato.. direi ogni organo importante del nostro corpo si ammala.» Mossi il capo su e giù. «Sì ammala, tutto si ammala e marcisce, ovviamente.. sarebbe paradossale il contrario. Ma se il cuore si ferma esiste il macchinario che lo rimette in moto, se il fegato si squarcia viene trapiantato, il cervello curato.. fisicamente.. ma se questo dovesse accadere a livello mentale?»
«Sarebbe impossibile.»
«Impossibile? Perché?»
«Lo avete detto voi.»
«Io?» si puntò un indice al petto. «Secondo te, perché è impossibile curare la mente in modo fisico?»
Rimasi a bocca aperta. Non sapevo che rispondere, era un'incognita la mia irrisolvibile, ma non per la dottoressa Collins/Barman.
Inspirò. «A poco a poco, ci avvicineremo al tuo problema, al problema che ti ha condotto da me. Tempo al tempo, domande su domande il tuo mondo sarà ancora più coinciso.» prese un foglietto, lo scarabocchiò e lo cestinò.
«Non capisco.» mormorai.
«Non devi capire Alan, devi solo starmi a sentire e rispondere ai quesiti posti.» congiunse le mani.
«Parliamo dell'argomento tabù: tuo padre. Quello che un anno fa ti ha portato ad iniziare la terapia con me.»

Era un tasto dolente, un tasto che volevo nessuno schiacciasse, perché mi faceva schifo persino nominare il nome di quel bastardo.

«Preferirei non parlarne, dottoressa. Quel verme rovina le mie giornate ogni volta che il suo nome viene fuori.» la supplicai, ma lei non volle sentire ragione.

Quello era il fulcro del mio dramma principale. Su quello dovevamo costruire una diagnosi e proporre una cura adeguata.

«Non essere codardo. Il problema si affronta. Non si raggira, non si esclude, non si dimentica perché non serve a niente. Resterà all'oscuro, dove nessuno lo potrà estirpare e ti ossessionerà.»
Aveva ragione.
«Quindi opereremo sul suo tradimento e trarrò le mie conclusioni. Però mi serve che tu parli, che ti sfoghi per capire quello che la tua mente ha provato e quanti danni ha subìto.»
Ero reticente a parlare con gli sconosciuti.
Improvvisamente sentii lo scatto della serratura e la figura di Katia fare capolino a mezzo busto.
«Signora Barman, posso entrare?»
La dottoressa fece un cenno col capo e la giovane assistente spalancò la porta, mostrandoci una sala d'attesa vuota.
«Era ciò che ti avevo chiesto?»
«Sì, dottoressa.» rispose e nel mentre mi fece un occhiolino.
La dottoressa sistemò i fogli, li appoggiò sulla scrivania e li sollevò uno alla volta, inserendo l'indice per tenere il segno.
«Bene, questi sono a posto.» decretò infine con un sorriso radioso. «Torna in sala per accogliere eventuali pazienti pomeridiani e non filtrare con Alan ti prego, è disdicevole.»
Katia arrossì vistosamente.
«C-certo. Vi lascio continuare.» indietreggiò. «Con permesso.» e lasciò lo studio.

