7. (M) La linea sottile
Mentre apro la porta dell'appartamento, già so che troverò Theo che mi aspetta in cucina: sono le sette e mezza di mattina, sta per andare a lavoro e si starà godendo in silenzio la colazione.
E invece Theo non è in cucina. E a guardare bene non è nemmeno in salotto, né in camera o in bagno. Theo non c'è. E chissà perché, rimango leggermente deluso quando capisco che è mattina presto e il mio coinquilino non è a casa nostra.
Una veloce controllata alle mie piantine mi rassicura sul loro stato di idratazione e salute – manco da tre giorni, ma Theo se ne è occupato al meglio, da bravo zio acquisito.
Mi concedo una colazione corposa e ipercalorica, dopo le mattinate a base di latte e cereali che mi sono sorbito da Bella: lei è in dieta, e io non avevo la forza necessaria per scendere dal pakistano sotto casa a comprare qualcosa che non sapesse di plastica tritata dalle ganasce di un porcellino d'india con l'alitosi.
Mi blocco a metà strada, con una forchettata di frittata tra i denti e un bicchierone di caffè in mano: sul tavolo della cucina c'è un biglietto. La scrittura è quella di Theo: che aveva di così urgente da scrivermi il cazzone?
Sono uscito prima perché faccio colazione con la Gestapo (aka il coglione che mi supervisiona in questo anno di tortura a contratto).
Tuo padre mi ha chiamato ieri sera, è da giorni che non gli rispondi (perché?)
Dopo aver sentito il tuo babbo, chiama anche me. Sono due notti che dormi da Bella e io ho una piccola novità da raccontarti.
Buona colazione
Ps: piante tutto okay. Forse Noel (o è Liam? Non puoi scrivere "Oasis 1" e "Oasis 2" sul vaso, io non so chi dei due sia) ha bisogno di un po' di concime al guano perché mi pare non cresca, ma la tabella con le misure sai tu dov'è. Arrangiati.
Papà mi ha chiamato, ma io il cellulare non l'ho nemmeno guardato in questi giorni di "vacanza". Però è strano che mi abbia cercato, davvero strano. Che ci siano problemi a casa? Senza pensarci molto prendo il computer e accedo su Skype, vedo che è in linea – tipico dell'uomo che è diventato nell'ultimo decennio – e lo chiamo.
Quando mi risponde, mentre osservo il volto barbuto che per tanti anni è stato per me consolazione e punto di arrivo, non posso fare a meno di notare che papà è più vecchio di quando sono partito da casa – sono già passati quattro anni. Eppure non ha smesso di indossare il suo orecchino nero al lobo destro, e non ha smesso di mettersi addosso quelle camicie con i disegnini che ho sempre cercato di fargli levare. Papà invecchia, ma ormai non cambia più. È inutile sperare di trovarlo trasformato a ritroso, tornato com'era: papà è un altro, e va bene così.
«Matthew! Come stai? È da tre giorni che ti cerco e non rispondi!»
L'immagine non è ben definita, e saltella un po' di là e un po' di qua, mentre mio padre mi sorride. Ha gli occhi che brillano di gioia. Lo so che mi vuole bene. Lo so. Non ho mai smesso di crederci.
«Scusami, papà. Sono stato impegnato con la band per un provino... Ma tu che fai? Non sei a casa. Sei sul cellulare?»
«Sì! Sto andando a Londra per una convention della banca, dovrò rimanere in una sala riunioni per una giornata intera. Che sbattimento.»
«Eh, immagino. Ma... mamma l'hai sentita?»
Il volto di mio padre si stende in un breve sorriso. Un sorriso sincero ma triste, quello di chi ha fatto del male a qualcuno pur non volendo. «L'ho chiamata ieri. Tutto bene, a scuola ci sono stati un po' di problemi con un bulletto, ma nulla di drastico, ha convocato il preside e la classe è tornata tranquilla. Tua madre è una brava insegnante, Matt. Bravissima. Quando hai tempo chiamala: mi ha detto che le manchi.»
«Certo. Appena posso mi faccio sentire.»
In questo momento, non so perché, mi torna in mente quel pomeriggio in cui io e la nonna abbiamo frugato nel vecchio scatolone nella sua cantina. Ne è uscito di tutto: vestitini di quando mamma era piccola, carillon, quaderni di scuola, e poi tante fotografie e album colorati.
