Capitolo 28
[Pov's Sofia]
Balzai con un forte slancio nella Porche del mio professore, in realtà dopo quello che avevamo fatto, non potevo riuscire a definirlo un prof.
Mi accomodai comoda sul sedile destro, accanto al comando delle marce e mi tirai la porta dietro, bloccando di conseguenza la portiera. Sul piccolo cruscotto iniziò a lampeggiare un piccolo pulsante rosso.
Ora le urla del di fuori venivano attutite dal robusto spessore del finestrino, ma bastava fare due più due per concludere che tra quelle confortevoli mura si era scatenato il fuoco dell'inferno.
Alan mi aveva gentilmente spinto fuori dalla questione di massima importanza che stava per proporgli il mostro che aveva come padre.
Doveva esserlo, visto che secondo Allison il suo ex marito aveva abolito quelle visite nel momento in cui suo figlio era stato irremovibile alla riappacificazione.
Dopotutto aveva ragioni più che valide per non concederglielo, dopo tutto quel male, quei dolori, era il minimo che dovesse a sé stesso. Ora poteva riprendersi la sua rivincita, era un uomo con un solido tenore di vita, non era più un bambino a cui non dicevano nulla per paura della sua improbabile reazione, ora guardava la realtà nella sua forma più pura e onesta, e io non avevo mosso proteste, volevo che Alan sistemasse il problema con le sue sole forze per dimostrare che non era debole e non aveva bisogno di quella patetica presenza.
Ero sicura che lui sapesse lottare, anche cadere, ma poi rialzarsi come un guerriero. Una, due, tre ferite non avrebbero fatto altro che rinvigorire il suo spirito.
La vita non era che un rettilineo noioso, disseminato di zone nascoste, pericoli imprevedibili che sbucavano fuori come scheletri per spaventare, ma la difficoltà maggiore era forse resistere, continuare a camminare, superare con un bagaglio povero di ricchezze materiali ma ricco di nobiltà e bontà, perché se un minimo spazio per quello era inesistente allora eravamo un mucchio di ossa, carne senza importanza, che finiva per mutare in polvere, una volta giunti alla fine trascinata, da una leggera folata di vento. Alan forse sentiva questo venire meno, ma lui che più di tutti, aveva ricoperto la sua anima di corazze infrangibili, non avrebbe dovuto farsi vincere.
Non era solo, forse prima non aveva altro che la sua barriera per osteggiare il suo nemico, ma adesso aveva me e in due era più facile abbattere tutti gli ostacoli.
E io gli sarei stata vicino fino alla fine dei tempi, fino al mio ultimo alito di respiro terreno, senza mai abbandonarlo perché anche la morte non era che una dimensione che ci connetteva al mondo in un altro modo, ma ci faceva restare qui.
Finché ci sarai tu al mio fianco, io viceversa starò al tuo ricordi?
Vorrei tanto sentire di cosa staranno discutendo, ma dopo un iniziale ripensamento, decisi di starmene buona nella sicurezza della Porche. Rovistai nelle tasche dei jeans attillati blu scuro e accesi il telefono, che fino a quel momento era rimasto spento, per non aver collegamento col mondo mentre consumavo gli ultimi attimi con Alan Taylor.
Non appena la tastiera si sbloccò, i miei occhi si sgranarono quando si soffermarono sulla cartella dei messaggi ricevuti.
Circa una cinquantina.
Chissà perché quando tenevi il cellulare sempre acceso nessuno ti cercasse, mentre invece se era il contrario, tutti avevano la briga di disturbarti. Aprii con il touch del dito e una fila di messaggi dello stesso mittente mi si presentò dinanzi.
'Ehi, Sofia!'
Era Josh, il mio adorato compagno di stanza, con una spiccata capacità di rompere le scatole.
Aprii il primo, lessi velocemente e lo cestinai per prevenire che si intasasse la memoria.
'Sì può sapere dove sei finita, cretina!'
'Non ti permetto di ignorarmi, né la mia affascinante persona né i miei messaggi birbante!
'Terra Josh "Il Magnifico" chiama Sofi "la testarda" rispondi!'
