Capitolo 37
Quando la vita prova gusto a farti sorprese è perché non nè hai avute abbastanza.
Your Song
37.
Alan.
Ero il primo ad entrare in classe quando vi erano dei corsi extra e l'ultimo a uscirne di tutta quella marmaglia. Mi accomodavo sulla sedia di qualunque banco perché non mi interessava la posizione.
Bastava che la voce del professore giungesse chiara, mi piaceva assorbire saperi interessanti, sopratutto se si trattava della musica. Alle otto, prima che il trillo della campanella risuonasse in ogni dove per invitare la folla a liberare il patìo ognuno con diversa reazione, mi posizionavo, e nel mentre che attendevo che i miei compagni di condanna riempissero quel luogo, ripassavo l'argomento precedente, - quella mattina dovevo prendere parte ai corsi di economia aziendale - e quelle righe la sera precedente mi si erano incollate in testa grazie alla mia memoria di ferro.
Avevo quasi concluso con successo la seconda ripassata e stavo per cominciare una terza, quando una persona a molto familiare si prese la briga di disturbarmi.
«Allora Al hai finito?»
Presi un profondo respiro e alzai di poco il volto. La osservai con la coda dell'occhio venirmi incontro col suo fisico snello e camminare con lentezza per far ondeggiare le anche come una modella che ostentava il vestito che indossava verso gli scatti continui dei fotografi e dei giornalisti durante un'importante sfilata.
«Ho finito una seconda ripassata e sto per iniziare una terza.» le risposi riportando gli occhi sulle righe in nero.
Soli, in quella stanza, la presenza di lei cominciava a farmi salire l'ansia. Fingevo di essere tranquillo a rileggere per la millionesima volta la pagina del libro, ma in realtà il mio corpo era come la corda che un musicista tendeva con maestria per produrre la musica e che si muoveva oscillando a destra e a sinistra.
Ti prego, fa che non si sieda vicino a me. E come al solito successe il contrario. Lei scivolò piano sulla sedia vuota affianco e con la spalla urtò il mio braccio. Dischiusi piano la bocca leggendo fra le righe del tomo se qualche postilla trattasse delle tattiche di come mostrarsi indifferente di fronte alla ragazza più popolare della scuola, ma oltre a termini scientifici, foto in bianco e nero e piccoli titoli in grassetto per paragrafo non c'era nulla.
Lei si sistemò sulla sedia accavallando le gambe mentre io immaginavo di essere su un'altalena di tre metri.
Prima in alto fino a toccare con la punta del naso il cielo, librandosi come gli uccelli stretti alle corde, poi in basso di nuovo coi piedi per terra.
Come la vita che prima ti versava sulla testa acqua benedetta e poi decideva di maledirti, perché colpevole di qualcosa che in teoria non avevi commesso.
Devi solo mostrarti 'naturale'.
Mi dicevo scorrendo tutto lo sguardo dall'inizio fino alla fine del libro, mentre la sua ombra si protraeva verso la mia.
Non devi guardarla. È una di quelle streghe che ti incanta.
«Beh, facile a dirsi. Il problema è farlo, perché nessuno resiste a questa ragazza neanche il più fico della scuola e quindi neanche un nerd come me.»
La analizzavo come una cavia di laboratorio, imprimevo nella mente ogni gesto particolare per non dimenticarlo. Era seduta a pochi centimetri da me e nonostante tutto il cuore martellava forte nel petto per demolirmi la cassa toracica. Lo sentivo nelle orecchie, nella gola, in ogni parte del mio corpo e il bisogno di averla, stringerla, prendere il giusto possesso del suo corpo mi stava agguantando il cervello in una ferrea morsa.
Anche se la sua pelle, se mai fosse accaduto, non sarebbe stata mai completamente mia; è appurato ormai che i giovani non aspettano altro che sfogarsi come bestie in corpi a loro sconosciuti, sperimentare fin troppe cose a loro negate e lei di certo non aveva potuto non seguire la moda.
