Capitolo 25
Mentirei se dicessi che quella mattina stavo bene. In qualche strana maniera ero riuscita a svegliarmi presto e arrivando in una zona vicino alla città, riuscii a fermare un taxi che mi aveva lasciata vicino a casa. Nessuno si era accorto di nulla ed ero entrata silenziosamente in casa evitando il personale. Apparentemente era tutto ok, nulla di insolito. Quando scesi pronta per andare a scuola, mi salutarono normalmente, eccetto Marisol che avvicinandosi mi aveva chiesto se stavo bene. Non ero sorpresa del fatto che avesse intuito che qualcosa mi turbava, era praticamente una mamma e mi conosceva troppo bene, ad ogni modo, cercai di rassicurarla dicendole semplicemente che avevo dormito poco.
Andare a scuola era stato stressante, avere tutta quella gente intorno mi innervosiva. Continuavo a pensare a quello che era successo la sera prima distraendomi di continuo. Per quanto mi sforzassi di seguire le lezioni, la mia mente continuava a mostrarmi le immagini di quell'uomo che voleva farmi dio solo sa cosa. Sussultavo ogni volta che qualcuno mi toccava la spalla per chiamarmi, essendo sempre assorta nei miei pensieri, e la cosa stava diventando sempre più snervante. Nessuno dovrebbe avere paura di girare per le strade della propria città, e non solo della propria... le persone dovrebbero camminare tranquille guardando avanti e non indietro andando a passo svelto.
Diana mi affiancò guardandomi con espressione curiosa e senza darle il tempo di fare domande, la portai in un'aula vuota raccontandole l'accaduto. I suoi occhi mostravano dispiacere e appena finii il racconto, mi abbracciò forte. Suggerì anche di denunciare l'accaduto ma non potevo. Nessuno doveva sapere che ero uscita a quell'ora di notte, per di più, di nascosto e in una zona poco frequentata. Poi, sarebbe stato completamente inutile, ne ero sicura. Avrebbero potuto chiedermi delle prove che non avevo e la cosa non si sarebbe risolta, perché alla fine non era successo nulla. Per quanto fosse triste e sbagliato, era in questo modo che funzionavano le cose. Guardai il cellulare e lessi il messaggio di Andrew che a quanto sembrava, mi stava cercando. Dovetti salutare Diana che cercò di trattenermi per convincermi a cambiare idea, fallendo. Uscendo da scuola, scesi veloce i gradini ma ricordai solo dopo di dover andare dalla parte opposta. Era l'abitudine di raggiungere Jason al solito posto che mi aveva fatto percorrere quella strada, il nuovo autista invece parcheggiava da tutt'altra parte, ma ovviamente non gliene facevo una colpa. Spostando lo sguardo però, notai una persona familiare appoggiata ad un albero, fissarmi intensamente. Aveva addosso una felpa larga con il cappuccio tirato su, dei pantaloni neri e una giacca verde scuro. Quando notò che anche il mio sguardo si era posato sul suo, iniziò ad avvicinarsi, il che mi spaventò inizialmente ma poi lo riconobbi. Non sapevo cosa volesse e il mio istinto fu quello di allontanarmi ma, per qualche ragione restai ferma. Mi sentivo bloccata, come se qualcuno mi avesse incatenata a terra.
«Ciao.» Ethan mi squadrò soffermandosi poi a guardare il libro che senza rendermene conto, stavo stringendo forte tra le braccia.
Allentai la presa e schiarendomi la voce cercai di rispondere in un tono normale. «Ciao... se sei qui per Jason...»
«No.» Rispose subito continuando a fissarmi con le mani in tasca. «Volevo chiederti se era tutto ok. La scorsa notte sei scappata via...» disse in tono calmo. Solo allora compresi che uno dei ragazzi ad mi aveva salvata, era proprio lui. I miei occhi diventarono lucidi e abbassai lo sguardo sulle mie scarpe sentendomi in imbarazzo. Sentii la mano di Ethan poggiarsi cautamente sulla mia spalla e abbassando un po' il viso per guardarmi, cercò di richiamare la mia attenzione. «Ehi...» sussurrò, «va tutto bene, non piangere...» mi strinse leggermente la spalla e alzai lo sguardo. Sentivo le lacrime rigarmi le guance ma cercai di ricompormi. «Quel tipo lo abbiamo sistemato, ora ci penserà due volte prima di ripetere una cosa del genere.»