Un padre lo avevo lasciato in Italia, un altro me lo ero inspiegabilmente trovato qui nel Mid West. Certe volte Josh era premuroso e appiccicoso come una carta moschicida. Se non sapeva per un'ora dove fossi, andava in escandescenze e sbraiatava a destra e a manca trafficando per strada per recuperarmi. Era snervante il modo paterno con cui si occupava di me quasi come se fossi una sua nipotina di due anni. Non mi staccava manco per un minuto gli occhi di dosso, c'era chi malignamente riteneva che tra e me e la guardia carceraria ci fosse qualcosa di più che un'amicizia. Fortunatamente Josh ci teneva alla sua infangabile reputazione e le voci erano morte nel momento stesso in cui si era pronunciato.
In realtà se fosse stato per me non avrei dato alcuna spiegazione in proposito, quei piccoli bisbigli carichi di odio mi scivolavano addosso come se stessi indossando un impermeabile trasparente. Quelle lingue taglianti potevano affogare nel loro stesso veleno, ma Josh si era sentito in dovere di difendersi in qualche modo.
Lo avevo lasciato fare, e in poco tempo non eravamo stati più sulla bocca di tutte le matricole.
Erano questioni senza importanza.
Cercavano qualche cuore gentile da far piombare nel dolore, qualcuno che fosse abbastanza debole da riporre in quelle infantili parole la benché minima reazione. Ma io non ero così.
Non davo peso più di tanto.
Erano accuse infondate, senza testimoni e prove, era come darsi comunemente la zappa sui piedi, provare a vincere e dopodiché perdere. Tutto quel girovagare di informazioni per nulla, per impiegare tempo inutile a rovinare la vita delle persone, per farsi notare perché erano incompresi, voci isolate, ai margini del mondo che nessuno osava interpellare. Eppure, questi soggetti avevano tutto. Vestiti sempre in, accessori delle marche più in voga, costose scarpe, una villa per casa con giardino retrostante, soldi a palate da non saperne come impiegarli, ma non era sufficiente per loro.
Non erano felici. Non potevano esserlo se escludevano dalle loro vite la cosa più importante, che nella vita di tutti non dovrebbe mai mancare povero o ricco che sia, sono i valori fondamentali, il fulcro della felicità: amici, fiducia in noi stessi, famiglia e il sentirsi amati da una persona che dava tutto per te, e per me questa persona è Alan.
Entrambi abbiamo le nostre ferite.
Non possediamo molti soldi, né abbiamo a sufficienza per una vita agevole, né vorremmo di più, perché il mondo girerà sempre intorno al denaro, perché molti obiettivi si raggiungono solo con quei bigliettoni verdi.
Se ne avessimo un mazzo, Alan potrebbe riuscire a curare Allison dal cancro e la sua vita assumerebbe una piega più spensierata. Potrebbero intraprendere una vita nuova, senza la preoccupazione pressante della morte come una taglia sulle loro teste. Alan sarebbe felice, io più di tutti vorrei che accadesse questo perché il sorriso che gli affiorava sulle labbra quando si metteva a parlare della musica era incomparabile persino a quello di un angelo. Ti scaldava il cuore, ti strappava al grigiore della vita e ti conduceva con sé in una dimensione dove lui e io eravamo soli in un irreale utopia.
I problemi non ci sfioravano, il cielo sopra di noi era un'unica distesa turchina unita al mare e noi ci lasciavamo andare, l'uno stretto all'altra, sopra un tappeto di erba profumata e piccoli fiorellini che spuntavano dalle zolle di terra.
Le mani scoprivano i nostri due corpi come una prima volta, i nasi erano attaccati al pari delle labbra che condividevano due respiri fusi, le mani di lui percorrevano ogni piccolo lembo di pelle dalla spalla fino al polso.
«Nel suo possesso mi sentivo prigioniera. Il cuore esplodeva nel petto con vigore, avevo paura di un collasso, mentre mi sentivo leggera, mentre lui si impossessava dolcemente della mia insicura figura e le sue dita parevano accarezzare le corde vibranti di un violino.»
Era una visione onirica che sfumò ai miei occhi per dare posto al cruscotto nero della macchina.
La proiezione di Alan era ancora vivido, al che un sorriso mi spuntò sulle labbra. Ripescai con frequenza veloce il pensiero del mio adorato papino Josh, e guardai con attenzione gli altri venti messaggi, di sicuro sempre più stizziti e sdramattizzati.
'SOFIA BAGLIETTI, RISPONDI IMMEDIATAMENTE O GIURIO CHE NEMMENO SAN GESUALDO TI POTRÀ SALVARE!'