Era fin troppo bella. Il suo corpo perfetto attraeva come una calamita e nessun uomo con materia grigia avrebbe potuto sperare di resistere a quella dolce tentazione. Lei era pericolosa, era irresistibile e il sapore della sua pelle, delle sue labbra contro le mie, dei suoi dolci movimenti o dei suoi gemiti erano fin troppo invitanti per rifiutarli, neanche Alan Taylor Scott poteva, per quanto potesse essere ritenuto da tutti un lupo solitario.
«A cosa pensi occhi blu?» inclinò leggermente il capo e la lunga massa bionda si spostò sulle spalle. «Sei molto pensieroso.»
La mia mente si rifiutava di pensare ad altro che non fosse la taglia terza del suo reggiseno.
«Niente.» con l'indice girai alla pagina successiva facendo attenzione alla lettura.
«Dai, ti conosco occhi blu.» ghignò maliziosa stringendomi con una mano il braccio destro. «Cosa ti prende?» continuò appoggiando la sua testa nell'incavo tra collo e scapola. «Forse a furia di leggere ti si è atrofizzato il cervello, è pure normale, oppure sei preoccupato per la tua interrogazione e speri che ti vada bene.» ipotizzò, andando fuori strada.
Se avesse saputo a cosa in realtà stavo pensando mi avrebbe preso in giro per il resto delle nostre vite e se avesse scoperto che non mi ero mai concesso a nessuna donna prima di allora la mia reputazione sarebbe stata rovinata e tutta la questione circolare sulla bocca di tutto il liceo. Quindi avrei dovuto mentire ed era la cosa che più mi riusciva. Non era positiva, ma almeno mi permetteva di preservare la mia salute mentale e quel briciolo di dignità che ancora mi restava della mia stupida esistenza in questo mondo.
Strinsi le dita a pugno sul libro.
«La seconda.»
La sua risata rimbalzò ad eco come un flipper nei muri della stanza. «Ma va' Alan Scott Taylor, il genio di tutto il college che prende un voto negativo alle tante interrogazioni del trimestre? Non ci credo nemmeno se lo vedessi coi miei occhi.» sfilò la mano poggiandola sul pugno che aprii.
Voltai i miei occhi verso il suo viso, ed eccole sempre presenti, le sue belle fossette ai lati delle labbra e un bel sorriso smagliante ad ingigantirle.
I suoi occhi che si specchiavano nei miei sembravano due stelle di luce propria che si erano dimenticate l'orario di apparizione, mentre quel blu più profondo del mio somigliava al mare calmo nel cuore dell'estate.
Li stavo ammirando per una frazione di minuti tanto che credevo che il tempo avesse interrotto il suo corso, che le lancette non ruotassero e invece ero io che mi ero paralizzato.
Era come se nell'interno del mio corpo si fosse irradiata una scarica di energia che mi aveva attraversato dalla testa ai piedi mandandomi in cortocircuito.
Cercavo disperatamente di controllarmi per non rubare un suo bacio o consumare il suo corpo nel mio, perché non volevo che la mia prima relazione dopo il trauma dell'abbandono di Austin gravasse anche nei miei sentimenti e che questa si trasformasse in un flirt temporaneo. Volevo che fosse importante, speciale e che tutto avvenisse con una certa calma, senza affrettare ogni cosa.
Volevo una relazione che mi desse i miei spazi, ma al tempo stesso mi potesse rimuovere dalla testa i problemi, le responsabilità che pesavano sulle mie gracili spalle, che lei fosse il mio mondo e io viceversa fossi il suo.
Una relazione con i giusti intoppi ma solo per renderci più forti, più invaghiti l'uno dell'altra. Litigi frequenti, un giorno senza parlarci, stare ognuno per conto suo, ma alla fine tornare insieme felici e spensierati come prima.
Una sola relazione con la donna giusta, questo cercavo.
«Tu punti troppo su me.»
«Forse perché ti ritengo una persona tanto intelligente e so che una verifica non sarà devastante.» mi strappò il tomo da sotto le mani che stavo leggendo per la terza volta e mi costrinse a smettere, chiudendolo con un tonfo e riponendolo dalla sua parte.
«E se continuerai a ripetere andrai in paranoia dopo occhi blu.»
Aveva sempre ragione lei in qualunque cosa facessi.