Ancora mi era difficile credere che era stato proprio Ethan a salvarmi, era sicuramente l'ultima persona che mi sarei aspettata. «Mi dispiace per essere scappata via così senza ringraziarvi, ero davvero spaventata e...»
«Non mi devi spiegazioni,» disse subito interrompendomi, «è stata una reazione normale, quel tipo stava per farti del male. L'importante è che tu stia bene... come sei tornata a casa? Non te la sarai fatta a piedi, vero?» domandò.
«Sono riuscita a fermare un taxi e avevo dei soldi nella giacca, quindi mi è andata bene.» Spiegai.
«Cosa ci facevi in giro a quell'ora nel nostro quartiere?» Chiese curioso e con aria sospettosa.
«Io... in realtà non lo so.» Sospirai passandomi una mano tra i capelli ripensando a quella serata e agli ultimi avvenimenti con i miei, con Andrew e con Jason. «Tu e il tuo amico invece?»
«Io e Mike eravamo al campo a fare dei tiri a canestro con Jason e Jaden. Loro però si sono fermati più di noi, credo dovessero parlare di qualcosa, il tuo ragazzo era abbastanza fuori forma. Avete litigato?»
«Non è il mio ragazzo.» Sussurrai arrossendo lievemente, guardando altrove.
«Allora è questo il problema.»
«Come...?»
«Niente.» Disse con un'alzata di spalle voltandosi. «Cerca di non girare più da sola a notte fonda.»
«Ethan...» lo richiamai mentre si stava allontanando e si voltò. «Grazie.» Dissi sincera e lui, facendo un cenno con il capo, si allontanò attraversando la strada. Io invece, ricordando che l'autista probabilmente mi stava aspettando, iniziai a correre.
Tornata a casa, chiesi ai pochi presenti che erano lì a quell'ora, se volevano unirsi a pranzo con me, compreso Gabriel. Andando in camera, lasciai lo zaino in un angolo e senza avere il tempo di cambiarmi, sentii bussare. Andai ad aprire e Marisol entrò guardandomi in modo un po' strano, avrei detto quasi sospettoso, come aveva fatto anche quella mattina.
«So che non dovrei intromettermi ma... va tutto bene signorina?» Chiese dolcemente mentre entrambe ci mettevamo sedute sul letto.
Non mi sentivo di raccontarle quello che era successo, non perché non mi fidassi, non riuscivo a parlarne in generale. Così, per quanto mi dispiacesse farlo proprio a lei, mentii. «Sono solo un po' stressata per via della scuola e in più devo scegliere ancora l'università. Non ho ancora detto ai miei che sono stata accettata in tutte quelle in cui ho fatto richiesta.»
«Ma è meraviglioso!» Marisol sorrise gioiosa ma poi si bloccò portandosi una mano alle labbra. «Oddio, non intendevo di certo dire che è meraviglioso il fatto che lei sia stressata. Parlavo delle università...» disse correggendosi, il che mi fece sorridere.
«Lo so, tranquilla.»
«Sono così felice per lei signorina Isabel!» Mi abbracciò e qualche istante dopo ricambiai. «Sono certa che i suoi genitori si sentiranno davvero orgogliosi non appena lo sapranno.» Disse e io annuii pensando a come la sua frase fosse corretta. Lei era felice per me, i miei genitori invece sarebbero stati orgogliosi del fatto che la propria figlia fosse stata accettata in svariate università. Perché quello che contava davvero era essere desiderati, risultare superiori o meglio... esserlo. Non c'era molto da fare, o eri il numero uno, o non eri nulla.
