6. (A) E se mi sentissi in colpa?
Quarto giorno di lezione. Sono ancora viva. Sono viva, un po' più tranquilla di com'ero lunedì, un po' più felice di come pensavo. Sono appena uscita dall'aula, con un libro in più di ieri e una confusione tremenda sui casi di questa strana lingua, ma tenterò di sedimentare un po' di nozioni nel pomeriggio.
Sto scoprendo con stupore che mi mancava studiare, conoscere, apprendere. E che mi mancava ancora di più tessere brevi e soddisfacenti relazioni tra colleghi: ho prestato una penna, chiesto un consiglio su dove comprare una copia usata del manuale principale del corso, scambiato due parole con la ragazza che si è seduta vicino a me - sentiva la necessità di lamentarsi sulla difficoltà di apprendere una lingua così diversa dal suo «hermoso español», come mi ha detto.
Mentre mi affretto lungo il corridoio, cercando di arrivare alla fermata della metro in tempo per la corsa delle undici e quaranta, mi trovo costretta a fermarmi a causa di un turbine di capelli biondi che mi si para davanti.
«Guten Morgen, meine Veilchen!» esclama Rebekka, lasciandomi un bacio blu acceso - il colore del suo rossetto stamattina - appena sopra lo zigomo. Ha preso l'abitudine di chiamarmi Veilchen, cioè viola, intesa come quel fiorellino tanto tenero e colorato che, ho scoperto, cresce nei prati e nei campi del sud del paese, e che viene coltivato anche in alcuni dei giardini di Berlino.
«Ciao, Rebekka» rispondo a mia volta, sorridendole.
Lei mi agguanta per un braccio e mi trascina verso l'uscita. «Adesso mi accompagni in biblioteca, poi ti offro il pranzo e poi vieni a casa mia che ti aiuto un po' con il tedesco. E magari tu mi dai qualche consiglio per economia internazionale, eh? Non ci capisco niente di finanza europea, ti prego!»
Non posso dirle di no. Non posso rifiutare l'aiuto di Rebekka, che è sempre gentilissima e sorridente, e da quattro giorni rappresenta la mia unica amicizia qui a Berlino: mi ha offerto la colazione ogni mattina e mi ha trascinata a pranzare con lei sempre in posti nuovi. È un concentrato di gioia e allegria, di figuracce sviate con una bella risata e di battute sparate a nastro davanti all'hamburger del bar vicino all'università. È esplosivamente felice, e io non riesco a dirle di no, a dirle che dovrei studiare e poi girare la città, per mettere un po' in pratica la lingua: non ci riesco, perché sono passati tre giorni ma ormai attingo la mia serenità anche da questo folletto alto e biondo che gioca a rimpiattino con il mondo, e riesce sempre a vincere.
«Ieri a lezione il prof ha parlato per due intere ore del funzionamento della BCE, e io non chi ho capito un acca. Lo so, che per noi che studiamo politiche europee il meccanismo di gestione dei fondi continentali è essenziale, ma mica lui può pretendere che capiamo a menadito l'economia, no? Io non ho alcuna base in questo campo. E tu mi devi aiutare, capito?»
Rebekka macina parole con una velocità che è certamente sconosciuta ad almeno tre quarti della popolazione mondiale, e per questo fatico non poco a mettere in fila le sue frasi e a separare i sintagmi per dare loro senso compiuto. Perciò ci metto sempre qualche secondo di troppo a risponderle, cosa che lei non considera: continua a trascinarmi per il corridoio, senza lasciarmi spazio di dialogo.
Così, mentre sto sospirando nel tentativo di starle dietro, chiudo per una frazione di secondo gli occhi, e dopo un'istante sento la sua mano scivolare via dal mio polso, accompagnata da un urlo poco elegante. «Ma guarda dove cammini, Arschloch! Sì, proprio uno stronzo sei!»
Quando riapro le palpebre mi trovo davanti l'espressione sconvolta di Rebekka, e osservando la scena - lei che si tiene al braccio di un uomo in giacca e cravatta - e i protagonisti, individuo subito il motivo di tanta sorpresa: la mia amica è finita dritta dritta a un palmo dal naso di Theobald Koch.