'Adesso mi sono stufato! Dove diamine ti sei andata a cacciare? Quando il topo scappa qualcosa ha fatto... e non voglio pensare a ciò che tu SIGNORINELLA hai fatto! '
'Non sperare di cavartela! Sono Josh, sono il tuo stalker personale, e non ti lascerò in pace finché camperai, capito!?'
Certe volte era come una zecca, quando si attaccava non c'era verso di liberartene. Io mi limitavo a leggere di sfuggita e cestinare, senza dargli uno straccio di risposta alla sfilza di minacce.
Non avevo cinque anni.
Doveva pur capire che avevo una mia vita, non avrebbe potuto sempre controllarmi, anche perché lui era all'ultimo anno di corso, il semestre stava finendo e presto avrei dovuto salutarlo.
Non gli avrei mai detto che mi sarebbe mancato, altrimenti la sua autostima sarebbe salita alle stelle e si sarebbe montato la testa come un cretino e in quella modalità era ancora più insopportabile.
Josh, per quelle stupide oche, era il mio fidanzato tenuto nascosto, perché dal primo giorno in cui avevo concluso la trafila dell'iscrizione e partecipato ai corsi come ufficiale matricola, Josh Watson un ragazzo col complesso narcisista si era insediato accanto a me. In poco tempo, dopo un proverbiale imbarazzo, iniziammo a parlare prima sporadicamente e poi con sempre più reiterazione, intuendo che avevamo molte cose in comune, prima fra tutti, non ci piaceva perdere per nessun motivo e trovavamo divertente andarci a cercare i guai.
Tutti i ragazzi del corso iniziarono a scrutarci con sospetto per notare qualche ipotesi che potesse avvalorare le loro tesi malate.
Ma per me Josh era un amico, un grande amico nonché compagno di stanza assieme ad Hendrik Moore.
In realtà per me Josh è un fratello maggiore. Mi vuole bene a modo suo, ma purtroppo non riesce a esternarlo per tutte le cose che gli sono successe prima che mi conoscesse, che non vuole rivelarmi manco sotto tortura.
Mi proteggeva, anche se alle volte sapeva essere davvero ossessivo quasi come la zecca che si attacca ai pantaloni, ma non mi dispiaceva essere la sua sorellina, visto che il mio caro e pestifero fratello di dieci anni, fin da quando è nato, mia madre mi ha affidato il compito di prendermene cura come da copione per una sorella maggiore. Josh mi faceva sentire una piccola principessa. Aveva i suoi difetti, dava fin troppa importanza alla sua bellezza esteriore piuttosto che intrinseca, ma dopotutto era un bravo ragazzo se non ti fermavi a quel duro tono da strafottente e alla sua patetica facciata di playboy.
Infondo era solo apparenza.
E solo io per il momento conoscevo quella parte che si impegnava a nascondere, quella parte del suo cuore che mostrava tante cicatrici, una parte che nessuno poteva affermare esistesse in Josh, che aveva conquistato il primato di rubacuori del college per la facilità con cui rubava le anime e le infrangeva il momento dopo, come se ne fosse stufo. Ma nessuno che cercava di giudicarlo aveva mai compreso a fondo le sue sofferenze passate, e anche se avessero potuto, neanche la più gallina poteva provarle sulla sua pelle, perché il dolore di Josh era talmente profondo che nessun sinonimo avrebbe potuto spiegarne il senso. Forse proprio perché era stato per lui difficile da cancellare, che faticava ad aprirsi con le persone per paura di riaprire una ferita, una che ancora non si era rimarginata e pulsava, veniva attraversata da fitte sleali e gli faceva male, molto male, molto di più di quello che normalmente si impegnava a non mostrare agli altri per paura di essere un debole.
Riabbassai lo sguardo al cellulare.
Josh pareva aver alzato la bandiera della resa e io sospirai l'aria viziata nel veicolo, premendo la chioma un po' scompigliata vicino al poggiatesta.
Finché il piccolo spazio interno si riempì della canzone 'The City is our' della famosa band Big Time Rush, l'avevo impostata perché quei quattro ragazzi mi ispiravano e le loro voci si alternavano magnificamente nella canzone ritmica. Quella mi piaceva particolarmente perché.. la città è nostra, in realtà non c'era un motivo valido, vivevo per la musica, era l'ossigeno che respiravo quando risuonava nell'atmosfera da qualsiasi strumento, mi aiutava a non pensare, mi annullava nell'istante in cui mi posizionavo sul letto sgangherato del college, mi rilassavo in posizione semisdraiata e mi infilavo le cuffie nelle orecchie. Partiva la musica, i miei pensieri si immobilizzavano, i problemi evaporavano, ma non questa volta. Abbassai il capo e sul display lampeggiava il numero fin troppo conosciuto.