«Eccovi!» Gloria sorrise non appena ci vide scendere. Io mi sedetti al solito posto e guardai il piatto di riso allo zafferano fumante che mi fece subito venire l'acquolina.
Gabriel aveva accettato l'invito e si era unito a noi, cogliendo così l'occasione di conoscerci meglio e viceversa. Anche se io in realtà non parlai molto, quel giorno ero più incline ad ascoltare gli altri. Scoprimmo che Gabriel era un padre single di trentasei anni, la sua bambina si chiamava Lucy e aveva due anni. La madre della piccola era morta sfortunatamente dopo il parto e Gabriel si era ritrovato a crescere Lucy da solo. Fu costretto a lasciare il lavoro per trovarne uno con orari più flessibili, ma non lo pagavano abbastanza. Successivamente si trasferì dalla madre che riuscì ad aiutarlo con il mantenimento della piccola e ora era qui. Mio padre gli aveva offerto un buono stipendio ed entro un anno, la sua intenzione era quella di comprare una casa tutta sua e assumere qualcuno che badasse alla bambina quando era a lavoro.
La sua storia ci aveva toccati e lo ascoltammo tutti in silenzio cercando di non fare troppe domande, lasciandogli modo di raccontare solo quello che si sentiva. Quando tutti intuimmo che Gloria non avrebbe retto ancora per molto, Gabriel fu tanto comprensivo che accennando un sorriso cambiò discorso parlando di qualcosa di più allegro. Anche io sorrisi capendo che lo aveva fatto per lei e pensai che in fin dei conti, era un uomo bravo ed onesto. Dopo pranzo mi domandò se avessi bisogno di lui ma gli dissi che non doveva preoccuparsi in quanto sarei rimasta a casa a studiare, così si congedò dopo averci ringraziati per il pranzo. L'istante dopo, quando tutti stavamo per alzarci, restammo sorpresi nel vedere mio padre entrare in cucina. Si alzarono tutti velocemente salutandolo e io feci lo stesso poco dopo.
«Cosa sta succedendo qui?» Domandò in tono freddo.
«Ho chiesto al personale se si voleva unire con me per il pranzo... per stare un po' in compagnia.» Spiegai.
«Capisco.» Disse squadrandoci tutti. «Per oggi avete finito, potete andare a casa e riprendere il solito turno domani, avvertite anche gli altri.» Si dileguarono tutti lentamente e in silenzio, confusi quanto lo ero io. Non capivo se fosse tutto ok o se invece mio padre non avesse preso bene il gesto. Dopo cinque minuti, quando tutti uscirono allontanandosi dalla villa, mio padre guardò la cucina. «Dato che ti piace così tanto stare a contatto con il personale...» iniziò a dire girando li intorno gettando l'occhio su qualsiasi superficie, «ora laverai tutti i piatti e pulirai la cucina...» prese la pentola e la lanciò nel lavandino, facendo la stessa cosa poi con la padella che c'era accanto.
Io strinsi gli occhi per il rumore che stava facendo e istintivamente azzardai una parola. «Piano...»
I suoi occhi si fissarono subito sui miei e mi vennero i brividi. Si avvicinò prendendomi per i capelli e mi spinse vicino al lavandino facendo poi cadere un bicchiere a terra. In quel momento ebbi un veloce flash della sera prima che scacciai subito dalla mente rabbrividendo. «Pulisci e stai zitta. Non azzardarti a rispondermi.» Lanciò qualcos'altro e se ne andò fuori dalla cucina. Sentii gli occhi pizzicare ma strinsi i pugni trattenendo il respiro. Mi abbassai e iniziai a raccogliere i cocci di vetro. Non pensavo di aver detto qualcosa di sbagliato o arrogante, se lo avevo fatto non era stata mia intenzione. In realtà non avevo sempre una ben chiara concezione di cosa fosse giusto o sbagliato dire in presenza di mio padre. Spesso si arrabbiava anche per i miei toni di voce, che a detta mia erano normali, mentre a detta sua erano arroganti e provocatori. Gettai i pezzi di vetro e decisi di iniziare con il lavare i piatti. Ricordavo ancora dove si trovavano i detersivi grazie alla volta in cui Jason decise di cucinare qualcosa insieme e sistemare successivamente tutto. Chiusi gli occhi non appena quelle immagini attraversarono la mia mente e cercai di cacciare via momentaneamente quei ricordi in tutti i modi.