«Bene, seguirò il tuo consiglio.» Gonfiò il petto come un vincitore.
«Visto? Tu hai sempre bisogno di Elly Hèrman. Io ti faccio fare sempre la scelta più appropriata.»
Feci una piccola smorfia e picchiettai un dito sulla superficie legnosa del bancone.
«Uhm, certo. Sarà il tuo lavoro futuro, è ovvio che tu debba fare pratica nelle cause.»
«Non lo sapevi che un avvocato è un lavoro che i miei ritengono prestigioso?»
«Dovresti scegliere tu piuttosto che i tuoi genitori, Elly. La vita è tua e il futuro anche e se fai un lavoro che a te non piace dopo sarà complicato cambiare direzione.»
«A me piace questa occupazione.» ribatté lei, puntellando il gomito sul tavolo. «Mi piace aiutare il prossimo a risolvere i problemi quando da soli non riescono.»
«Vuol dire che da oggi dovrò farti la riverenza e chiamarti..» mi schiarii la voce per dare più enfasi. «Avvocatessa Hèrman?»
Lei ridacchiò.
«Non ancora, quando avrò concluso gli esami lo sarò ufficialmente.» si mostrava fiera di parlare della sua futura occupazione, che sentiva di possedere come un'eredità fin dalla sua prima volta nel mondo.
Io non proprio. Barcollavo nel buio alla ricerca della mia strada, ciò di cui ero più convinto era che avrei voluto entrare alla Julliard per diventare un rinomato musicista se solo avessi avuto soldi a sufficienza per realizzare un'audizione.
«Tu che farai della tua vita?» mi chiese lei con una nota di pena, provava pena per me, lei conosceva la situazione grave della mia famiglia e i debiti che ci aveva lasciato mio padre quando aveva deciso di scappare con la sua nuova compagna e io odiavo quando lei, la ragazza a cui avevo confessato tutto ciò che celavo in me, di cui mi ero innamorato, a cui volevo dichiararmi una volta per tutte mi trattasse come uno di quegli orfani che compatisci sperando di non trovarti nella sua stessa situazione. Non ero orfano di padre, anche se avrei preferito mille volte che fosse deceduto in un incidente stradale piuttosto che ritrovarmelo in ogni singola rivista ad ostentare la sua ritrovata felicità con una donna più giovane di lui bella e milliardaria. Era un fuoco che divampava in me anche se un momento prima era quiescente. Minacciava di corrodermi, polverizzarmi, anche se cercavo con tutto me stesso quel rimasuglio di forza che col tempo avevo perduto. Lui però non meritava nemmeno le lacrime prepotenti che volevano uscire, non poteva godere del mio dolore.
Non potevo concedergli quella vittoria che per me sarebbe stata la distruzione totale. Dovevo rialzarmi senza precipitare a terra, occuparmi di mia madre, la donna da lui abbandonata come uno straccio usa e getta, la donna che con gli occhi lucidi, il cuore a pezzi in un letto d'ospedale mi aveva confessato che papà non sarebbe stato più con noi, che ci saremmo trovati soli, ma che saremmo stati bene anche senza il suo controllo. Tutto sarebbe cambiato e la nostra famiglia.. era diventata una casa tramortita dal terremoto del divorzio e che dopo ciò non sarebbe rimasto più nulla. Avevo solo tredici anni, ma capii subito e il dolore mutò velocemente in rancore e in mestizia verso gli altri.
Problemi, responsabilità, un fardello in più sulle spalle, ma non ero più un bambino spaventato che si trovava solo in un centro commerciale semi deserto. Ero uomo, in mente, in cuore e in corpo e gli uomini non piangono.
E io non lo farò mai.
Non bisognava concedere al proprio nemico il lusso di sventrare le tue emozioni più profonde. Fino a prova contraria, erano tue e nessuno conosceva te stesso meglio della tua persona.
Vivendo il dolore, patendo la malattia, soffrendo, impari ad osteggiarli e a combatterli.
«Realizzerò i miei sogni. Voglio vivere nella musica, e se il destino me lo permetterà vorrei entrare alla Julliard.»