La dottoressa Barman fece un piccolo sospiro rassegnato. Katia era una brava assistente, non lo metteva in dubbio, ma si lasciava troppo trasportare in questioni.. piccanti sopratutto con i ragazzi e gli uomini con i fisici palestrati.
Era sconvenevole filtrare in uno studio psichiatrico o presentarsi con una gonna talmente piccola, che se si abbassava da dietro la scrivania le si intravedevano persino le mutande. Contegno, un minimo di decenza e cervello.. era uno studio psichiatrico serio, non un bordello di cagne in calore.
Nonostante la rimproverasse per la molta femminilità ostentata, la dottoressa Barman era però fiera dei ritmi con cui assolveva ai compiti e per il momento licenziarla non avrebbe portato alcun vantaggio, anzi il doppio del lavoro per lei che tra visite, ASL e la sua famiglia non aveva tempo.
Katia era preziosa, anche se avrebbe dovuto migliorare i suoi outfit da lavoro e indossare qualcosa di più composto almeno per la mattina, quando era in studio. Si aggiustò il ciuffo e ordinò i documenti velocemente, per poi chiuderli nel cassetto della scrivania. «Riprendiamo.»
«Stavamo parlando del fatto che devo raccontarti qualcosa della mia vita in modo che tu trovi la causa.» le ricordai sbrigativo.
«Sì, partendo da tuo padre.»
Un pugno nello stomaco.
«Allora.» si dispose meglio ad ascoltare e accavallò le gambe coperte dalle calze nere fine.
«Quando vi ha lasciati il signor Taylor?»
«Avevo tredici anni.» mi fece cenno di continuare col racconto. «Mamma era finita in ospedale per una caduta dalle scale, non so per quale motivo sia stata ricoverata per tanto tempo, probabilmente aveva battuto la testa, non lo so di preciso. Non ero presente, zia Clotilde non mi disse nulla.»
«Tuo padre c'entrava con la caduta di Allison?»
«Non so neppure questo. Era caduta giù dalle scale nel luogo dove abitualmente lavorava prima Austin, quindi penso che lui abbia assistito alla scena. Molti particolari della storia non li conosco.» La dottoressa scrisse due o tre righe, poi si fermò.
«Cosa è accaduto dopo?»
«Sono stato al capezzale di mamma. Credevo morisse, avevo paura di perderla. Aveva una ferita alla testa fasciata, varie escoriazioni al braccio.. ed era stata sottoposta a un intervento di raschiamento.»
«Raschiamento?» La dottoressa si tolse gli occhiali per la stanchezza e si soffermò su questa parola.
«Io ero piccolo, quindi per me significava qualcosa di grave. Alla fine mi spiegarono che mamma era stabile e non correva pericolo, ma che a causa dell'urto avevano dovuto rimuovere qualcosa di già morto, altrimenti sarebbe andata in setticimia.»
«Infezione.»
«Sì.»
La Barman appuntò altri dettagli.
«Che ti ha detto tua madre quando sei entrato a farle visita?»
«Era febbricitante e appena uscita da un intervento che aveva stremato il suo corpo, ma mi confessò piangendo che papà ci aveva lasciato.. per sempre
Una piccola pausa dopo quel per sempre e i miei occhi divennero lucidi. La dottoressa Barman tacque scrivendo di nuovo.

Il silenzio avviluppò la stanza.

Strinsi le mani tra le gambe, e col capo chinato, smisi di aprire con il dilatatore quelle ferite amare e grondanti di sangue.
«Non aver vergogna di piangere Alan. Non si è deboli. Il mondo crolla, non possiamo fare nulla per allungare i tempi; il mondo crollerà, un vulcano esploderà, il vento spazzerà via ogni cosa, i terremoti infurieranno sotto di noi e noi non possiamo far altro che assistere. Con le lacrime comunichiamo il dolore, il nostro bisogno di essere sorretti, la paura di perdere ciò che credevamo nostro, ma per una volta ammettiamo d'essere umani.»

Puoi essere forte fuori, ma non saprai se dentro stai svenendo nel dolore più acceso.

«Tu odi veramente tuo padre?»
Mi asciugai con i pollici il volto.
«Con tutto me stesso.»
La dottoressa osservò i suoi appunti come se fossero i dettami di un testamento. «Dalla mia diagnosi è emerso.. che in realtà, ti manca
Mi manca? No, non mi mancherà mai quel traditore, quel ciarlatano. Mi aveva lasciato, aveva ridotto mia madre uno straccio bucato nel profondo e rovinato e farcito la mia vita delle sue squallide responsabilità. Lo odiavo.

«Forse non conosci la tua testa abbastanza per fartene una ragione. Perché il tuo cervello è conscio di volerlo allontanare, il tuo cuore cerca di andare avanti con i suoi battiti regolari, ma.. la tua mente, o in generale, una parte di sé lo desidera così tanto.. desidera il suo affetto, desidera quei momenti che avevi perduto.. e te lo sta chiedendo a gran voce.»
Scossi il capo.
«Lo strangolerei come un animale. Gli farai patire gli orrori dell'inferno.»
«Ora vai calmo, e non arrivare a conclusioni affrettate.» mi rimproverò pacata.
«Un passo alla volta. Prenditi il tempo per pensare a ciò che abbiamo discusso e non preoccuparti.» mi congedò sorridendomi come una madre con il suo figliolo più piccolo. Mi issai in piedi con il cervello che necessitava di staccare la spina, e uscì lasciandola ad esaminare le carte con ancora più interrogativi nella testa.