La sera, dopo cena, mio padre mi chiamò a gran voce dalle scale. Non bisognava mai farlo aspettare, così interruppi il lavoro che stavo svolgendo per la scuola e corsi velocemente di sotto. I miei erano entrambi in sala, mia madre seduta sul divano e mio padre in piedi davanti al camino che mi dava le spalle.
«Tua madre ha trovato queste in camera tua.» Disse alzando delle buste, che capii subito essere le mie lettere di accettazione. Era irritante sapere che mia madre fosse entrata nella mia stanza e avesse frugato tra le mie cose.
«Perché non ci hai detto niente?» Mia madre incrociò le braccia al petto mentre mio padre si girava verso di me leggendo le lettere per conto suo.
«Pensavo di dirvelo dopo aver scelto quella in cui volevo andare.»
«Ma tu non devi scegliere. Andrai alla Saint William, come me.» Disse per poi gettare le altre lettere nel fuoco.
«No!» Corsi davanti al camino con gli occhi sgranati, scioccata da quello che gli avevo appena visto fare. Ero immobile, la carta bruciava tra le fiamme fino a diventare cenere, nell'osservare quella scena iniziai a tremare dalla rabbia e gli occhi invece iniziarono a pizzicare. L'unica lettera che aveva tenuto era quella della St Williams, la rigirava tra le mani tranquillo e avvicinandosi a mia madre, gliela passò.
«E visto il tuo comportamento, mentre io e tua madre partiremo per Londra, tu passerai il Natale qui quest'anno. Ho parlato con Andrew e mi ha assicurato che verrà ogni tanto lui a vedere se è tutto a posto.»
«Verrà a vedere se è tutto a posto o verrà qui per fare la tua spia personale?» Domandai in tono consapevolmente arrogante.
«La cosa ti disturba? Hai qualcosa da nascondere?» Chiese e nel vederlo sembrava quasi pronto ad attaccare fisicamente.
«La cosa mi disturba molto, ma no, non ho assolutamente nulla da nascondere.» Risposi cercando di contenere la rabbia che avevo dentro e che tentava di uscire dal mio corpo troppo piccolo.
«Questo lo vedremo, puoi andare.» Disse riprendendo la lettera dalle mani di mia madre. «Ah, domani ricorda di comprare il cellulare e vedi di non perderlo, perché se succede di nuovo, rimarrai senza.»
Tornai nella mia stanza e chiusi la porta a chiave cercando di non urlare. Forse era per quello che piangevo spesso, non potendo urlare, l'unico modo silenzioso che avevo per scaricare la rabbia, era attraverso le lacrime. Uscii sul balcone sentendo il rumore di una macchina, qualche istante dopo intuii che i miei erano usciti ed ero rimasta sola. Rientrai e il mio sguardo si soffermò sui vari volantini delle università appoggiati sulla scrivania. Ne avevo uno per ogni indirizzo, alcuni me li avevano spediti personalmente loro per posta, avrei voluto avere la possibilità di scegliere. Iniziai di nuovo a tremare e imprecando ad alta voce, tirai giù tutti i volantini strappando quelli della St Williams. Spensi la luce e accesi la piccola lampada sul mio comodino, mi coricai a letto e strinsi il cuscino forte a me.
•••
Socchiusi gli occhi sentendo un rumore provenire da fuori. Guardai l'ora sul comodino realizzando dopo un po' che fossero le due. Vidi un'ombra alla finestra, ma non ero per niente spaventata, sapevo che era lui. Jason scavalcò il balcone e aprì la finestra entrando come se nulla fosse. Aveva il cappuccio della felpa su e la giacca pesante addosso, mi guardò senza dire nulla. Io invece mi alzai e avvicinandomi, allungai le mani verso di lui per abbracciarlo, ma si ritrasse... inutile dire che ci rimasi male.