Gli occhi mi luccicavano come se stessi parlando di un giocattolo avvistato sugli scaffali che avevo intenzione di chiedere a Natale.
«Uhm, complicato.. come la tua vita Alan.»
«Elly, non permettere a nessuno di farti sconfiggere, nemmeno se il tuo stesso nemico è la persona che ti ha creato.»
Il trillo della prima campanella segnava la fine del nostro discorso e l'inizio di un nuovo giorno scolastico per tutti i ragazzi che entravano nella piccola stanza.
***
Ma era passato troppo tempo da quella volta in cui le rivelai di voler affrontare la difficile audizione per entrare alla Julliard School, la più grande università di arti e musica, solo chi aveva talento, passione e una smisurata fortuna poteva superare la selezione, ed essere promosso era un vero onore e il compimento dei propri desideri. Ma non tutto andava alle volte seconde le nostre programmazioni, non tutto riusciva a concretizzarsi nella vita. Con la fuga di Austin Taylor a Los Angeles con la sua nuova compagna, la situazione familiare era diventata insostenibile. I costi del divorzio, le tasse dell'ipoteca, della luce, di tutto ciò che si aveva in casa, per non parlare della scuola, avevano incrinato gravemente i risparmi.
Il quartiere di ValsBorguses era decisamente il più tassato come provincia del Wisconsin, ma i propri abitanti, o almeno quelli che ancora erano rimasti, non avevano la forza di protestare e anche se lo avessero fatto nessuno li avrebbe ascoltati. Ciò non sarebbe mai cambiato. Quello che serviva era una reazione forte e radicata dappertutto, ma nessuno voleva imbracciare una questione che veniva virata sempre nella direzione del governo, nella direzione del più forte, di chi aveva i quattrini, perché il mondo girava su quelli. Prima di tutto il benessere materiale e poi quello sentimentale. Senza soldi, senza una rendita mensile non si poteva fare altro che arrendersi, cibarsi degli alimenti più scadenti, e nel caso più grave, perdere addirittura il tetto sopra la testa sempre per colpa del materialismo, della fama e di quello che mio padre, o la persona che prima lo era, chiamava affari.
Mia madre ci aveva sostenuto per oltre cinque anni prendendo servizio come badante di un nostro vecchio vicino, il signor Erminio Fattori, un italiano natio di Cosenza emigrato per cercare fortuna nella grande Mela, che alla fine morì di infarto circa un mese prima che compissi la maggiore età. A quel punto mamma smise di lavorare e i risparmi messi da parte per la Julliard per necessità furono spesi per il sostentamento giornaliero; non potevo sopportare tutto quello, stavamo inabbisandoci in un profondo baratro di crisi, così decisi di rinunciare al mio sogno, il sogno di diventare un musicista di pianoforte alla Julliard, e iniziai a studiare e a lavorare diventando poi la persona che adesso ero.
Un uomo che non aveva rimpianti, che era soddisfatto di aver risollevato la sua famiglia, che continuava a procedere per quella strada senza guardarsi alle spalle.
La Julliard mi sarebbe servita per divenire famoso e richiesto in tutto il mondo, ma nella vita non bisognava semplicemente essere alto locati, vivere nel lusso, dare importanza solo a quello che col denaro ti era permesso acquistare.
Cosa può valere la ricchezza intascata con inganno, senza passione, senza amore?
Era come aspirare al Paradiso, alla luce eterna e fermarsi al Purgatorio. Era come se Colombo avesse rinunciato a partire con le tre caravelle per trovare la sua India, era come non aver conquistato nulla e averne perso il piacere. Era come vivere, vivere e respirare ogni giorno, senza sapere di essere vivi. Come se quel giorno fosse uguale e inutile come tutti gli altri prima di lui.
Questo era il denaro senza la passione di esserselo meritato lavorando con le proprie forze.
Avevo rinunciato al mio futuro al college più prestigioso per aspiranti artisti, ma per una buona causa: salvare mia madre e non me ne pentivo.
Le dovevo ogni sforzo.
Ogni fatica, ogni goccia di sudore versata, ogni battito in più nel mio petto per l'ansia. Tutto.