E quella cartolina, quella cartolina da Napoli, quella con a foto della Galleria Umberto I. Una cartolina che papà aveva mandato a mamma mentre faceva il militare. "Oggi ho visitato Napoli" diceva. E io me la vedo davanti anche adesso, la sua scrittura chiara e composta, da caserma. "È stupenda, ti toglie il fiato, come tutto in questo meraviglioso paese, come me lo hanno levato Venezia, Milano, Roma. Ti prometto che ci verremo assieme, in Italia. Ti prometto che ti porterò in questa terra assolata e calda come mai ne ho viste di simili. Sarebbe degna della tua bellezza. Ti amo, adesso, sempre, domani, anche di più. Con immenso amore, Robert."
Ricordo di aver pianto, quel pomeriggio di sole, con vent'anni sulle spalle e tanti dubbi ancora da chiarire su di me, sui miei genitori, sulla mia infanzia. Avevo pianto, con la nonna che stringeva al suo seno poderoso la mia testa rasata di giovane uomo, mentre capivo che forse mio padre l'aveva amata davvero, sua moglie, aveva amato davvero mia madre, prima di cambiare idea sul mondo. Non sono mai riuscito a comprendere sul serio il suo brusco mutamento, quell'improvvisa – ma forse tanto improvvisa non era stata – voglia di essere altro da quello che era prima. Non ho mai capito perché ci sia stato un punto di svolta, una curva a U, una linea che ha segnato il confine tra il mio papà di prima e quello di adesso. Non sono mai riuscito a darmi una spiegazione sul perché lui non se ne fosse accorto prima, prima di sposare mamma, prima di avere un figlio, prima di vedermi crescere e diventare uomo.
Ma quel pomeriggio... quel pomeriggio avevo lasciato perdere i dubbi per capire che un po' d'amore era esistito tra mamma e papà. Avevo avuto la certezza, così, all'improvviso, che io ero nato perché qualcosa sentivano, l'uno per l'altra. Avevo passato cinque anni a sentirmi uno sbaglio, e poi era bastata una lettera a farmi capire il contrario: io ero stato voluto, amato, richiesto. E se qualcosa che era cambiato – e lo era, di certo: papà era mutato drasticamente, nelle scelte di vita, nell'atteggiamento, nelle parole – era cambiato dopo di me, indipendentemente da me, non per me. Papà aveva amato mamma. Mamma non aveva mai smesso di amare papà. Io ero stato amato. Anche se breve, un pezzo della mia vita era stato ricolmo di amore.
«Matthew. Io ti ho chiamato per dirti una cosa.»
La voce di papà mi ricolloca qui, a casa mia, a Berlino, davanti a un pc, trascinandomi via a forza dalla cantina della casa di campagna dei nonni, via dalle cartoline sbiadite e dall'odore di ciò che è passato e si può solo ricordare, non rivivere. «Infatti. Che succede, pa?»
Un po' di imbarazzo gli tinge le gote, la telecamera si sposta di qualche centimetro, inquadrando il finestrino di un treno. «Verrò a Berlino, tra un mese.»
«Uh». Com'è che adesso non so dire altro? Papà viene a Berlino. Perché? Non lo ha mai fatto in tutti questi anni. Perché ora?
«È un viaggio di piacere.»
E io ho già capito tutto. So perché viene, quando verrà, cosa verrà a visitare, e soprattutto con chi verrà. «Sarò felice di vedervi, se vorrete.»
Papà tace, ma li vedo gli occhi che luccicano di lacrime, il sorriso di scuse e di orgoglio che gli riempie la faccia: scuse per essersene andato via da casa, orgoglio per un figlio che lo ha saputo perdonare nonostante tutto.
«Ora devo andare, papà. Salutami tutti. Ci sentiamo presto.»
Papà annuisce, lancia un bacio alla fotocamera e poi scompare nel nero della schermata.
Io rimango fermo per qualche minuto, ad affrontare la notizia che mio padre verrà a Berlino, accompagnato, per un viaggio di piacere, e che dovrò accogliere lui e la persona che verrà con lui come si fa con due verso cui si prova immenso affetto. E io papà lo amo, ma l'altra persona... che devo dire? Non lo so. La conosco veramente, questa persona? La risposta è no. E quindi non avrei nessun obbligo nei suoi confronti, giusto? Ma verso papà sì, e so quanto un mio sorriso e un mio abbraccio lo renderebbero felice. Perciò lo farò, per mio padre, per una persona che amo nonostante gli sbagli di cui ha lastricato il nostro rapporto.