Fu l'ultima volta che vi andai.

Forse necessitavo ancora delle sue terapie, dei suoi suggerimenti, ma non avevo il coraggio di varcare quella soglia. Lei poi era andata in pensione e lo studio era anche stato chiuso. Aveva deciso di passare più tempo con suo marito e suo figlio che all'incirca aveva la mia stessa età ed era diventato anche un mio grande amico, Enric Barman.
Aprii piano le palpabre pesanti come due pezzi di cemento.
«Ora sono qui
Fissai il soffitto e la fioca luce che lo rischiarava. La mia testa battè contro le pareti infrangibili.
Un muto dolore e una fitta lancinante mi attraversò i nervi.
Strizzai gli occhi e li resi due fessure come quelle di un felino.
Il dolore si trasformò in un bruciore intenso, mi ero fracassato la testa contro quelle pareti? Non potevo sopportare anche lo spasmo dei punti. A quel punto il mio cervello fisicamente non avrebbe sopportato niente.

Con gli occhi sbarrati davanti a me avvertii un'ombra femminile trascinarsi nel mio campo visivo.
Si avvicinò con lentezza, senza spaventarmi. Percepii il suo respiro caldo arrampicarsi sul colletto della mia camicia e la schiena produrre un basso sibilo contro il muro.
«A che pensavi?»
Distolsi lo sguardo, e rimasi a capo chinato, con le ginocchia contro il petto.
«Niente.» mormorai tra i denti.
«Non resisto più in questo ascensore.»
«Be, non possiamo far altro che aspettare che il portinaio si svegli dal suo riposo pesante.» feci facendo le virgolette con indice e medio.
«Un'eternità cioè.» affermò con un sorriso radioso affiorato sulle sue labbra pitturate di rosso.
«Esattamente!»
«È davvero pigro il tuo portinaio?» chiese lei, dimostrando di avere acuta osservazione delle varie personalità. «Non è molto virile.»
«Non lo è affatto. Le cose che sa più fare sono ronfare tutto il giorno, fare il pettegolo, e filtrare con le ragazze belle.. come t-» mi morsi la lingua.
«Quel tipo insomma.»
«Ho capito.»
«Era per farti capire.»
«Secondo te non sono carina?» la sua mano sfiorò la mia. Un brivido salì rapido lungo la schiena.
La guardai. «Sì che lo sei Elly.»
Lei sorrise con sincerità.
«Nonostante sia passato molto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti.» il mio cuore si bloccò come paralizzato. «Dopo tutti questi anni senza vederti.. io sono tornata per te, perché sono follemente innamorata del mio vecchio ragazzo.»
Distolsi gli occhi dalla sua figura imbarazzato; ormai il mio cuore non le apparteneva più, ora al suo posto c'era Sofia.

Ero innamorato davvero. Nessuna cotta, nessuna sbandata in particolare, nessuna ostentazione sul fatto che l'avessi conquistata.

Il nostro amore era vero e sincero.

Non avrei rinunciato alla stabilità di Sofia per tornare nuovamente nell'instabilità, nell'inferno, nell'indecisione dei sentimenti insieme a Elly Hèrman. Avevo abbastanza problemi per ricrearne di nuovi e sinceramente ormai Elly non mi interessava più.

Incontrai i suoi occhi azzurri che luccicavano di speranza. Mi sentivo in colpa di dover distruggere i suoi sogni romantici, ma ormai avevo deciso di dare ascolto a ciò che mi sussurrava il cuore. Guardare al futuro, rilegare il passato in un angolo e vivere la vita in ogni istante prezioso.
«Scusa.» biascicai.
Un banale sbadiglio di rassegnazione, che si perdeva nel minuscolo posto avvolto nella penombra. Lei mi passò un suo braccio ad avvinghiarmi l'altro. «Non dovresti scusarti.»
A quel contatto che non avevo previsto trasalii e mi impegnai a sgusciare via da lei come un'anguilla.

Era sbagliato.