Il quale, galantemente, ha appena terminato di tirarla in piedi e le sta rivolgendo un sorriso carico di scuse. «Mi spiace, signorina» inizia, con un inglese fortemente accentato sulle consonanti. «Non stavo guardando davanti a me, mi perdoni.»
La sua voce è bassa, calda, piena, e ci vibra dentro una gioia strana, coinvolgente, che mi fa venire voglia di sorridere a mia volta. Koch pare notarmi e volta lentamente lo sguardo verso di me: mi scruta a fondo negli occhi, senza mai smettere di mantenere l'espressione pacifica che ha avuto finora. Mi sento un po' in soggezione, davanti a tanta attenzione nei miei confronti.
Koch stacca gli occhi da me, si china a raccogliere la sua ventiquattrore - probabilmente caduta nell'impatto - e si rivolge a Rebekka: «Posso accompagnarvi all'uscita, signore? Temo di aver causato abbastanza danni, per oggi, e comunque stavo anche io per andarmene.»
Rebekka sboccia in sorriso immenso, ancora più gigantesco di quelli che mi ha rivolto in questi giorni, e con studiata classe fa un piccolo cenno affermativo con la testa, mettendosi subito a fianco del professore che si appresta a farci strada.
Io rimango un attimo indietro, lasciando alla mia amica lo spazio che si è giustamente conquistata - a suon di inciampi, certo, ma vale comunque - e li seguo entrambi fino all'entrata. Lì Koch ci saluta con un piccolo sorriso, e si dirige verso un uomo che pare aspettarlo poco distante. I due si mollano pacche affettuose sulle spalle, dicono qualcosa, e poi il professore ammicca verso me e Rebekka con un cenno della mano. Il suo amico - o marito, amante, conoscente? Chi può dirlo? - ci guarda, scoppia a ridere e scuote la testa a destra e sinistra, scatenando una danza di capelli scuri attorno al suo volto.
«Quello è il bassista della band. Non mi ricordo come si chiama, ma dicono sia bravo» mi suggerisce prontamente Rebekka, senza smettere di stare impettita, con la schiena dritta e una vena di savoir-faire che le illumina gli occhi. Poi si mette a camminare in direzione dei due uomini, che hanno smesso di ridere e ora parlottano con tutta calma.
Io la fermo, stupita. «Rebekka, ma dove vai?»
«In biblioteca, stupidina! Dobbiamo passare davanti a loro per arrivarci. Stai tranquilla, non voglio farti fare brutte figure!»
Non troppo rasserenata, inizio a camminare con lei: quando siamo di fianco a Koch questo ci saluta con un nuovo «arrivederci, signore» che fa scoppiare un sorriso nel volto di Rebekka. Io osservo per un attimo il suo amico, e mi sembra di cogliere qualcosa di familiare, quasi mi pare di avere un momento di déjà-vu, che mi riporta con i ricordi all'estate che ho passato in Grecia con i miei unici veri amici di Istanbul: che io lo abbia già visto?
Mi lascio guidare da Rebekka verso la biblioteca, a pochi passi dall'edificio da cui siamo appena uscite, e cerco di non dare peso al senso di vuoto che mi ha sorpresa ricordando la vacanza in Grecia: sono state settimane meravigliose, che mi hanno donato una spensieratezza e una voglia di vivere che ho tentato di non perdere, una volta fatte le valigie e tornata tra le ligie parole borbottate da mio padre. Solo ora mi rendo conto di essere riuscita a farla sedimentare dentro di me, quella spinta verso la vita e verso il nuovo: l'ho ingurgitata in quei giorni, amalgamata poi in lunghi mesi di attesa prima del matrimonio, e fatta sbocciare con stupefacente velocità al momento di decidere cosa fare della mia vita dopo il secondo rifiuto. Ora quel desiderio si è un po' sopito, sovrastato dalla paura di non farcela, di sbagliare, di vivere in un paese che non conosco, di essere sola. Ma so che piano piano rispunterà, e allora saprò finalmente cosa fare, quali occasioni cogliere, quali crearmi da sola. Aspetterò il momento giusto. Me lo devo, lo devo a me stessa e al coraggio che ho dimostrato.