Era Josh.
Sentivo le gambe cedermi a terra, nonostante fossi seduta, il respiro divenire lento e breve come se i polmoni faticassero, la testa veniva attraversata da leggere fitte, le mani grondanti di sudore erano ferme su un punto dello schermo, mentre mi chiedevo insistentemente se avessi dovuto rispondergli oppure evitare per salvaguardare la salute dei miei timpani. Scelsi la seconda, perché da quanto tempo lo conoscessi Josh era un tipo che amava scherzare col fuoco e odiava essere ignorato. Un ultimo breve respiro, poi il polpastrello schiacciò il pulsante verde e i minuti partirono. Me lo avvicinai a rallentatore vicino all'orecchio sinistro, mentre piegavo un unghia mangiucchiata sul tessuto chiaro dei jeans e roteavo lo sguardo verso lo scomparto dove Alan teneva qualche documento, un pacchetto di fazzoletti di carta, uno di vigorsol alla menta e infine una penna stilografica che doveva essere costata un occhio della testa. Nel frattempo i ripetitivi sbuffi di Josh riempivano il vuoto della cornetta. Uno spiffero mi sfiorava una guancia, poi la calma fu solo un vano ricordo.
«Ciao papino.»
Era più palese il tono sarcastico con cui mi rivolsi, e non appena terminai la frase mi abbaiò contro con un tono di voce ai massimi livelli, che dovetti allungare la distanza, altrimenti mi avrebbe frantumato il timpano.
«Calmati!» cercai di dirgli invano, ma lui continuava a strillare dalla cornetta. Parve dirmi con sclero 'calma un corno, vuoi farmi venire qualcosa. Non sapevo doveva fossi, perché non rispondevi ai messaggi!' sembrava un genitore preoccupato per suo figlio.
La cosa mi faceva ridere, e non riuscii a tapparmi la bocca in tempo in modo che non sentisse.
Lui grugnì bieco. Immaginavo lui con il cellulare premuto al lobo, gesticolare stizzito, torturando il volante con la mano, con una piccola nuvoletta di rabbia che gli fuoriusciva dalla bocca facendolo assomigliare a un toro dinanzi al torero col panno rosso.
'Che hai combinato?' Mi chiese attuando le misure anti-shock.
«Niente. E smettila di preoccuparti Josh, non ho due anni. Sono abbastanza grande per cavarmela da sola senza aver bisogno di una tata.»
Lui ridacchiò. Lo avrei preso a schiaffi se avessi potuto.
«Sì, Josh.» sottolineai, con lui che schiariva la voce, per celare l'ennesimo stimolo di scoppiare a ridere.
«Con te c'è sempre da preoccuparsi. L'ultima volta che tu sei sparita dalla circolazione, il preside Dickens ha trovato il laboratorio che bruciava.»
Arrossii brutalmente in volto.
Era stato un banale incidente come gli altri e tutto perché quel dannato becher era scoppiato sotto alle mie lenti di protezione e le scintille erano divampante improvvisamente avviluppando l'intera stanza fino a far saltare l'interruttore anti incendio.
«È stato un incidente. Quando ancora continuerai a ricordarmelo?»
«Se lo dici tu che è stato un incidente, ma io lo chiamo casino.
Ora per piacere potresti dirmi dove sei? Mi sto preoccupando, anche perché per una notte il tuo letto è rimasto integro, e non ho saputo che inventare per giustificarti.»
«Sono in Wisconsin.» gli dico semplicemente, senza molti giri di parole, diretta e concisa, mentre mi porto il dito alla bocca mordendolo. «Da Alan.»
Lui stava zitto, ora che avrebbe dovuto tempestarmi di richiami, la cornetta dalla mia parte raccoglieva quel vuoto innaturale. Probabilmente se lo aspettava, lo aveva immaginato, era logico come fare una moltiplicazione in matematica e azzeccare il risultato.
Finalmente qualche rumore si percepì, era la sua bocca da cui era sgusciato fuori un mormorio.
«Capisco.»
Chissà perché quel tono non riusciva a suggerirmi nulla che fosse positivo.
Forse perché dopo che gli dirai che hai seguito Alan, lo hai pedinato fino alla sua macchina e hai 'preso in prestito' il fuoristrada del preside Dickens non ti riterrà che una pazza senza cervello.