Dopo aver accettato di lavorare in Minnesota con un guadagno accettabile per conto di Dickens, anche se il mio obiettivo non era il denaro, non me ne importava nulla, volevo solo insegnare ciò che significava per me la musica ai miei studenti, mi resi conto di non poter tornare sempre in Wisconsin a causa della lontananza, così decisi di cercare un piccolo monolocale adatto a un single in carriera, come mi ero definito da sempre, possibilmente vicino al college per comodità.
Alla fine, dopo una disperata ricerca, due o tre agenzie ognuna con la sua proposta di vendita, trovai un piccolo appartamento.
Era perfetto per me e il desiderio di volermene stare in disparte dal mondo. Conclusi l'affare e lo acquistai. Mi ero stabilito in Minnesota ufficialmente e di questo mia madre ne era stata molto contenta. A lei non piaceva essere controllata in ciò che faceva, mi accusava di pensare continuamente alla malattia che la affliggeva, che dal canto suo, era una banale vicessitudine che stava scalfendo il suo reperito corpo, mentre per me era importante e da tenere sotto controllo per evitare che la situazione sfuggisse del nostro controllo. Per lei dovevo trovare qualcuno che mi distraesse, magari una nuova fidanzata o un amico che ascoltasse i miei problemi come Enric, che dal liceo, era diventato quasi un confessore per me.
Parcheggiai la macchina negli stalli deserti, proprio davanti al portone del grande palazzo ed Elly fissò dal finestrino la struttura di circa cento piani con un'espressione stupita in volto.
«Vivi qui?» aprii la portiera dopo aver spento il motore che aveva azionato la ventola e recuperai ogni cianfrusaglia che tenevo nel cofano. Aveva detto che voleva parlarmi, mi ero promesso di ascoltarla, ma non sarei caduto nella trappola. Non questa volta e non ora che mi ero davvero innamorato di una ragazza che mi regalava la pace dei sensi.
Avrebbe parlato, avrebbe esposto la sua ragione, la sua alibi, ma poi sarebbe andata via, si sarebbe trascinata la porta alle spalle e sarebbe scomparsa così come era apparsa come una condanna.
«Sì, forse è troppo austero per te.» le dissi acido, andando verso il grosso portone. Lei corse accanto a me, con il rumore concitato dei tacchi ghermita in un giubbino nero seppia di pelle, costato un occhio della testa e mi affiancò.
Infilai la mano nel grande borsone da lavoro per ritrovare le chiavi, visto che il portinaio Albert aveva rimediato una chiave di riserva per ogni inquilino del palazzo.
Nel mentre che scavavo nei vari scomparti, sentivo il freddo penetrarmi nelle ossa e un lungo brivido di freddo attraversami come una scarica elettrica.
Per quanto avessi amato la posizione del mio appartamento, il palazzo era risultato sprovvisto di una luce che illuminasse la zona esterna e fino a quando non avessero rimediato al problema avrei dovuto conviverci e servirmi della torcia del mio cellulare.
«Le chiavi..»
Elly mi guardò mentre si nascondeva le mani nelle ampie tasche della pelliccia.
«Non le trovo.» imprecai mentalmente contro il portinaio, che preferiva far morire i propri clienti al freddo piuttosto che aprirli lui, che era uno dei suoi doveri di impiegato.
«Dannazione! Dove le avrò messe?» mi chiesi iniziando a spazientirmi tastandomi le tasche del cappotto, con lei che mi esaminava nel buio senza luna che lo rischiarasse creato dagli allampanati edifici alle nostre spalle. I suoi occhi penetranti risaltavano nelle tenebre che ci accerchiavano minacciose, un blu brillante, ipnotico e spaventoso che sembrava si illuminasse di una luce aurea in un freddo bagliore tagliante incastonato in un volto dai tratti duri e distaccati.