Quando entriamo in biblioteca riemergo dalle mie riflessioni, e con l'immediatezza di un fulmine nel cielo terso riesco a capire quale fosse il senso del déjà-vu che ho provato prima: l'amico di Koch sapeva di erba. Aveva addosso quell'odore pungente che ben conosco, che ho imparato ad apprezzare e riconoscere durante i miei mesi da scapestrata, e porta dietro di sé così tanti sottintesi che è difficile capire dove inizia il ricordo e dove invece c'è solo il presente. Il bassista sapeva di erba. Fuma erba. Come l'Alyna che stava scoprendo la libertà. Ed è un po' assurdo, tutto quello che mi passa per la testa ora, così strano che scoppio a ridere involontariamente, senza riuscire a frenarmi, con una forza che sorprende pure me, abituata come sono a cercare di non farmi notare.
Rebekka si volta subito con un ammonimento tra le labbra, ma quando mi vede aggrotta le sopracciglia e sussurra: «Che c'è?»
Io freno il mio scoppio di risa, mi avvicino a lei e mormoro: «L'amico di Koch, il bassista... odorava di erba.»
«Erba?» fa lei, dubbiosa. «Ma dici che si sia rotolato in un campo?»
Mi viene da ridere di nuovo, ma capisco che forse nella sua lingua il termine è diverso, e non rende bene in inglese. «Ma-rjiu-a-na» sillabo, certa che questa volta il significato sarà al sicuro.
Rebekka strabuzza gli occhi, le parte un attacco di tosse e mi trascina fuori dalla porta, prima che qualcuno decida una buona volta di sgridarci. Fuori, all'aria aperta, nel freddo di Berlino e sotto un cielo plumbeo come il cemento armato, Rebekka scoppia a ridere e io la seguo, incapace di frenarmi. Con le lacrime agli occhi e i crampi alla pancia per i troppi spasmi, mi sento finalmente a casa, almeno per un istante: se in una giornata nuvolosa e ghiacciata, in un paese che non conosco e in una città in cui vivo da poche settimane, riesco a ridere di gusto con una persona che considero amica, allora so di aver trovato la mia strada.
***
«Ti giuro che ho capito! Dai, smettila di fare la maestrina: ci sono arrivata, mi è chiaro. Adesso possiamo andare a berci una birra? Ti preeego meine Veilchen, una sola!»
Sto scoprendo che avere a che fare con Rebekka ogni tanto assomiglia a prendersi cura di una bimba di dieci anni: sa fare le smorfie giuste e usare il tono perfetto per farti capitolare - quantomeno perché smetta di urlare cose a vanvera.
«Va bene, andiamo!» cedo alla fine, chiudendo il dizionario di tedesco e dicendomi che devo finirla di essere tutta per bene, la buona bimba che faceva quello che le diceva papà: sono scappata da quel tipo di vita, no? È tempo di assaggiare questa tanto decantata birra tedesca e di darmi da fare per capire come si vive in questa città.
L'appartamentino di Rebekka è un monolocale al quarto piano di un palazzone un po' decrepito nel primo raggio periferico di Berlino, e ha l'aria di essere in tutto e per tutto un sobborgo urbano di una grande città: sono le sette di sera, è già buio da un po', ma sono tutti fuori a schiamazzare per le strade, nonostante il freddo pungente che sembra volere a ogni costo mangiarti la pelle. Però i berlinesi sono così, vivono sempre in questo clima rigido, ci hanno fatto l'abitudine, sono temprati e adatti a queste temperature; se non bastasse la genetica, di sicuro le pinte di birra aiutano ad alzare i gradi del sangue.
Rebekka mi trascina in un bar nello stesso isolato di casa sua, mi fa sedere in un tavolino all'interno - per fortuna ha capito che soffro un po' il freddo, altrimenti mi sarebbe toccato stare fuori come la maggior parte della clientela, che sembra apprezzare con gioia i tre gradi che il clima regala loro - e si allontana verso il bancone per ordinare da bere. Io rimango sola qualche istante, a guardarmi attorno per carpire un po' di informazioni su questa fauna di periferia, composta da giovani studenti pronti a festeggiare per qualsiasi cosa, uomini con pance prominenti intenti a scambiarsi informazioni sulla partita alla tv e gruppi di donne ben vestite che sorridono e ammiccano di fronte a pinte di birra più grandi delle loro borsette.