Sicuramente sarà così, grazie mille per i preziosi suggerimenti coscienza, ci mancavi solo tu per concludere l'allegro duetto di idioti. In effetti per essere idioti non serviva altro che un lungo corso di due mesi e un piccolo esame pratico, come per la guida.
Anche se imparare le arti di un cretino bastava un millisecondo.
«Uhm, ci avrei scommesso che eri lì, dopotutto ormai Alan è una tua ossessione principale.»
«Ma non è corretto questo Josh.»
Odiavo quando avevo torto.
«Certo, ma anche mentendo su ciò mi dai inevitabilmente ragione.»
Ecco una ragione per mandarlo a quel paese e non era l'unica. Ce ne sarebbero molte, ma non basterebbe tutto un foglio per poterle elencare.
«Allora non dico nulla, così la smetti di metterti in mostra, Richard.» gli dissi, citando il secondo nome che sua madre gli aveva affibbiato per metterlo in ridicolo, quando non aveva ancora la capacità di protestare. Lo sentii borbottare parole insensate, come se si stesse rivolgendo a qualcuno, qualcuno che gli sedeva affianco.
Premetti la schiena contro il sedile e presi un profondo respiro, voltando lo sguardo in direzione della porta rossa che al momento era chiusa.
Dovevano parlare, avevano bisogno di tempo per chiarire le pieghe del passato. Forse i rapporti non si sarebbero ricuciti immediatamente e non subito perché Austin aveva commesso troppi errori nei confronti di suo figlio e di Allison, ma almeno ogni dubbio che attorcigliava la coscienza di Alan si sarebbe sciolto. Probabilmente Austin aveva sbagliato in molti dettagli della sua perfetta vita ritrovata, ma con tutta quella ricchezza Allison avrebbe potuto salvarsi dalla morte e Alan avere sua madre accanto, la donna che aveva rinunciato a tutto per lui, ancora per molti anni.
Ma Alan non era un uomo che metteva in disparte il suo orgoglio, nemmeno per una cosa fondamentale come quella e non bruciava la sua dignità per far compiacere il bastardo che gli aveva rovinato l'esistenza.
Non conoscevo Alan da nemmeno una settimana, da quando si era presentato a quaranta di noi del corso di musica. La sua vita mi era sconosciuta fino a quel momento.
In un solo giorno ero riuscita ad insediarmi, la situazione mi era entrata nel cuore con una velocità spaventosa che non ero riuscita a prevederla in tempo per contrastarne gli effetti. Avevo riscontrato qualche anologia con la mia vita e mi sentivo in dovere verso i canoni del mio generoso carattere di aiutarlo, di curargli le ferite, di amarlo senza limiti, di dargli qualcosa che gli era mancato fin da piccolo.
Non ero il massimo, ero come tutte le ragazze che lui aveva incontrato, ma stare con lui mi rendeva forte, capace di sgretolare ogni ostacolo e diversa.
Forse non potevo ridargli tutto quell'effetto perduto nel tempo dei suoi anni adolescenziali, ma ero certa di poterne creare di nuovo in questo futuro che era come un lungo rettilineo dinanzi a noi dove i mostri ci attendevano acquattati per saltarci addosso e ridurci in poltiglia. Ma insieme tutto poteva essere superato, bastava tenersi per mano e continuare a camminare per quanto bastava.
Il resto veniva da sé.
Stavo momentaneamente pensando ad altro, mentre Josh era ancora in linea aspettando con remissività che riprendessi ad attaccare bottone. Probabilmente la sua tolleranza stava finendo.
Infatti la sua voce greve risuonò di nuovo nelle mie orecchie.
«Oh, dicevamo?» gli domandai, ottenendo uno sbuffo da parte sua.
«Dicevamo, come ci sei finita lì!»
«Beh a piedi, no?»
Lui tacque un minuto.
«Sei seria, Sofia?»
Io scoppiai a ridere.
«No.» gli dissi, asciugando una lacrima che mi spuntava dall'angolo dell'occhio. «Ma ho preso la macchina del nostro preside pur senza avere una patente. Sono brava, vero?»
Mi premetti i palmi sulle orecchie per il forte urlo che schizzò fuori dalle sue labbra.
«Ma che urli!»
«Tu sei pazza! Uno di questi giorni ricoveranno me per sincope e tu in un manicomio per malate croniche d'amore!»
