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4. (M) Routine quotidiana

La faccia di Luciano, stamattina, è tutta un programma: occhi arrossati, occhiaie fino agli zigomi, guance gonfie.

«Lucs, che ti è capitato stanotte?» chiede Theo, spostandosi verso di me per lasciargli spazio sul divano.

Luciano si lascia cadere tra i cuscini, sbuffa, chiude gli occhi e stende le gambe in avanti. «Ho studiato fino alle tre per l'esame che dovevo dare. Mi sono svegliato alle quattro per andare al lavoro. Ho finito di consegnare i pacchi in ritardo perché il mio collega ha il raffreddore ed è lento come un bradipo. Sono tornato a casa alle sette, mi sono fatto una doccia e sono corso in conservatorio. Sono entrato per la prova di solfeggio alle nove, sono uscito alle dieci. Non dormivo da giorni, Cristo. Ho fatto un marasma di cose, quindi.»

«E com'è andata, la prova?» chiedo io, avvicinandomi per allungargli una cartina.

«Bene. Pieno risultato. Ma è stata dura, ragazzi. É così dura che mi viene voglia di piangere, ogni tanto.»

«Su, smettila di rovinarti la vita così!» esclama Theo, restio nel vedere l'amico sempre felice preso da un momento di sconforto. Nel mentre prende la cartina, ci infila dentro la mia meravigliosa polvere verde, lecca il bordo, arrotola con maestria e ci avvicina la fiamma del suo accendino giallo. «Tieni qui, vedi come stai meglio, dopo.»

Luciano afferra lo spinello con la destra, se lo infila tra le labbra e inspira forte. Poi getta la testa indietro, chiude gli occhi e sospira. «La vita è una merda, ragazzi.»

«Lo sappiamo» gli rispondo, con tutta la serietà di cui sono capace oggi - oggi che mi sono svegliato alle undici perché ho lavorato al bar fino alle cinque del mattino, oggi che sono ridotto alla stregua di un calzino sporco e rivoltato. «Lo sappiamo, ma c'è un motivo per cui continuiamo a faticare, no? Ci meritiamo qualcosa, e vale la pena di farsi il culo per arrivarci.»

«Sante parole, fratello» borbotta Theo, che si è acceso lo spinello numero due della mattinata e mi sta invitando a fargli compagnia, con le mani tese in avanti a porgermi cartina e fiori.

«No, grazie. Io oggi passo, stanotte ho lavorato come un deficiente e ho già mal di testa di mio.»

«Suvvia, non sei tu quello che dice sempre che è meglio dell'ibuprofene?» mormora Luciano, gli occhi ancora chiusi, quasi addormentato.

«Lascialo perdere, Lucs, lascialo perdere» sussurra Theo.

Mi prendo un momento per guardarmeli, questi due cazzoni, stesi sul divano a fumarsi uno spinello a mezzogiorno inoltrato. Uno appena uscito da un esame superato senza dormire, uno che sta per iniziare una settimana di fuoco in conferenza ventiquattro su ventiquattro con il docente titolare di cattedra che sta seguendo in questi mesi. E poi guardo me: guardo le mie mani con i calli sotto i polpastrelli, il dorso della sinistra con il taglio che ci ho lasciato ieri sera facendo cadere un bicchiere, la t-shirt bianca ancora macchiata dal Bloody Mary che il mio nuovo collega del bar, Aaron, mi ha versato addosso inciampando sui suoi stessi piedi. Ci sbattiamo come scemi, per questa cazzo di vita di merda. Tutto il mondo si sbatte per questo sacco di melma in cui ci è data l'opportunità di trascorrere qualche decina d'anni. C'è chi campa meglio, chi campa peggio, però alla fine sempre nella merda stai. Ma ne varrà la pena, per noi almeno. Me lo sento che ne varrà la pena. La vita ci deve una ricompensa.