Mi guardava, mi squadrava mentre la mia ricerca evolveva sempre più a un punto di tragedia. Appuntiti come mille lance che trafiggevano il mio povero cuore tornato agli inizi di noi che ci eravamo distrutti nella lontananza e avevamo avuto la forza di rialzarci senza problemi anche con l'assenza totale dell'altro. Sbatteva le palpebre ogni minuto che passavamo sotto al porticato, come se fossimo impegnati in una serissima storia d'amore col vetro gelato, con l'intenzione di scaldarci senza far intervenire il contatto fisico che ci avrebbe portato alla mente troppi dolori, troppi sbagli mai riscattati, troppe ferite ancora da chiudere che sanguignavano, troppe lacrime versate sul cuscino che non erano servite a nulla sopratutto quando lei aveva deciso di sua spontanea volontà di commettere un errore che avrebbe compromesso per sempre il nostro rapporto e ora tornava con la mera intenzione di voler riparare ai danni fatti. Tornava dal passato dove l'avevo imprigionata e mi sconvolgeva la vita che avevo faticosamente ricostruito, ma questa volta niente sarebbe potuto accadere perché non lo avrei permesso, avrei arrestato il mio cuore prima di una manovra brusca, prima di giungere al punto di non ritorno. Probabilmente anche il Titanic avrebbe voluto virare nella direzione opposta al grosso blocco di ghiaccio che lo aveva inabissato nella profondità delle acque, in una notte tranquilla, se solo fosse riuscito ad evitarlo. Io ero stato la nave inaffondabile priva di scialuppe e lei l'iceberg che aveva fatto breccia nel muro e lo aveva ridotto in frantumi. La vidi allungare una mano e stringermi il braccio che ritrassi come se fossi stato morso da una tarantola. Doveva solo farsi la morale e poi sarebbe uscita dalla porta da cui le avevo permesso di entrare. Il suo volto si corrugò, come se non conoscesse il motivo scatenante della mia reazione precipitosa. «Alan.» lo sussurrò con voce profonda, che sembrò rimombarmi nella testa.
La consapevolezza del mio corpo vacillava disperdendosi in ogni piccolo ricordo dietro una delle tante porte chiuse a chiave. La vista focalizzava il momento prima della separazione, quando lei aveva bussato alla porta della mia casa in Wisconsin con gli occhi gonfi forse per aver pianto.
Avevamo appena concluso gli studi del liceo con brillanti performance dinanzi alla commissione e non ci restava che scegliere il college.
Lei legge. Io musica.
Le nostre strade, non per nostra volontà, si sarebbero separate e chissà quanto avremmo dovuto vivere di giorno in giorno, quanto ancora avremmo dovuto sopportare per rincontrarci.
Il cervello funzionava a sprazzi discontinui. Ricordarmi la scena di lei che aveva deciso di studiare a Londra all'università di Oxford fu ricevere ancora una pugnalata al cuore. Sentire i gemiti bloccarsi in gola senza poter uscire fuori, parlare per ore, urlare, urlare in faccia il disprezzo e sentire nelle corde vocali un esplosione di bruciore, mentre lo sterno pareva spezzarsi in due come un bastoncino di legno e percepire il sapore acido e metallico del sangue pungere la lingua e infuocarmi il respiro, mentre lei scoppiava in un fragoroso pianto perché era solo la volontà dei genitori a cui doveva sottostare.
Non potevo e non volevo tarparle le ali della libertà e manco se il mio cuore lo avesse sussurrato le avrei ordinato di rinunciarvi.
Ciò capitava una sola volta nella vita,- le feci capire - anche lei si sforzava di spiegarmi che io ero molto più importante di un viaggio, ma anche con la morte che mi divorava il corpo, le chiesi, anzi le imposi, di uscire dalla mia vita, di non venire più a bussare alla porta perché gliela avrei sbattuta in faccia e alla fine la distanza pose fine al nostro lungo percorso insieme e io persi la mia unica grande amica, oltre a Enric.
Ora era tornata ma io non ero più disponibile a cominciare da dove avevamo lasciato, nonostante sentissi il mio cuore tirare nella sua direzione.
Finalmente rientrai in possesso delle chiavi e costantemente osservato da lei spalancai la porta.
Lei passò per seconda, dopo io che disponendomi dietro alla maniglia la mantenni fino al suo passaggio.