«Come hai potuto tenermelo nascosto?» Domandò guardandomi con disprezzo.
«Di cosa parli?» Dentro di me, in realtà, sapevo a cosa si riferiva. Ma evidentemente non riuscivo a prendermi la colpa per ciò che avevo fatto.
«Smettila, sai di cosa parlo.» Disse avvicinandosi. «Come hai potuto permetterglielo? Jane sta pagando per qualcosa che non ha fatto. Larson le ha appena rovinato la vita e tu non hai fatto nulla!»
«Jason...» lo guardai dispiaciuta e gli toccai il braccio, ma lui spinse subito via la mia mano.
«Pensavo fossimo amici... pensavo tenessi anche tu a Jane.»
«Ed è così!» Cercai di spiegare, ma mi interruppe di nuovo.
«La verità è che sei come i tuoi genitori. All'inizio ti credevo diversa, ma ora capisco tutto, sei una manipolatrice e una falsa. Esattamente come loro. In effetti, te li meriti.» Uscì sul balcone per andarsene, ma non potevo permetterglielo. Quello che aveva detto mi aveva davvero ferita, ma dovevo fermarlo e dargli almeno una spiegazione, doveva sentire la mia versione della storia.
«Jason aspetta...»
«No, lascia stare.»
«Jason!»
"Sono qui" gli sentii dire. Ma non era lui ad averlo detto... o meglio, sì, era la sua voce, ma arrivava da un'altra parte. "Va tutto bene, sono qui".
•••
Socchiusi gli occhi sussurrando il nome di Jason e sentii una mano calda accarezzarmi la guancia. «Sono qui...» sussurrò. Ed era vero, lui era proprio lì accanto a me. Mi misi subito seduta e mi guardai intorno, a terra c'erano ancora i volantini e Jason era vestito in modo diverso. Questo mi diede la conferma che quello di prima era stato solo un brutto sogno. Lo abbracciai rendendomi conto di quanto fosse forte la mia paura di perderlo. Lui ricambiò tirandomi sulle sue gambe e in pochi secondi riuscii a calmarmi. «Cosa stavi sognando?» Domandò in un sussurro.
Ripensai al sogno sperando non diventasse mai realtà, anche se in parte sembrava difficile. Jason si sarebbe arrabbiato per via del gesto di Andrew, ma la vera domanda era questa: si sarebbe arrabbiato anche con me? Gli avevo tenuto nascosto tutto dall'inizio anche se le mie intenzioni non erano cattive. «Te...» risposi poi sospirando non appena riuscii a risvegliarmi dai miei pensieri. «Ho sognato che te ne andavi.»
«Mi dispiace.»
«Era solo un sogno, non devi dispiacerti.»
«No,» si corresse, «non parlavo del sogno...» mi accarezzò il viso spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Mi dispiace per com'è finita l'ultima volta. Non dovevo lasciarti andare, ma dovevo realizzare e riflettere su quello che mi avevi raccontato.»
«Tranquillo, è ok... non potevi aspettartelo.»
«E invece sì. L'ho sospettato molte volte e te lo domandai un giorno, ma negasti. Ricevere una conferma è stato...» prese un respiro profondo guardando altrove e scosse la testa. «Non so nemmeno come definirlo.»
«So cosa vuoi dire, è peggio quando si realizza di avere ragione su qualcosa di negativo. Ti capisco...» dissi e lui annuì. Dopo alcuni istanti di silenzio, Jason si passò una mano tra i capelli quasi frustrato. «Che succede?»
Mise una mano all'interno della giacca e socchiusi le labbra nel vedere il mio cellulare. Era distrutto, ma la cosa che mi aveva scioccata era il fatto che fosse tra le sue mani. «Ethan e Mike mi hanno raccontato quello che è successo la scorsa notte.» Sentii i suoi occhi cercare i miei, ma io presi il cellulare gettandolo dietro di noi. «Isabel, cosa ci facevi li a quell'ora? Perché non mi hai chiamato prima di arrivare vicino a casa mia? Sai che non è una zona in cui girare da sola...»