Perché alla fine il papà è il papà: non si può cambiare, prenderne uno migliore al discount, fare a cambio con quello di qualcun altro. Papà è papà e papà resta: mi ha cresciuto con tutto l'amore che aveva dentro di sè, e gli devo la mia vita anche solo per questo.
Lascio vagare il pensiero della chiamata appena conclusa, lascio che si perda nei meandri del mio cervello fino a scomparire per un po', e quando è finalmente assorbito da un cassetto della mia memoria afferro il cellulare e chiamo Theo.
«Eccolo, il cazzone. Che fai, hai cambiato residenza? Ora vivi da Bella?»
Scuoto la testa, e già ho dimenticato papà e il peso sulle spalle che la sua chiamata ha imposto sopra di me, e rido delle parole di Theo. «No, cazzone. Avevo bisogno di un po' di compagnia.»
«E che, la mia compagnia non ti piace? Mi sto offendendo, ti avviso. Ma di brutto anche.»
«Dai, Theo, hai capito benissimo. Dimmi perché mi vuoi parlare.»
«Ah, ma quindi sei tornato a casa, hai visto il biglietto!» esclama il tedesco. «Che voleva tuo padre?»
Io sospiro, poi dico la verità. «Dirmi che viene a Berlino tra un mese.»
«Bene! Dai, che bello! Potrete passare un po' di tempo assieme, no? Sono-»
«Accompagnato.»
La voce di Theo si smorza e poi si spegne. «Ah» dice soltanto, e so bene che ha capito tutto, come me. Sa tutto della mia infanzia, di ciò che è successo, del motivo per cui papà se n'è andato da casa. «Beh, immagino che sia un passo avanti gigantesco, no?»
«Lo è.»
«E tu lo supererai benissimo, lo so. Stai tranquillo.»
«Lo sono. Che volevi da me?»
Theo tentenna, sembra non voler più parlare. «Ma no, niente, ne parliamo stasera con calma quando torno, ti va?»
Io capisco. Capisco, deglutisco, prendo fiato, lascio che nella cornetta vaghino i respiri a vuoto dei miei polmoni che stanno collassando e di quelli di Theo che cercano di reprimere l'ansia che ha dentro. «Hanno detto no.»
Il silenzio dall'altro capo della linea è inequivocabile: la risposta è stata no. La casa discografica ci ha scartati, non passiamo nemmeno alle seconde selezioni.
«Hanno chiamato ieri sera» riprende Theo, nel disperato tentativo di non farmi soccombere. «Tu non c'eri e ho preferito aspettare oggi a dirtelo.»
Hanno chiamato ieri sera, e io non c'ero. Non ero qui con i miei cazzoni, quando loro avevano bisogno di me e quando io avrei avuto bisogno di loro: avrei avuto bisogno di sapere la risposta, di sentirmeli accanto mentre Theo ci spiegava le cose, di sedermi con loro sul tappeto del salotto e sbattermi di spinelli fino a non percepire più il dolore che adesso mi taglia in due il costato. Li voglio qui, i miei cazzoni: ora, adesso. Mi devono aiutare, riparare, mettere lo scotch sullo sterno, il nastro isolante attorno al cuore, devono fermare il collasso dei polmoni, devono arrestare la mia perdita di coscienza, di speranza, di vita.
«Theo» riesco solo a sussurrare, «tornate a casa. Ho bisogno di voi.»
Poi mollo il telefono, rilascio il fiato, cado per terra, mi stendo sul pavimento freddo, la testa che cozza contro le mattonelle ma io non sento dolore: il dolore c'è solo dentro, tra budella e ossa, tra ventricoli ed esofago. Lascio andare tutto, pensieri, emozioni, speranze, idee. E poi arriva, arriva e mi travolge, l'urlo tanto agognato che il mio stomaco cercava di far uscire: è un urlo profondo, che viene da dentro di me e doveva per forza venirsene fuori, è un urlo straziante e disarticolato che però esprime tutto ciò che sento. E non è un urlo di gola, di corde vocali, di lamenti e grida. No. È l'urlo più doloroso e feroce che c'è, il più vero di tutti: sono lacrime, lacrime perse con gli occhi sbarrati, lacrime che corrono su pelle rovente e si consumano prima di cadere a terra.
Lacrime. Pianto. Urlo.
***
«Matt. Per favore, ora basta.»