Theo e Luciano si sono definitivamente lasciati andare al sonno: li abbandono qui, tranquilli, a riposare, mentre io me ne vado in camera. Ho bisogno di risollevarmi un po' il morale, altrimenti non ci arrivo vivo a domani mattina. Sfilo le cuffie Bose, che mi sono costate un dannato stipendio, dalla loro custodia e me le appoggio sulle orecchie. Lo stereo è già acceso - qui non dorme mai, la musica - e il bluetooth è già collegato a questi lussuosissimi affari che riverberano ogni nota con precisione dannatamente erotica. Premo play, e poi mi lascio invadere: ogni nota, ogni suono, ogni parola mi entra dentro, mi riempie, mi scorre nel sangue e mi fa vibrare, in ogni cellula, in ogni anfratto. Cristo, vorrei potermi sentire sempre così, praticamente fatto. La canzone la riconosco all'istante: mi bastano otto note, sempre, e già vi posso sparare titolo e band. Sempre. Sono infallibile. Ormai nella mia vita ho ascoltato tutto l'ascoltabile: non c'è niente che mi sia sfuggito. Ah, ovviamente sto parlando di rock, indie, funk, metal, techno tuttalpiù. Il resto è una merdata, perdonatemi.

Gettin' a message?
A message for me
I'm caught up in love, and I'm in ecstasy
What can I do now, when nothing's the same?
And all that I know, I wanna do it again

I Kasabian sono il mio ultimo grande amore in campo musicale, e questa canzone è una figata stratosferica. "Bumblebee". Chi cazzo avrebbe chiamato un pezzo con il nome del bombo? Chi, eh? Solo loro. E sono inglesi, tra l'altro, il che per me li rende ancora migliori: tutto sommato, il sangue non mente, e io sono inglese fino al midollo.

La canzone è già finita, ma so che almeno altre trecento mi aspettano in loop dentro la memoria dell'USB appiccicata allo stereo. Il problema è che dovrei quantomeno ficcarmi qualcosa nello stomaco, e magari farmi una doccia, cambiarmi questi vestiti che puzzano di qualsiasi cosa, prendere la metro e finire dietro il bancone del Liberate Berlin, il pub in cui lavoro.

Mi stacco malvolentieri dalla mia fonte di vita, mi butto sotto il getto della doccia e mi do una sciacquata, sperando di lavare via anche il sonno e l'ansia: ho questo nodo allo stomaco dall'audizione, e non vuole saperne di sciogliersi. Non so se è un presentimento buono o cattivo, quello che mi sconquassa le budella, ma ormai sta diventando insopportabile e spero ogni giorno di ricevere la risposta della casa discografica: presi o meno, non mi importa più, voglio soltanto tornare a stare senza sto laccio nello stomaco. Che di lacci, nella vita, ne ho spezzati già abbastanza. Quello di un'infanzia sgangherata, di una famiglia uscita fuori male, di una laurea inutilizzata e di un'esistenza in un paese nuovo dove mi tocca sgobbare per tirare a casa pochi soldi. Ho superato tutto questo: che volete che sia l'ennesimo rifiuto? Poca roba, nel computo totale. Poca roba.

***

«Allora, Matt? Posso tornare a casa con te stasera?»

Prima di rispondere ad Annabella le lancio un'occhiata di sbieco, e non riesco a evitare che il mio sguardo cada – ve lo giuro, è impossibile sfuggirci – sulla scollatura della sua canotta, che dimostra in breve il motivo per cui ho cominciato ad andarci a letto parecchio tempo fa: è così rotonda da mozzare il fiato. Caccio giù un groppo di saliva, finisco di spillare la Paulaner per il solitario cliente seduto di fronte a me sul bancone, gli avvicino la pinta e ritiro i soldi che ha lasciato. Vado alla cassa per prendere il resto, e immancabilmente Bella mi segue: posso percepire – ma proprio fisicamente, eh – il suo sguardo adagiarsi sul mio fondoschiena, e davvero mi costa un enorme sforzo non girarmi per coglierla sul fatto.

«Bella, stasera no. Tra un'ora devo essere al SO36, e sicuramente quando chiuderemo qui stramazzerò sul letto e mi sveglierò a mezzogiorno di domani.»

«SO36? Mai sentito, dov'è?»

Lascio ciondolare la testa per un istante, sconfitto come sempre dalla tremenda ignoranza di Annabella in campo musicale. «Ci suonavano Bowie e Iggy Pop, Bella. È un vero e proprio tempio

«Per gente come te, Matt. Non per me. Per me i templi sono sempre circondati da lenzuola.»

La tenera mano di Bella accompagna queste parole sfiorandomi la nuca, poco sotto i capelli, e sulla pelle mi si propagano piccoli brividi invitanti. No, Matt. No. Quando mi volto lei mi guarda negli occhi, e il nero intenso del suo sguardo mi trafigge e sta quasi per farmi capitolare.