«In realtà... non so come ci sono finita. Avevo bisogno di uscire, così l'ho fatto.» Spiegai. «Poi ho camminato per un po' e riconoscendo la strada di casa tua, ho iniziato a percorrerla.»
«Non farlo più, ok? Non da sola. Non sai quanto mi sono preoccupato quando avevano iniziato a raccontarmi l'accaduto.»
«Non ho nessuna intenzione di rifarlo, tranquillo... sono stata fortunata una volta e non voglio più rischiare.» Pressai le labbra e mi alzai seguita da lui. «Deve funzionare davvero...»
«Cosa?» Domandò confuso. Allora tirai fuori la collana mostrando il bottone che mi aveva lasciato. «Chi ti ha dato un bacio?» Domandò sorridendo.
«Una persona incredibile e coraggiosa. Pensa, è il primo dei bimbi sperduti...»
«Continua, credo sia un'amante dei complimenti.»
Risi rimettendo la collana dentro la maglietta e a quel punto, Jason tirò fuori dalla tasca il ditale. «Vedo che anche tu hai ricevuto un bacio.» Non pensavo sarebbe passato oggi stesso alla casetta, ma ero felice lo avesse trovato.
«Cosa posso dire? Mi adorano. Ma credo che questo arrivi da una bimba speciale, una a cui piace prendersi cura dei bimbi sperduti.» Jason si avvicinò rimettendo in tasca il ditale e sorrise. Il suo sguardo cadde e piegandosi, raccolse da terra un volantino tornando poi a guardarmi. «Cosa è successo qui?» Mi morsi il labbro e abbassandomi, raccolsi i volantini, gettandoli poi nel cestino. «Isabel?» L'espressione di Jason era visibilmente confusa. In pochi secondi eravamo riusciti a rovinare un momento tranquillo.
«Ricordi le lettere che volevo aprire con te?» Chiesi, e quando Jason annuì, andai avanti. «Mi hanno accettata.»
«Ma è fantastico!» Jason sorrise abbracciandomi e l'istante dopo mi guardò tenendo le mani sulle mie spalle. «Allora non capisco, dov'è il problema? Perché non sei felice?»
«Mio padre ha bruciato le lettere... ha detto che frequenterò la sua stessa università, è già deciso.»
«Cosa? Ma è assurdo. Non può decidere per te.» Dal suo sguardo si capiva che era arrabbiato. «Devi chiamare l'università che vuoi e farti fissare un colloquio. Questa è la tua vita, devi scegliere tu.»
«Possiamo evitare questo argomento? Ti chiedo già scusa, ma non mi sento di parlarne per ora.» Lo guardai ma sembrava pronto ad insistere da un momento all'altro. Così mantenni lo sguardo fisso al suo pregandolo e alla fine sospirò cedendo.
«Ad ogni modo, sai come la penso e spero davvero che tu faccia la cosa giusta.»
Annuii anche se poco convinta e tornai seduta. «Sai che... pensavo di non riuscire a guardarti più in faccia dopo l'ultima volta?»
«Perché?»
«Non lo so, è che non avevo mai raccontato a nessuno quelle cose perché mi fa sentire a disagio.» Spiegai.
Jason si sedette accanto a me e mi accarezzò la schiena. «Non hai mai pensato di denunciarlo?»
«Non servirebbe.» Sospirai e nella mia mente continuai a vedere l'immagine del Maple Leaf. Dovevo togliermi questo peso e dirlo a Jason, ma avevo troppa paura.
«A cosa pensi?» Domandò notando la mia assenza.
«Devo dirti una cosa...» lo guardai torturandomi le mani, dovevo farlo, Jason doveva sapere. Ma cosa sarebbe successo dopo? E se si fosse arrabbiato come nel sogno? Ora però avevo iniziato e dovevo finire in qualche modo... peccato che mi resi conto in quell'istante di non potercela proprio fare. «Dovrebbero tornare i miei tra poco e non possono rischiare di trovarti qui. Mi hanno proibito di vederti o chiamarti...» mi stavo odiando in quel momento, ma almeno non era una bugia, perché i miei sarebbero davvero tornati da un momento all'altro.