«No, Elly!» urlai perché si staccasse, perché non ero in vena di fare niente ora che avevo nella testa la mia Sofia e, stare lì dentro con lei mi rendeva già un traditore che non ero.
«Basta!» mi stancai.
Mi staccai con un tonfo dal muro, mentre lei rimase accigliata.
Mi issai in piedi e mossi qualche passo verso le porte di metallo serrate, la mia unica via di fuga, la mia unica salvezza per non tradire anche col pensiero Sofia, pensai.

Mi voltai di spalle, ma fu un vano tentativo di sfuggirle per poco.
Era già tornata ad attaccare.
«C'è un'altra vero?» Avvertii la sua testa poggiarsi sulla schiena e le sue braccia che mi stringevano.
«Quando poi io ero per te la donna che volevi sposare, la madre dei tuoi figli. Ero il tuo mondo intero.»
«Adesso è cambiato.» dissi duro.
«Cambiato? Cosa, non è cambiato nulla perché lei non ti conosce. La persona che vorresti essere e non sei, le tue paure più grandi, quello che tuo padre ti ha fatto passare.. persino il tuo sguardo parla.
Cosa ne sa lei?»
«Tutto, tutto Elly! Lasciami in pace. Lei mi da quello che non mi darai tu, lei non mi promette che resterà e il momento dopo va in Inghilterra a studiare. Lei non mi ferisce, ritorna e pretende di essere addirittura perdonata. No, Elly.. non è te, ma mi da quella sicurezza che non ho mai avuto.» mi girai di scatto e le tolsi le mani dai fianchi guardandola arrabbiato. «Lei non sarà mai te, ma agirà meglio.»
Le sue mani scivolarono inerte sul fine tessuto della gonna. Mi riprendeva in silenzio, con un gesto del capo a dire no, mentre assumeva un'espressione vacua.
«Se sei venuta qui solo per parlami di questo, allora hai sprecato soldi e fatica.»
«Volevo riprendere quei rapporti che avevamo interrotto bruscamente, perché non volevo perdere un amico come te.»
«Amico?» inarcai le labbra verso l'alto.
«Sì, amico.»
«Peccato che non ti sia riuscito molto bene.»
«Era una prova per vedere se tenevi ancora a me.»
Piazzai le mani nelle grandi tasche del pantalone.
«Prova fallita.»
«Già, fallita.» ripetè lei.
«Ti sei gettata senza paracadute e sei atterrata male.»
«Il paracadute eri tu.»
«Ecco cosa ti accade a fidarti di una persona che non esiste più nella tua vita. Finisci per farti male, anzi malissimo.»
Mi agguantò al di sotto del braccio.
«Perlomeno.. mi sono fatta male per la causa più importante della mia vita.» si autoconsolò.
«Non tutte le cause vengono vinte. Bisogna imparare dai propri errori, così la volta successiva sarà facile evitarli.»
Lasciò il mio braccio velocemente, cogliendo al volo i miei occhi iniettati di rabbia. Tossì.
«Questo posto è polveroso.» si avvicinò all'aggeggio dei pulsanti e ne raccolse un po' per esaminarla.
«Sai di quanta è sta polvere!»
Scrollai le spalle.
«Ma in questa ascensore non puliscono da mesi, se non addirittura anni e nessuno fa reclamo alle cameriere dei piani.»
Le andai vicino e le pulii il dito.
«Lascia perdere. La pulizia qui lascia molto a desiderare..»
«La pulizia è importante.»
«È già tanto se danno ripulite nelle camere e il corrimano della scala principale.» risposi.
«Uhm, sono proprio incapaci. Se fossi il padrone di questo immobile le licenzierei in tronco!»
«Quelle poverine non fanno altro che spezzarsi la schiena e guadagnarsi qualche soldo per tirare avanti e dovremmo pure buttarle fuori, in mezzo a una strada!?» Elly sbuffò. «Sì.»
Poggiai una mano al muro.
«Non sei cambiata di una virgola, la solita antipatica e perfettina, senza niente fuori posto.»
«Anche la tua nuova ragazza lo sarà. Dopotutto ogni donna ha i suoi difetti.»
«No lei no.»
«Non esiste la perfezione.»
«Questo lo pensi tu. Per me una cosa è perfetta perché lo penso soltanto io.» le risposi, sollevando il mento. «Comunque chissà quando ci libererann-» Fui interrotto dal rumore dei tralicci, che con un forte scossone, si rimettevano in moto.
«Oh, che bello! Finalmente ci liberano, devo respirare aria pura.» esclamò Elly, mentre sentivamo il soffitto elevarsi a poco a poco. Procedemmo spediti, finché l'ascensore non si interruppe, ma questa volta alla fermata. Si bloccò forte, talmente tanto, che i tacchi di Elly persero equilibrio e lei mi finì addosso.