Eh no, nemmeno la voce imponente e solida di Yuriy potrà togliermi da questo sgabello, da questo bancone, da questo bellissimo bicchiere basso e tondo con quei bei ghiaccetti dentro e quel liquido tutto dorato pieno di riflessi bianchi e scuri che mi fa pensare a spighe di grano e distese di campi che non ho mai visto se non nel Gladiatore. E mi viene da chiedermi cosa avrebbe fatto Massimo Decimo Meridio al mio posto: avrebbe lottato ancora o si sarebbe dato al vino? Perché per ora questa è l'unica via che riesco a vedere. Che poi, Massimo lo beveva il vino? Mica è strano chiederselo, eh, pure al tempo dei romani c'erano gli astemi, no? Ma sono sicuro che Massimo fosse un gran bevitore, ne sono certo: troppa foga nel parlare, troppa ferocia nel combattere, non viene da sé, necessita di una spinta, di un incentivo, di un aiuto. Dio, ma... che Massimo necessitasse aiuto pure per... d'altronde aveva fatto solo un figlio e poi non aveva così tante donne in giro per il mondo, giusto? Mi ricordo solo un amico africano cui teneva particolarmente, alto e simpatico... ma nooo, non è possibile, vuoi dirmi che... pure Massimo? Pure lui? No, dai, non ce lo vedo. Che i gusti son gusti e mi stan bene tutti, ma Massimo... nah, dai, non ci voglio credere! Ma minchia, quanto sono sbroccato che mi invento pure Decimo Meridio gay?
La mano di Yuriy piomba sul mio polso, mi strattona via dal bicchiere e mi sfila dallo sgabello. In men che non si dica sono già col culo per terra, del tutto incapace di rialzarmi. Mi guardo attorno, mi soffermo a osservare meglio un paio di gambe – caviglie sottili, scarpe rosso fuoco, chi c'è lì sopra? Aspetta che trovo la via giusta per risalire e ti trovo, bellezza – ma poi Yuriy mi prende di peso da sotto le ascelle e mi trascina via.
«Dvooooe stiamo annannnno Yuuu?» biascico, con la testa penzoloni e gli occhi puntati sul pavimento scuro del Besenkammer. Dove ho lasciato le gambe? Aspetta che spingo il mento più giù che magari le vedo... oh no no no no no no no così mi viene da vomitare Cristo santo no!
«Apri gli occhi, Matt. Lo vedi quello?»
Con enorme sforzo batto le palpebre. Cerco di tenerle aperte per qualche secondo. Non ci riesco. Ci riprovo e stavolta mi danno un po' più ascolto. «Mmh, water.»
«Bravo. Ora ti infili un dito in gola e vomiti. Così ti riesco a portare a casa quantomeno più dritto.»
Volto un po' la testa per guardarlo negli occhi: io non voglio vomitare. Odio vomitare, e sono certo che lui lo sappia. Preferisco tenermi tutto dentro finché non passa. Il vomito fa più schifo della sbornia. Scuoto il capo con insistenza, e nuove fitte di dolore mi dilaniano il cranio: okay, sono andato troppo in là. Ho oltrepassato la linea sottile tra disperazione e tracollo. Forse vomitare mi farebbe stare meglio... mayday,mayday no no così non va fermare la fuga di neuroni prima che sia troppo tardi, ripeto, fermare la fuga di neuroni!
«Su, non fare lo schizzinoso. Io esco e ti aspetto fuori, se tra dieci minuti non ce l'hai fatta ti aiuto io.»
Mentre la porta del bagno sbatte dietro di me ho un lampo di lucidità: non mi farò infilare le tozze ditaccia del batterista giù per la gola. Piuttosto faccio da solo, lo giuro. Piuttosto muoio, se no. Che mi pare una prospettiva migliore.
Uh, ma aspetta cos'è che devo fare? Pisciare? Forse sì, mi scappa. Aspetta che sbottono i jeans – ma dove cazzo è finito il cursore? Non lo riesco a trovare qui sotto. Eh, lo so che sono dotato, e parecchio, ma mica così tanto da nascondere il cursore della cerniera. No, signorine, mica così tanto. Eccolo! Trovato. Adesso se mi concentro unisco indice e pollice e lo tiro verso il basso e... ma che è sto dolore allo sterno? Oddio, un infarto! Adesso muoio per davvero! Signore, io scherzavo, non ci tengo a venire lassù così presto insomma ho tante cose da fare e da vedere e vorrei diventare un musicista serio e farci i soldi e lo so che a te i soldi non piacciono ma che ci devo fare la vita è pur sempre cara e a me servono per vivere e così mi ci posso –
Ed ecco che all'improvviso il dolore allo sterno diventa conato di vomito e mi ritrovo a rimettere tutto il tasso alcoolico ingerito nelle ultime tre ore nel giro di cinque miseri minuti.