Si vedeva così tanto?
Va bene, sì non era stato molto intelligente rubare la macchina del preside, ma in questo caso il fine giustifica i mezzi, e io ero più che soddisfatta del mio eccelso lavoro di professionista.
«Cerca di capire, era per una buona causa.» puntualizzai per cercare un alibi che fosse attendibile. «Non mi metto di certo a rubare tutti i giorni ogni macchina che mi trovo sotto al naso. È stato un episodio isolato.»
«Isolato dici?» ripetè con tono sferzante, seguito da una risata.
«Fammi contare tutte le volte in cui ho sentito questa banale spiegazione del cavolo.» fece una breve pausa. «Circa trecento cinquanta milioni di volte, con questa, cinquantuno, ma probabilmente ho perso il conto.»
«Va bene, può essere sia stata ripetitiva, ma davvero questa è stata la prima e l'ultima. Lascio a te la patente di guida.»
«Bene, perché io non ti assicurerei su un autovettura, manco con cento uno per cento di probabilità che non andrà completamente distrutta.»
Certe volte Josh sapeva essere acido come una scorza di limone.
Ma avevo ancora una carta da giocare per spuntarla, e avevo deciso di utilizzarla ora.
«Non sono l'unica ad avere segreti a quanto vedo.» cominciai beffarda, mentre sentivo il suo respiro mozzargli in gola, che diventava lento. Era come se a un certo punto avesse deciso di smettere di respirare, come se fosse in una vasca piena d'acqua in apnea e stesse a poco a poco affogando. Come erano distinguibili i suoi punti deboli, e come trovavo divertente colpirli uno ad uno finché non sarebbe caduto in ginocchio, prostrato ai miei piedi.
Forse ero cattiva.
Lo sei.
Questa era la mia coscienza che non vuole saperne di farsi i fatti propri, neanche quando si tratta di Josh. La ignorai come facevo ogni volta che interveniva, cercando di sgomitare fra i miei tanti problemi e occupare il palcoscenico.
«Chi c'è con te?» gli chiesi, riducendo gli occhi a due piccole fessure, come quelli di un gatto.
Lo udii ingoiare, e immaginai una goccia di sudore colargli giù dalla tempia, e il Pomo d'Adamo spostarsi su e tornare giù dopo la deglutizione.
«Avanti, dimmelo. Né ho pieno diritto.» lo minacciai. «Altrimenti tutto il college saprà del segreto di Josh Watson.» continuai.
Così Sofia, lui non sopportava il peso di sapersi swifitato, quindi la verità sarebbe giunta in largo anticipo prima che potessi metterlo in chiaro seriamente.
«Allora, me lo dici?»
«Okay, si tratta della mia attuale conquista, e di qui chiudo il discorso perché lei mi sta puntando con sguardo omicida, quindi non chiedere ulteriori dettagli se non vuoi la mia testa sul piatto quando torni.» si limitò a sintetizzarmi, concludendo che me l'avrebbe presentata quando sarei tornata al college, e che per il momento, non poteva dirmi nulla telefonicamente.
«Bene, ma non stavamo parlando di me, ma di te e della presunta uscita fuori di testa con le rotelle fuori posto.» tornò a dire con tutte le intenzioni di prolungare la conversazione.
Ma io non potevo.
Voltai lo sguardo al lato del finestrino del conducente e vidi la porta dopo tanto tempo spalancarsi e la figura del mio professore, che con una mano la richiudeva. Iniziò ad avanzare nel piccolo vialetto in pietra, accompagnato dal suo cane che gli faceva da scorta. Lui era ghermito in un cappotto nero invernale che si confondeva con il corvino della sua capigliatura che veniva mossa delicatamente dalle prime sferzate gelide di fine ottobre. Il volto reclinato alle scarpe era mesto mentre osservava meticoloso la trama della stradetta. Alan era cambiato da quando era entrato in quella casa trovandosi faccia a faccia con chi gli aveva reso un inferno tutto quello che credeva potesse restare perfetto per sempre, come in un libro di fiabe.
Il suo volto abbattuto, con gli occhi vitrei di quel blu colmo di frustrazione, erano la testimonianza di quanto stesse continuando a sopportare sulle sue spalle un fardello non suo.
Camminava nella direzione della Porche con la fretta che gli esplodeva in ogni vena del corpo, vena di scappare lontano da quel posto il più presto possibile.