Cademmo a terra.
Io a contatto col pavimento mobile, la sua gracile figura si adagiò e rimase sdraiata sui miei pettorali. Tutto quello che avevo fatto per divincolarmi da lei, tutta la fatica per osteggiare il mio nemico e alla fine non era valso a nulla; la sua chioma bionda scivolava come una cascata su un lato del mio fianco, mentre la sua guancia veniva costretta dalla situazione ad ascoltare i miei battiti irregolari con l'orecchio premuto sul petto.
«Così è molto meglio.» rise lei, mentre restava stesa su di me.
Non emettevo alcun rumore. Sentivo il cuore martellare nel petto, le guance esplodere di disagio, e fissavo le porte che pian piano rivelarono il lungo corridoio del settimo piano.
Quando adocchiai quell'unico particolare che mi fece grondare di sudore in ogni parte del mio corpo, volevo che le porte si richiudessero. «No.» i miei occhi schizzarono dalle suole di quelle ballerine familiari, che lei non aveva cambiato da quando ci eravamo lasciati, fino a raggiungere ogni suo minimo tratto riconoscibile. Alzai lo sguardo fino a quando non sollevai la nuca a un mezzo centimetro da terra e li vidi, li vidi così bene che non avrei più potuto dimenticarli per il resto della mia inutile esistenza. Li vidi, erano lucidi, alcune lacrime le scivolavano sulla guancia, ma erano illuminati di un bagliore spaventoso, di rabbia, di delusione. Gli occhi verde chiaro, che nella penombra della macchina avevano sorriso e gioito per la mia proposta, ora erano freddi come il ghiaccio che le ricopriva il corpo e gelati perché mi voleva ammazzare; non aveva avuto il coraggio di muovere un solo muscolo, tutto si era atrofizzato quando mi aveva visto, quando le porte si erano aperte, nelle braccia di una donna che non era lei. Rimasi a fissarla nella stessa posizione di prima.
«Io.»
Lei scosse il capo singhiozzando e indietreggiò.
«Aspetta, cazzo!» strillai a voce alta, ma lei non mi ascoltava.
Si premeva i palmi delle mani sulle orecchie perché non voleva sentire altre mie patetiche scuse.
«Ti prego.» mi urlò contro un vaffanculo e corse via di lì.

Un rumore sordo.
Qualcosa che urtava, qualcosa che si andava a rompere perché fragile come un vaso di cristallo.
Il mio cuore precipitò sul pavimento e si ridusse in mille frammenti seminati, che lei si era portata via, senza lasciarmene uno. E ora non volevo somigliare all'uomo forte, formale, che aveva vissuto la vita da eroe.
Volevo essere quello che nessuno pensava fossi, un uomo debole, un uomo che se cadeva a terra si frantumava.

In quei giorni, in questi giorni, dove piangere diventava assoluto.




*****

Salve cari amici di Wattpad!
Sono proprio contenta di aver concluso anche questo capitolo, spero degnamente, e con quel poco di suspance che non dovrebbe mai mancare.

Alan dovrà farsi perdonare dalla sua fidanzata per ciò che ha combinato. Cosa accadrà nel prossimo imperdibile capitolo?

• Sofia perdonerà Alan perché è stato solo un malinteso.

• Sofia capirà che il loro amore è impossibile.. e lo lascerà per sempre.

Cosa accadrà?

Per scoprirlo non dovete far altro che commentare, se secondo voi, i nostri due amanti si lasceranno o capiranno di non poter stare l'uno lontano dall'altra, e mettete anche qualche stellina. Vi ringrazio per le quasi diecimila visite, siete i miei più grandi tesori e sostenitori!
Un bacio!

A presto con
'La Vostra Canzone'
Kissenlove.

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