«Ecco qui! Due Weißbier per cominciare: oltre al malto, qui c'è frumento fermentato. Tipico di queste zone. Secondo me è la migliore» decanta Rebekka, ponendomi di fronte il mio boccale. La birra mi è sempre piaciuta, ma andavo a bottiglia, senza tanto badare a nome, fermentazione, colore... qui invece - e l'ho capito fin da subito - se ne intendono tutti, e il tipo di birra che bevi fa di te l'uomo o la donna che sei. O almeno, da un'idea del tipo di persona che ci si trova davanti: forte bevitore, incallito tedesco, amante del malto, amante del frumento, chiara o scura, forte o leggera, acida o dolce. È una filosofia di vita, praticamente.
Dopo aver trangugiato metà del boccale, mi sento quasi sbronza: era da parecchio che non bevevo sul serio, e ho tutta l'impressione che questa Weißbier vada inserita nella categoria dei "forti bevitori".
«Dov'è che abiti, quindi?» mi chiede Rebekka, azzardandosi per la prima volta in tanti giorni a farmi una vera e propria domanda personale.
«Charlottenburg» rispondo io. Nonostante i gradi alcoolici della birra mi diano un po' alla testa, so che non voglio spingermi più in là, dire troppo di me: non porterebbe a niente di buono.
«Mmh, è un quartiere ricco!» esclama Rebekka, passandosi la mano sulle labbra per togliere la schiuma che ci si è attaccata.
Io scuoto la testa, affondo il viso nel bicchiere, poi riemergo. «No, cioè sì, ma io ho praticamente una stanzetta in affitto. Pochi soldi, pochi mobili, il necessario» mormoro, sperando che mi creda. Non le posso dire certo che vivo in un albergo a cinque stelle, in attesa di decidere cosa fare della mia esistenza solitaria.
Rebekka sorride e annuisce, poi sbatte il bicchiere contro il mio. «La vita da universitari è dura, ma ce n'è di peggio, no? Almeno possiamo studiare e sperare in qualcosa di buono.»
«Sì, è vero. Tu... come mai hai scelto Legislazione Europea?»
Un sorso di birra, un sorriso, lo sguardo un po' più serio del solito. Rebekka sembra ponderare le parole, prima di iniziare a raccontarmi. «La mia famiglia viene da Laatzen, un paese nella regione di Hannover. Non è una città grande, ma ci vive comunque molta gente, ed è un posto tranquillo in cui nascere e crescere. Mia madre fa la sarta, mio padre lavora in ospedale, è un... un Arzt, un medico. Sono due persone stupende, voglio loro un gran bene, li vedo almeno una volta al mese, quando io torno a Laatzen o loro vengono a trovarmi qui.
Però... sai, dopo le scuole, al momento di scegliere cosa fare, io avevo deciso di andarmene dalla Germania. Volevo studiare in Inghilterra, imparare per bene la lingua. Di studiare legge già si era parlato, e i miei erano d'accordo con la mia scelta, perciò ho fatto richiesta al King's College, sono stata accettata e ho anche ricevuto una borsa di studio per l'alloggio. Insomma, ero già con un piede oltre la Manica. Però...»
Rebekka si ferma, mi guarda quasi a scusarsi, beve un altro sorso di birra e tira un sospiro lungo, pesante. «Però mamma si è ammalata. Niente di irreparabile, un melanoma sul braccio, tolto subito, sistemati i linfonodi, è stata bene nel giro di qualche mese. Ma io avevo già preso la mia scelta: sono rimasta in Germania. Ho fatto richiesta in extremis qui a Berlino e così mi sono accertata di essere vicina a casa, vicina ai miei. Non ho fratelli, non ho sorelle, e sapere di lasciarli qui da soli, quando ormai hanno superato da un pezzo i sessant'anni... non potevo farcela, ecco. E adesso forse mi dirai che sono pazza, ma io ho deciso così.»