«Lo so. Ma me e andrò appena torneranno a casa e sarò silenzioso, tranquilla.»
«Vuoi davvero andartene mentre loro saranno qui?»
«Se esco ora, potrebbero vedermi mentre scavalco il balcone o mentre esco dal cancello.»
«Hai ragione.» In effetti aveva senso, era forse meno rischioso in questo modo.
«Come mai non ci sono addobbi? Domani è la vigilia di Natale.» Chiese tutto d'un tratto.
«Abbiamo smesso di addobbare anni fa. Mio padre dice che è inutile riempire la casa di "robaccia colorata" e che questa è una festa per bambini. Anche se mia madre, in realtà ha cercato di fargli cambiare idea, finché non si è stancata anche lei di provarci e si è arresa.»
«Che cosa stupida. Quindi non fai niente domani?»
«No, perché?»
«Jane chiude prima, organizza una cena al Maple Leaf. Di solito lo fa proprio a Natale, ma quest'anno non so perché, ha cambiato idea.» Spiegò perdendosi poi qualche istante a pensare. «Da un lato non la trovo una cattiva idea, almeno può passare il Natale a casa tranquilla.» Cercavo di non cedere, mi sentivo davvero uno schifo. Jane a quanto pare non aveva ancora fatto parola con nessuno sulla chiusura definitiva della tavola calda. «Comunque, tornando al nostro discorso... mi ha detto che se voglio posso invitarti e che a lei farebbe molto piacere averti con noi.»
«Sembra fantastico, ma sei sicuro che io possa venire? Magari non a tutti fa piacere avermi lì. Non vorrei rovinare la cena della vigilia a qualcuno.»
«Non scherzare, sarai la benvenuta.»
Sorrisi giocando con il polsino della felpa. «Allora grazie, ci sarò. Devo portare qualcosa?»
«No, tranquilla.»
«Sei sicuro? Cosa si farà esattamente e chi ci sarà?»
«Sarà praticamente come cenare in famiglia, faremo qualche gioco con i bambini, qualcuno si scambierà i regali...» iniziò a spiegare ma lo fermai subito.
«Aspetta, quanti bambini ci sono?»
«Kate, Allie e Michael, sono i nipoti di Jane. Le bambine dovrebbero avere sei anni ora, mentre Mike ne ha quattro.»
«Allora domani cercherò dei regali per loro. Spero di trovare qualcosa anche se all'ultimo...»
«Ma non devi, stai tranquilla.»
«Ma io voglio!» Dissi sorridendo. «Mi piacciono i bambini e poi è Natale, è giusto fare qualche regalo.»
«Come preferisci.» Sorrise e si coricò. «Con i tuoi invece? Che scusa userai per venire?»
I miei in realtà sarebbero partiti, ma scelsi di non dirglielo. Conoscendolo, avrebbe provato pena per me e invece di passare il Natale con chi voleva, se lo sarebbe rovinato con me. «Loro hanno già un'altra cena in realtà e durerà fino a tardi, potrei tornare la mattina di Natale che non se ne accorgerebbero.»
«Perfetto, buona a sapersi.» Entrambi ci tirammo su al rumore di un auto e uscendo sul balcone ascoltai attentamente realizzando che i miei erano appena tornati. «Credo di dover andare adesso.» Tirò su il cappuccio e mi guardò. «Sei davvero sicura di stare bene?» Domandò in tono serio tenendo gli occhi fissi sui miei, probabilmente per capire se stessi mentendo.
«Sì, va meglio... grazie per essere passato.»
«Di nulla, passo a prenderti domani alle otto.» Scavalcò il balcone e scese abilmente dall'albero. Io intento rientrai e dopo aver chiuso la finestra, tirai le tende. Il mattino seguente mi sarei dovuta alzare presto, avevo tante cose da fare e tante scuse da inventare.
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