Dopo la richiusi in un sibilo e mossi qualche passo verso la piccola guardiola illuminata, rispetto all'atrio che invece era immerso nella penombra e discretamente illuminato dai lampadari disposti sopra l'ascensore. Mi avvicinai ancora di più sul lato destro e picchiettai sul vetro per attirare l'attenzione del signor Albert semicosciente sulla sedia con la testa ciondolante sul grosso bancone. Bastò un altro piccolo rumore e lo vidi sobbalzare e riprendere la posizione composta, mentre ancora con fatica sollevava le palpebre di piombo. Si stropicciò gli occhi con i pugni chiusi. Sbadigliò con la bocca spalancata come se la fatica lo stesse ammazzando in quella cabina, e non appena focalizzò di trovarsi dinanzi a un viso scattò per riattivare il suo cervello, aprendo il mobile per recuperare un foglio, una matita, qualsiasi cosa perché potesse non dare a vedere il suo stare in panciolle. Si rilassò quando si rese conto che non ero il suo datore di lavoro.
«Buonasera.» spostò poi lo sguardo altrove per esaminare la ragazza che mi affiancava.
«Un'amica di vecchia data.» Lui scrollò le spalle voltandosi verso una parete attrezzata in legno Hanging Organizer riempita di circa mille chiavi. «Che numero?»
Mossi un indice.
«La E46. Settimo piano.»
«Eccola.» la sganciò e me la consegnò augurandomi una buona notte in dolce compagnia, alludendo ad Elly. Io lo ignorai senza aggiungere altro e lui tornò a ronfare premuto con la fronte contro il bancone. Elly mi seguì in silenzio verso l'ascensore. Premetti il pulsante e attesi che scendesse; le luci si accendevano ad intermittenza man mano che il piccolo elevatore seminava e scalava i piani dal centocinquanta al primo piano, il che significava aspettare una vita. Alle volte mi stancavo e preferivo le scale visto che soggiornavo negli appartamenti del settimo piano.
La luce velocemente scalò di molti pulsantini, segno che nessuno l'avesse chiamata prima di me, fino al settantesimo piano.
Intanto che restavamo dinanzi alle porte bloccate in automatico Elly né approfittò per esordire nel discorso che aveva diligentemente preparato, secondo mio parere, prima di rincontrarmi.
«Allora.. premetto che non è mia intenzione sconvolgerti la vita. Sono tornata solo perché era da molto che cercavo di trovare, nei ritagli di tempo libero del mio lavoro, di venirti a trovare.»
«Come vedi sto bene, quindi non c'era bisogno che ti presentassi di persona. Bastava che mi scrivessi un'email o una cartolina da Londra. Sarebbe stato molto più..» mi interruppe. «Facile vero?»
Premetti ancora sul pulsante che lampeggiò il rosso.
«Appunto.»
Udivo nel silenzio il pigro sferragliare delle corde contro quei fili che stavano raggiungendo terra. «Quindi non ti è proprio piaciuta la mia visita?» mi chiese delusa. «No, se ti rende contenta. È stato sconvolgente, anzi tu sei sconvolgente. Il modo in cui sei scomparsa che mi destabilizza e ora riappari come una fantasma credendo che ti perdonerò.» Lei reclinò il capo verso il basso.
«Forse ho sbagliato, ma Oxford era importante quanto te. Nella vita devi scegliere.»
«Lo so meglio di te.» le dissi. «Ho scelto troppe volte e con sempre molto dolore. La mia vita è stata sempre un disastro, mio padre mi ha reso l'esistenza un inferno e anche tu con il tuo andare e venire. Non posso perdonare ciò che è successo, perché questo è il mio passato.»
«Vorresti dire?»
«Che devi uscire ora e subito dalla mia vita. Ho voltato pagina, non mi interessa più nulla.»
La cabina si frenò rumorosa. Silenzio, poi un trillo sostenuto precedette l'apertura metallica delle due porte. «Finalmente.» pensò la mia testa, mentre la luce bianca rischiarava la ristretta cabina. Entrammo dentro.
«Settimo piano.»
Il cuore si liberava del peso di prima, ma quel posto piccolo, soffocante inadatto per claustrofobici mi faceva avvertire una nuova ansia gonfiarmi il petto. Mi spostai verso i pulsanti verticali digitando il numero sette e questo si illuminò non appena avvertimmo la cabina staccarsi dal piano e muoversi verso l'alto.