Quando riesco a rialzare la testa dal water e a strisciare fuori dal bagno, mi trovo davanti la faccia pallida e martoriata di uno che ci ha dato dentro così tanto da farsi bucare il fegato. Ma che cazzo mi è saltato in mente, eh? Mi butto un po' d'acqua tra i capelli, me la strofino sui polsi e arranco fuori, alla ricerca di Yuriy e dei ragazzi: voglio tornare a casa. Subito. Mi sento ancora male.
Mentre sto girando l'angolo del corridoio per tornare alla sala principale, mi imbatto in una ragazza che sta venendo verso di me. Ce ne accorgiamo entrambi prima di finirci addosso, ci fermiamo a mezzo metro di distanza e scambiamo un sorriso – forse il mio è più un ghigno, tanto mi sento di merda e tanto la mia bocca sa di sterco di mucca.
Ma lei, lei ha un sorriso timido e nascosto, e prima che abbassi del tutto il viso e mi sorpassi riesco a scorgere un paio di occhi scuri e bellissimi. Di che colore erano? Sembravano quasi viola, ma non è possibile. Saranno state le luci di questo posto, o forse la balla che ancora devo smaltire.
Mi volto indietro, la seguo con lo sguardo mentre entra nel bagno delle donne e mi trovo a chiedermi come ci si senta ad andare in giro tra la gente portandosi addosso degli occhi così. Così colorati, pieni, vividi e spiazzante. Dev'essere difficile. Eppure è bellissimo. Lo giuro, è bellissimo, perché mi ha lasciato dentro colore, vita, euforia, soltanto incrociando il mio passo per un singolo sprazzo di serata, e mi ha rivoltato lo stomaco riportandolo dritto, mi ha messo dentro la voglia di camminare su una spiaggia e di guardare le stelle di notte dal cofano di un'auto e di correre a perdifiato tra le cime di abeti con i rami che si spezzano al mio passaggio e di salire sulla cima di una montagna per gridare a chi sta sotto che Matthew c'è, Matthew vive, Matthew colora il mondo con la musica.
E senza sapere il perché, senza capirci nulla, adesso mi danzano in testa parole che non conosco e cui non so dare un'origine, ma che insistono e premono e si fanno spazio annullando tutto il resto dei pensieri e dei ricordi. E mi trovo costretto a incespicare verso il bar, mi butto di traverso sul bancone finché non stringo tra i polpastrelli la penna di un cameriere, poi la dirigo verso il mio braccio e cerco di scrivere ma c'ha ancora il tappo e allora lo strappo coi canini e butto la bic contro la pelle e alla fine ci riesco. Ci riesco. L'ho scritta qui, l'ho fermata, trattenuta con me, non mi scappa più, ci rimane per sempre, lei e i suoi occhi e questo momento esatto in questo posto preciso. Il folgorante istante di uno sguardo che forse non vedrò mai più, ma che almeno una volta ho incrociato e saputo trattenere con me con inchiostro sulla pelle.
E adesso lo capisco, che non ho perso la voglia di raccontare gli istanti: sento già la musica dietro queste parole sconnesse, e le dita mi formicolano alla ricerca delle corde. Le nocche delle mani si tendono, i polpastrelli rabbrividiscono e si sfiorano a vicenda, quasi volessero suonare l'aria e farla vibrare con quello che ho visto e sentito e provato e voluto.
E quindi sì, cazzoni: sono ancora vivo. Ci vuole altro per uccidermi.
Che tu hai occhi viola
Perso nell'arcobaleno
Il colore di qualcosa che non so dire
Ma che illumina e allo stesso tempo oscura
Che ci fai con quello sguardo?
Chi fulmini e scopri?
Chi nascondi e offendi?
Dimmi come ci si sente
Ad avere la vita negli occhi
E tenersela stretta senza donarla agli altri
✼ ✽ ✼ ✽ ✼ ✽ ✼ ✽ ✼
Buondì!
No, non mi sono persa, non sono scomparsa, giuro!
Solo mi sono capitate tra capo e collo millemila cose, e mandarle avanti tutte è un vero esercizio di buona volontà. Ma ci sono eh, ci sono.
Matt pure, c'è ancora. Sempre il solito cazzone, ma c'è.
E niente, godetevi il capitolo, alla prossima!
Elly
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