«Matt» sussurra, stendendo bene in avanti le labbra carnose, «ho bisogno di te. È da troppo tempo che non stiamo assieme, mi manchi. Stasera, ho bisogno di te stasera.» Mi lascio sfuggire un sorriso, e lei comprende che ha quasi la vittoria in pugno. Rincara la dose, alzando e abbassando il petto con sospiri profondi, la bocca un po' aperta e gli occhi socchiusi. «Ti prego, Matt. Ti prego» mormora.

Io ho smesso di ragionare un po' di minuti fa, lasciando il timone della mia lingua a quel punto del mio corpo che fa sempre di testa sua. «Okay. Chiudo alle tre. Vengo da te?»

Il sorriso trionfante sulle labbra di Bella preannuncia una nottata di quelle che ti allietano la settimana, e anche se so bene che sarò stanco morto non posso evitare di pensare che non mi costerà molto sforzo, raggiungerla a casa sua. Raggiungerla, baciarla, farle scivolare via il vestito – sempre se lo avrà ancora addosso, quando mi aprirà la porta – sfiorare la sua pelle e sentire il suo respiro addosso fino al mattino, prima di svegliarmi con lei a fianco, tra lenzuola sfatte e il sole che filtra dalla finestra...

«Perfetto. Io stacco alle due e poi ti aspetto.»

Bella mi scivola accanto, strofinando distrattamente le natiche contro la mia anca mentre si avvia verso i clienti che sono appena entrati, e io sogghigno tra me, pensando a quanto sia facile cadere tra le sue fauci: è scaltra, furba come una volpe, bellissima... e oltretutto eccezionale a letto. Lo hanno capito anche i ragazzi al bancone, che si stanno prodigando in sorrisi storti e bicipiti messi in mostra nel tentativo di acciuffarla.

Mi spiace, boys, questa è ancora mia – più o meno.

In un istante la raggiungo, le sorrido e la aiuto a preparare le birre, allungandole qualche dolce colpetto sulla schiena per farle capire che io sono qui, e che non mi deve far diventare geloso. Perché sì, sono geloso, gelosissimo, di questa bellissima donna che lavora al mio fianco e che è ormai custode di tanti miei piccoli segreti: Bella è tenera, giocosa, piena di vita ma anche tremendamente matura per la sua età. E questo mi piace tantissimo. La adoro. La adoro davvero tanto. E per questo vorrei che stesse con me e solo con me, per questo me la stringo addosso quando posso e me la trascino nello sgabuzzino tra un turno e l'altro; per questo la accompagno a fare i prelievi del sangue, quando deve monitorare l'anemia, e la scorrazzo in giro per la città facendole compagnia in metro; per questo se ho bisogno di qualcuno chiamo lei, e se ha bisogno di qualcuno lei chiama me; per questo amo il profumo che sanno le sue mani quando mi accarezza il viso, per questo amo stendermi sopra di lei e strofinare il naso contro il suo, mentre lei si lamenta e scalcia cercando di colpirmi in mezzo alle gambe. Bella è una delle poche cose bellissime che mi siano successe.

Ora, mentre allunga una pinta al ragazzotto più carino del gruppo, la ragazza dal caschetto di capelli scuri avvicina il viso al mio e mi sussurra nell'orecchio: «Non mi avranno, lo sai. Aspetto te, sempre

Poche parole, ma quelle che bastano per ringalluzzirmi un po': avrò pure ventisette anni e questi bimbetti solo diciotto, ma sono ancora in grado di darmi da fare e di piacere sul serio anche a donne giovani come Bella, che di anni ne ha venti ma è come se ne avesse quanti me. È un vulcano, e ci vuole coraggio a tenerle testa. Coraggio che io, modestamente, ho sempre avuto. Però Bella è più di una semplice battaglia tra corpi, per me: ormai è una confidente, un'amica, qualcuno su cui so di poter sempre contare. Mi conosce meglio di tante altre persone, e sa farmi stare bene, anche con i suoi difetti – tipo l'ignoranza musicale, cui non potrò mai passare sopra.

Il piccolo interludio giocoso tra me e Bella viene interrotto dall'arrivo di Aaron, il nostro nuovo collega, che lavora qui da due settimane e ancora fatica a trovare la porta d'entrata: è un macello, quel tipo. Ma sono serio. Un macello.