Io con le mani nelle tasche addossato alla parete di destra per starle lontano, lei si controllava lo stato dei capelli e del trucco ispezionandosi con criticità nel grande specchio. Si teneva stretta la minuscola pochette che non avrebbe potuto contenere niente, salvo telefonino e altri oggetti, stritolandone le bretelle con una mano piegata verso il petto. Gli occhi bassi, colpevoli dopo le ultime mie parole l'avevano segnata profondamente. Avrei potuto risollevare il suo umore, ma al momento il mio era precipitato in picchiata nel parcheggio sotterraneo.
Silenzio, mantenni quel silenzio.
Nella stretta cabina si percepiva solo il pigro movimento in ascesa, finché la luce si affievolì in un millisecondo che nessuno dei due percepì e si riaccese nel battito di ali di un colibrì, purtroppo oltre al fatto che eravamo ancora in ascensore, al quinto piano e mancavano due piani alla salvezza, la cabina subì uno scossone forte e rimase in bilico tra due piani. «No.. no..» mormorai soffocando le labbra con una mano.
«Uhm secondo me il veloce blackout ha prodotto un guasto nell'impianto elettrico.» spiegò Elly da maestrina, mentre io progettavo ogni singola tecnica di rilassamento per non sfondare i pulsanti. Affondai un pugno forte nella parete di destra, ma le provocai solo una lieve ammaccatura.
«Calmati Alan, così sarà peggio credimi.» la soluzione non era rompere quella cabina, ma far funzionare nuovamente il collegamento il che era improbabile dato che era notte fonda ed Albert aveva il sonno pesante. Fissai il tetto chiuso.
«Tutto bene Al?»
«No, non va niente bene.»
Ero bloccato, braccato in ascensore.
Con una donna.
Senza poter scappare.
Sospeso nel vuoto, senza poter fuggire.
Ero in trappola come il topo col gatto.
Un'intera notte da passare con lei.
Una parte del mio passato che avevo rimosso dalla mia testa e che era tornato ad ossessionarmi.
«Nulla andrà bene.»
****
Nel prossimo Imperdibile
Capitolo...
«Allora cosa hai combinato col tuo affascinante 'A'?»
«E tu cosa stai cercando di fare con la mia amica? Se la rimorchi, la conquisti e le spezzi il cuore in due ti taglio i viveri.»
«Ti amavo Alan. Il sentimento non è cambiato, avrebbe dovuto, ma il mio cuore non se né mai voluto capacitare.»
«Hai sprecato il tuo tempo.
Non avresti dovuto venire fin qui sapendo che saresti rimasta delusa.»
«Perché c'è un'altra donna?»
«Sì.»
Angolo della #Love
Che ritardo! Mi scuso sentitamente con tutti voi, ma la scuola sta continuando a tartassare e inoltre sto seguendo, ogni giorno, il medesimo programma prestabilito. Mangiare, fare i compiti e andare a scuola guida per partecipare alle guide con l'istruttore, poi torno e scrivo qualche sequenza. La verità è che ho dovuto resettare la testa perché scrivere un piccolo frammento è difficile, sopratutto se sei superconvinta che non piacerà a nessuno. Lo so già!
Ho pensato lo stesso di pubblicare. Vi aspetto sotto per rispondere e leggere i vostri commentini sul futuro della Solan e vi chiedo anche di inserire molto stelline portafortuna per me. Detto questo cosa ne pensate:
- Alan e questa Elly cosa si diranno? Quale sarà il loro passato doloroso, e ora cosa succederà tra Alan e Sofia con l'arrivo di questo nuovo personaggio?
Nel frattempo che aspettate ho aggiunto una piccola parte del capitolo trentotto, che verrà scritto il prima possibile. Solo solo discorsi tra Josh e Sofia, ma più chiaramente un vero e proprio interrogatorio, e inoltre uno stralcio di discorso fra Alan e Elly.
Mi raccomando non perdetevelo!
Jo.
Alla prossima con la
'Vostra Canzone'
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro