Capitolo 36
Venni svegliato da un lieve rumore. Mi passai una mano sul volto, sbadigliai e cercai di riordinare i pensieri. Non appena mi mossi, udii un piccolo gemito di disappunto: abbassai lo sguardo sulla donna che mi dormiva affianco e sorrisi nella penombra.
Era l'alba e un tenue chiarore filtrava dalle tende tirate, illuminando fiocamente la stanza.
Sofya riposava accanto a me. Aveva i capelli lunghi che ricadevano in ciocche disordinate sul suo corpo nudo. Un braccio cingeva la mia vita, come se non farmi andar via, mentre l'altro era piegato fra noi.
Non volevo svegliarla così mi mossi il più delicatamente possibile e riuscii a sgusciare via dalla sua dolce presa. Sofya emise un mugolio scocciata, ma non si destò.
Mi alzai dal letto per poi recuperare la giacca: la fonte del rumore che aveva rovinato il mio sonno, infatti, era il cellulare che si trovava nella tasca interna. Sul display mi comparvero tre chiamate perse e un messaggio molto conciso da parte del mio collega.
Chiamami.
Mi accigliai un poco dopo aver letto quell'imperiosa richiesta dopodiché presi i boxer dal mucchio di vestiti sparpagliati sul pavimento e uscii dalla camera da letto, sistemando per bene la tenda coi papaveri che fungeva da porta. Telefonai a Cameron non appena fui sicuro di essere fuori dalla portata d'orecchio della mia compagna.
«Che succede?» esordii, senza i convenevoli e parlando a voce bassa e brusca.
«C'è stato un altro omicidio e stavolta non è stato un lavoro pulito. Pare che l'assassino fosse arrabbiato» mi spiegò Cam, venendo subito al dunque «Con te, per essere precisi.»
«Con me?» ripetei, scoccando un'occhiata alla stanza dove riposava Sofya mentre un senso di inquietudine mi correva lungo la schiena.
«Beh, abbiamo trovato il tuo biglietto da visita sul corpo» aggiunse il mio collega, in tono incolore.
«Chi è la vittima?» chiesi, ripensando a tutte le persone a cui avevo dato il mio biglietto da visita nell'ultimo periodo.
«Una ragazza giovane con i capelli corti dalle punte blu. Stiamo ancora cercando di identificarla: sembra che non avesse una borsa con sè. O forse l'omicida l'ha portata via oppure l'ha gettata in qualche cassonetto. Controlleremo» ripose Cameron, facendo ipotesi su ipotesi.
«Capelli blu, hai detto?»
Quel particolare mi fece tornare in mente una persona: la cameriera del locale dove avevo portato Sofya per la nostra prima colazione assieme. Però non le avevo lasciato il mio biglietto da visita, ne ero sicuro.
«La conosci?» ribattè lui, con voce affilata.
«No. Ma ho un brutto presentimento» dissi in tono basso mentre il mio cervello cercava di mettere insieme le tessere di quell'oscuro puzzle «Mandami l'indirizzo. Arrivo subito.»
Chiusi la chiamata senza attendere la risposta affermativa da parte di Cameron. Un attimo dopo, infatti, il cellulare vibrò per l'arrivo di un messaggio: il luogo del delitto si trovava a circa mezz'ora da casa mia.
Tornai in camera per cercare qualcosa da mettermi e trovai Sofya ancora addormentata. Per fortuna pareva che avesse il sonno pesante così presi pantaloni, maglietta e pistola per poi uscire nuovamente.
Mi feci una rapida doccia e mi vestii. Dopodiché staccai un foglietto dal block-notes che utilizzavo sempre al lavoro e scrissi due righe alla mia compagna, che posizionai sul cuscino accanto a lei.
Armato e in allerta, abbandonai casa mia di malavoglia, salii in macchina e mi diressi verso il luogo dell'omicidio. Il traffico a quell'ora era pressoché inesistente così potei guidare tranquillamente, lasciando vagare la mente. Da quando avevo saputo che la vittima possedeva capelli dalle punte blu, l'immagine della simpatica e giovane cameriera del Waffle Cafè non abbandonava il mio cervello.
Possibile che fosse proprio lei?
Prima la signora Bennett, poi quella ragazza...
Vi era sicuramente un collegamento e più passava il tempo più mi convincevo che si trattava di me. Eppure non mi veniva in mente nessuno che poteva avercela con me: quando mi ero trasferito in quella città, avevo saldato tutti i conti col passato.
Tranne uno...
Però non credevo potesse trattarsi di lui. Mi accigliai prima di svoltare a sinistra: ero quasi arrivato a destinazione.
«Forse dovrei chiamarlo» riflettei fra me e me, stringendo il volante così forte da sbiancarmi le nocche «Meglio di no. Meno parlo con lui, meglio mi sento.»
Il mio dibattito interiore continuò anche quando smontai dall'auto.
«Che pessima cera» commentò una voce molto familiare, facendomi tornare bruscamente alla realtà.
Accantonai i brutti pensieri e decisi di concentrarmi sul lavoro. La vittima si meritava tutto il mio rispetto e la mia attenzione e toccava a me e ai miei colleghi renderle giustizia.
«Sarai bello tu» replicai, forse in maniera troppo acida, ma sapevo che Cameron non si sarebbe offeso.
Ci trovavamo davanti a un ristorante indiano che non conoscevo, la cui insegna ricordava il Taj Mahal. Alcuni colleghi avevano parcheggiato davanti, come avevo fatto io, però notai che il luogo del delitto si trovava, in realtà, sul retro del locale.
«Ahia, così intacchi la mia autostima» ribatté il mio collega, alzandomi il nastro giallo che delimitava la zona incriminata «Vieni. Ti accompagno da lei.»
Annuii con un cenno del capo mentre continuavo a guardarmi intorno. Non mi sentivo affatto tranquillo. Percepivo un pizzicore alla nuca come se qualcuno mi stesse spiando nascosto da qualche parte, lì vicino. Ero irrequieto.
Cameron non commentò in alcun modo la mia inconsueta circospezione e mi scortó verso il retro del locale: il vicolo che stavamo attraversando era a dir poco lurido. Il cassonetto era pieno di avanzi e i gatti randagi del quartiere stavano festeggiando tale abbondanza.
Il mio collega camminó tenendosi sulla destra e cercando di non calpestare nulla. Era sempre stato un tipo schizzinoso.
A me, invece, non importava nulla. Tuttalpiù avrei buttato via le scarpe.
Quando arrivammo a destinazione, la prima cosa che notai fu l'odore. Dolciastro e nauseante con un forte aroma di ruggine.
Sangue...
Poi vidi una figura china a terra e immaginai si trattasse di Melinda. Feci due passi avanti e la mia ipotesi di confermata: il medico legale, avvolto in un cappotto corto ma dall'aspetto caldo, stava constatando l'ora del decesso della povera cameriera che aveva servito me e Sofya.
«Ciao, Mel. Che mi puoi dire?» le chiesi, raggiungendola assieme a Cameron.
Abbassai lo sguardo sulla vittima: pareva che avesse avuto un incontro con una belva feroce. Incontro che aveva perso. La giovane indossava una corta gonna nera abbinata a un top, in origine, celeste e calzava scarpe a tacco alto. Non vidi né un cappotto né una borsa.
«Ciao, Richard» mi salutò lei, estraendo con un gesto deciso il termometro dal fegato «Come puoi notare anche tu, l'assassino si è accanito sulla vittima. Ho contato almeno quindici coltellate, ma credo che siamo molte di più. Una di queste ha reciso la carotide.»
Mentre mi spiegava la causa della morte, Melinda ogni particolare sul corpo martoriato della giovane.
«È stata uccisa altrove e poi scaricata qui» aggiunse il mio collega, rimasto in silenzio fino a quel momento.
«Sono d'accordo con te» affermò Mel, rialzandosi e sgranchendo un poco le gambe «Dovrebbe aver perso una quantità ingente di sangue mentre qui ho notato soltanto poche tracce.»
«E il biglietto?» le chiesi, dato che non l'avevo visto da alcuna parte.
«Ce l'aveva in bocca» mi rispose il medico legale, frugandosi in tasca per poi trarne fuori il foglietto stropicciato all'interno di una bustina di plastica.
«Posso?» domandai, allungando una mano per prendere il reperto.
Melinda me lo passò dopodiché pulí il termometro e lo ripose nella sua valigetta marrone scuro. Fatto ciò si tolse i guanti in lattice che gettò in un sacchetto ai suoi piedi.
Quando ebbi il biglietto fra le mani, lo spiegai per quanto possibile e lessi ciò che vi era scritto. Non vi era alcun dubbio: si trattava del mio biglietto da visita. Recente fra l'altro, dato che avevo cambiato numero di telefono qualche mese fa.
«È tuo, vero?» disse Cam, avvicinandosi a me.
«Eh già» replicai con un sospiro «Eppure sono certo di non averglielo mai dato.»
«Però la conosci» osservó il mio collega, inarcando un sopracciglio.
«Conoscere è una parola grossa» brontolai, restituendo il reperto a Melinda, che lo consegnò a un agente della scientifica «L'ho vista una volta sola. Faceva la cameriera al Waffle Cafè e ci ho scambiato due parole.»
«Tutto qui?» domandò Cameron, scambiando una veloce occhiata con Mel che non mi sfuggí.
«Tutto qui» confermai, mettendomi le mani in tasca e incamminandomi verso il vicolo che mi avrebbe riportato alla macchina.
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