Le mani fredde e screpolate piazzate nelle tasche del giubbino, la schiena flessa mentre i piedi calciavano qualche sassolino.
Vederlo così spento fu una coltellata nel mezzo del petto.
Un grande dolore che si irradiava in ogni tessuto del mio corpo. Volevo alzarmi per sorreggerlo, ma le fitte sleali che mi strappavano un gemito, mi costringevano a stare seduta, appoggiata sulla fragilità delle ginocchia. Per quanto lo amassi con tutta me stessa, in spirito e massa, non riuscivo a replicare, a ribellarmi al potere governatore della natura, e rimanevamo le pedine di un destino infame.
Lo vidi alzare il capo alla fine, quando era giunto in prossimità della macchina. I miei occhi si scontrarono coi suoi, ci guardammo per un tempo interminabile, quel blu iniziò a mischiarsi con il verde chiaro.
I miei occhi vividi, i suoi affievoliti nella costernazione, ma anche in quella situazione erano in grado di scombussolarmi interiormente, mentre i battiti tamburellavano pure nelle orecchie al limite dei decibel. Era come se quella fosse la modalità più semplice per confidarsi con me senza le parole.
Perché parlare gli faceva rivivere quel disprezzo verso quella persona che da piccolo aveva stimato come se fosse stato l'eroe dei fumetti che sconfiggeva tutti i mostri che apparivano nell'armadio di notte. Quando aveva bisogno di qualcuno che lo consolasse, che gli fosse vicino, ma lui aveva preferito correre nelle braccia di una poco di buono piuttosto che restare con la sua famiglia e sua moglie.
Questo non era da eroi, ma da codardi senza cuore.
Alan allungò una mano verso la maniglia e aprì la portiera.
Una ventata gelida trapassò il mio esile corpo e mi strinsi le braccia al petto. Lui si accomodò al sedile del conducente, mentre io lo guardavo cercando di decifrare il suo imperscrutabile silenzio.
Josh era ancora in vena da discutere, ma io avevo bisogno di consolare Alan, prima che il mondo gli cadesse addosso.
«Va bene, ci vediamo. A presto.» tagliai corto velocemente, mentre Josh ancora protestava. Mi allontanai il telefono della lobo uditivo e annullai quella chiamata.
Voltai di scatto lo sguardo nella direzione del ragazzo affianco a me per cercare di immortalarlo infragrante. Alan si girò a rallentatore per fissarmi, e per la prima volta che era salito nella Porche, mosse le labbra per dirmi qualcosa.
«Chi era?»
La domanda di Alan di un milione di dolori non si era fatta attendere. Si vedeva lontano un miglio che era geloso del presunto interlocutore a telefono, ma preferii restare in silenzio per prolungare quel tormento.
«Allora?» domandò con voce stizzita, mentre portava le mani sul volante e lo stringeva.
Sorrisi dolce, spostandomi dallo schienale per puntargli un dito sulla guancia destra.
«Alan, sei geloso!?»
«Mi sembra normale. Fino a prova contraria tu sei mia.» mi disse mentre indossava il suo smagliante sorriso, che mi scioglieva. Arrossii timida sui dannati cuscinetti da bambina, mentre Alan mi fissava, portando una mano verso le mie ciocche scompigliate ricadenti sulle spalle.
Non mi muovevo di un centimetro, mentre la sua mano scendeva verso la scapola e proseguiva spedito verso il mento. Mi girò il viso piano in modo che i nostri sguardi si accarezzassero, e nel momento in cui combaciarono notai un bagliore fulmineo di gioia
attraversare il blu oceanico dei suoi magnetici occhi.
Si spinse, superando l'ingombro delle marce, verso il mio lobo sinistro e mi sussurrò.
«Sei tu la cosa positiva che la vita mi abbia donato. Ti prego, non andartene.»
Quelle parole mi entrarono nel cuore e gli diedero un altro stimolo per battere ancora di più per lui. L'amore è quello che avrebbe ucciso la mia razionalità, quello che mi avrebbe impedito di tenere i piedi a terra e le radici nel terreno e Alan che incarnava perfettamente una perfezione astratta che volevo al mio fianco.
Iniziai a percepire qualche rivolo di lacrime solcare le guance, mentre il suo dito le asciugava.
«Io ti amo più di me stesso.»
Il mio cuore pulsava così tanto che forse si sarebbe spappolato.