Sono rimasta senza parole, con un grande peso sul petto e un vago sentore di senso di colpa che mi sta risalendo dallo stomaco fino alla gola: io i miei li ho lasciati in Turchia. Da soli. Sono la loro unica figlia, e li ho lasciati soli. Rebekka non ha pensato nemmeno un secondo e ha rinunciato a un'università prestigiosa per non abbandonare i suoi genitori, mentre io al contrario non ho pensato nemmeno un secondo e ho preso il primo aereo per fuggire via da loro. Che razza di persona sono? Che figlia tremenda sono stata, in tutti questi anni, per arrivare a non sentire dolore quando sono scappata via?
«Meine Veilchen? Alyna, che succede?» mi chiede Rebekka, gli occhi stretti e la bocca che già so è piena di domande a cui non darò risposta.
«Niente. Tutto okay. Sei una brava figlia. Ti invidio.»
Lei deve aver capito che ci sono cose che le sto nascondendo, ma non fa altre domande: si limita ad annuire a svuotare il bicchiere. È una Rebekka un po' strana, quella che emerge da questa bevuta: più tranquilla, meno esuberante, più riflessiva anche. Sembra avere la testa più sulle spalle, una visione più chiara delle cose, e mi viene quasi voglia di dirle la verità, di raccontarle tutta la mia vita, di parlare con lei di ciò in cui credo e di ciò che vorrei dal futuro.
Ma il tempo non c'è, perché la birra è finita, ho gli occhi che bruciano per la stanchezza, sono passate ormai due ore da quando siamo sedute qui e il mio stomaco vuoto borbotta nervoso. Rebekka sembra stanca quanto me, tanto che propone di andarcene e si avvia a pagare, rifiutando i miei soldi.
Una volta fuori, ci incamminiamo verso casa sua, ma sopra di noi il cielo brontola e in pochi istanti viene giù un vero e proprio acquazzone.
«Ma cos... corri, meine Veilchen, corri!» esclama Rebekka, ridendo.
Io scoppio a ridere assieme a lei, mentre corro senza nemmeno vedere dove sto andando, il cappotto che inizia già a inzupparsi e i capelli ghiacciati, rivestiti di quest'acqua piovana che raggiungerà si e no i cinque gradi, appiccicati contro il volto e sferzati dal vento che continua, imperterrito, a congelare queste vie.
Davanti al portoncino del palazzo Rebekka cerca le chiavi nella borsa, sbuffa, strepita, mentre l'acqua le si infila tra le ciglia e cade rotolando nella sua pochette nera. Alla fine trova il mazzo di chiavi, infila quella giusta nella toppa e in pochi istanti siamo finalmente all'asciutto.
«Ci siamo fatte il bagno, insomma!» esclama Rebekka, trascinandomi su per le scale e portandomi davanti alla porta del suo appartamento. «Vieni, ti do qualcosa di asciutto così torni a casa senza prenderti la polmonite.»
Io accetto di buon grado, la seguo in camera e aspetto che prepari qualche indumento sul letto; poi afferro la pila di cose e docilmente vado in bagno per cambiarmi.
Quando esco, con il maglione di Rebekka lungo quasi fino a metà coscia e i jeans rigirati quattro o cinque volte sul fondo, la mia nuova amica scoppia a ridere. «Meine Veilchen, sei proprio piccolina, sai?»
Io sorrido, perché so che sono davvero tanto più bassa di lei, che mi supera di venti centimetri buoni. È bello, aver trovato un'amica così. Gentile, spensierata, allegra e piena di voglia di aiutare. «Rebekka, io adesso andrei a casa, che si è fatto tardi...»
Lei annuisce, mi porge il mio zaino e un suo cappotto. «Le tue cose le porto in lavanderia domani, appena sono pronte te le restituisco.»
«No, scherzi? Dalle a me, ci penso io» ribatto, decisa a non lasciarmi valicare ancora una volta.
Rebekka scuote la testa. «Non se ne parla nemmeno!»
«Rebekka, per favore!»
«E smettila di chiamarmi Rebekka! Accorcia, dimmi Becky, almeno!»
Afferro la maniglia della porta con la mano, mentre frugo nello zaino per cercare una cosa. Una volta trovati, lascio cadere sul palmo di Rebekka un po' di euro per pagare la lavanderia, e poi, prima che lei me li tiri addosso, mi affretto giù dalle scale. «Grazie, Becky! A domani!»
«A domani, meine piccola dispettosa Veilchen!»
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