«Niente e nessuno potrà dividerci, e sono sicuro che il dolore sarà solo un ricordo con te al mio fianco. Tu mi fai provare emozioni che credevo morte, tu sei il centro del mio benessere.»
Amavo questo uomo e con tutto questo sentimento non avrei retto più. Tutto si stava confondendo nei suoi occhi e nelle sue parole.
«Alan.» lo fermai e lì rimase a guardarmi con la paura traboccante in volto.
Portai le mani a coppa sotto al suo mento e annullai una minima distanza e lui rimase immobile.
I nasi cominciarono a toccarsi, ma le labbra mantenevano un centimetro, poi desiderose, si sarebbero sfiorare. Sentivo gli occhi di lui affogare nei miei e io nei suoi, senza possibilità di emergere.
«Alan.. io ti amo.»
Glielo avevo confessato, il cuore aveva aumentato la sua andatura.
«So che sono ancora una bambina, ma da quando ti ho incontrato non ho fatto altro che pensare a te. Forse tu volevi una donna più adulta al tuo fianco.» mi posò un indice a chiudermi le labbra.
«Fermati.»
«Fermarmi, perché?»
Alan accennò un sorriso e portò una mano tra i miei capelli.
«Stai dicendo un mucchio di sciocchezze, perché io dovrei preferire una donna diversa da te, quando qui ho tutto ciò che un uomo può desiderare?»
Non mi lasciò dargli una risposta.
«Te lo dico io Sofia. Perché da quando ti ho conosciuto non ho mai infranto una regola in vita mia, forse ero troppo serio, ma da quando ti ho incontrato in quel corridoio e ti ho aiutato tutto è stato condizionato da te, anche il mio più piccolo pensiero.»
«Ma.»
«Aspetta, fammi finire.»
«Sì, il problema non siamo noi, ma l'opinione degli altri su di noi. Insomma se scoprissero che frequenti un alunno potrebbero licenziarti e io non voglio.»
«Non importa.»
Spalancai la bocca.
«Gli altri non sono nessuno. Io non posso perdere la mia unica opportunità di essere felice, nemmeno il preside in persona potrà cambiare ciò che sento per te.» mi rivelò con gli occhi lucidi.
«Voglio concetrizzare questo amore impossibile.»
«Anche io.» gli risposi, di rimando, e lui mi accarezzò la guancia, prima di sfiorare le labbra contro le mie e lasciarmi travolgere dal suo affetto che mi faceva dimenticare tutto il resto.
Si staccò da me solo per riprendere fiato. Sulle mie labbra si formò un sorriso ebetizzato.
«Sì, voglio stare con te.»
Le sue parole convincerebbero anche la persona più reticente.
«Allora questo sarà un nostro segreto.» fece lui, felice come se stesse giocando a nascondino, e mi avviluppò nel caldo abbraccio facendomi posare le guance sul suo petto, mentre lui mi lasciava un bacio fra la capigliatura e con una mano portata sulla schiena intensificava l'abbraccio.
Era una pazzia, ma ero innamorata di lui.
*****
Amici cari e fan della storia.
Il cast della storia è ora confermato, nel prossimo aggiornamento scopriremo gli attori del trailer, che arriverà a breve su YT.
Gli attori di Alan e Sofia sono Matt Bomer e Nina Dobrev. E presto scopriremo chi sono, nel frattempo leggete questo nuovo aggiornamento in ritardo e lasciate una stellina e un commentino se lo ritenete accettabile. Un'ultima cosa prima di sparire: grazie ancora per la profonda presenza nella storia. Finalmente abbiamo raggiunto i due mila voti e ora siamo letti anche in Canada. Grazie ancora per il bene che volete ai personaggi e alle loro storie.
Sofia: Grazie per tutto, per aver votato il mio pov anche se a volte dico le stesse cose e sono ripetitiva. Grazie mille fan, baci!
Tania: Che dire? Vi adoro cari, continuate a leggere anche se le cose si fanno difficili, perché vi assicuro che non resterete delusi.
Alan: cari fan! Grazie perché leggete ogni singolo rigo del mio disordine esistenziale e mettete commenti e like :) Vi adoro e vorrei avere un appuntamento con tutti voi ma siete moltissimi!
Contentissimo! Bacioni ♡
Josh: loro seguono la storia per me, è chiaro e mie care donzelle per la mia bella faccia siamo arrivati a questo splendido risultato. Continuate a seguirci, e inoltre Buon Natale! Preparate gli alberi, leggendo le nostre storie...
Buon quasi Natale!
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