«Cribbio, sono di nuovo in ritardo» sbuffa il biondone, appoggiando l'immancabile Eastpak sotto il bancone e stringendosi i lacci del grembiule attorno alla vita.

«E sì che vivi qui da venticinque anni, Aaron. Dovresti aver imparato almeno le fermate della metro» dice Bella.

Aaron le lancia un'occhiata divertita, poi scoppia a ridere. «Dai Annetta, non rompere. Tu quando molli, inglese?»

Questo qui c'ha il vizio di chiamarmi così: non so che gli abbiano fatto gli inglesi, ma pare che detesti anche solo sentir nominare il mio paese. Peccato per lui, eh, perché io sono fiero britannico e non mi faccio metter sotto da un crucco del cavolo. «Mollo quando arriva Yuriy. Penso entro le dieci.»

«Okay. Vado a prendere le ordinazioni alle signorine, a dopo» mormora, allontanandosi verso un tavolo con gli occhi che brillano.

«Povere. Ora se lo mangiano con lo sguardo, poi si accorgeranno che è tonto, alla fine se ne andranno con mezza birra rovesciata sulle loro bellissime minigonne. Povere care, stanno per infilarsi nelle fauci del lupo sbagliato.»

Sorrido a Bella, poi le lascio un bacio sulla nuca. «Fortuna che tu hai capito che tipo è.»

«Fortuna che io ho capito che un tipo alla volta basta e avanza, tipo

«Non fa una piega, tesoro. Non fa una piega.»

Nemmeno il tempo di spillare le birre per le ragazze, e Yuriy è già entrato dalla porta. Si avvicina, scrocchia il collo, mi fa un segno con la mano –pollice e indice sollevati, uno sopra l'altro, distanti circa tre centimetri –e io già sono pronto con il suo shottino di Vodka. Mentre lui lo manda giù io mi levo il grembiule, lascio una carezza sulla mano di Bella e poi seguo il mio batterista fuori in strada, con il cuore che batte un po' più veloce e le dita che fremono per la voglia che ho di suonare.

Yuriy mi passa il casco, io me lo stringo bene attorno al mento e poi lo seguo sulla Yamaha. Il gigante russo mette in moto e in pochi istanti l'aria mi sta già schioccando attorno, gelida e tagliente come sa essere qui a Berlino, frenata in parte dalla poderosa schiena di Yuriy che la frange prima che arrivi a me. Con le mani strette al sedile e lo sguardo che vaga in giro, lascio che l'ansia da prestazione mi divori lo stomaco, che scenda lungo l'intestino e che mi strizzi ogni organo vitale fino a farmi desiderare di soccombere. Fa un male atroce, l'ansia, ma me la gusto perché so che arriva prima dei momenti importanti, prima delle occasioni vere, prima degli istanti che poi ricordi per sempre. La conosco benissimo, oramai, quest'ansia, e siamo diventati praticamente amici per la pelle. Quantomeno, lei mi aiuta a tenermi vivo.

Quando scendo dalla moto percepisco le ginocchia farsi molli, ma il volto serio di Yuriy mi impone di non mostrarmi debole.
«Non sarà più grave del pugno che ti sei preso quella volta che hai voluto a tutti i costi sfidarmi in palestra.»

«Non pensavo sarebbe stato così difficile combattere con un mancino» sbuffo, spostandomi il ciuffo di capelli che mi è sceso davanti al naso.

«In realtà non sapevi nemmeno boxare, al tempo. Eri un pivello.»

«Ora vado meglio, no?» ribatto piccato. Yuriy non mi riconosce mai un merito, mai.

«Sì, ma dovresti allenarti di più. E poi ai ragazzi piaci. Ti vorrebbero lì più spesso. C'hai una faccia simpatica, Matt. È facile volerti bene.»

I piedi mi si fermano immediatamente. Rimango con le suole dei Timberland incollate al cemento del marciapiede, a dieci metri dall'entrata del locale, con lo sguardo sulla coda di gente che aspetta di entrare e nelle orecchie le parole di Yuriy. Parole che non mi ha mai rivolto prima d'ora. Mi volto, piano, verso di lui, e lo trovo a sorridere. Cazzo, non sorride mai. «Che hai detto, russo

«Ho detto che ti si vuole sempre bene. Sei un cazzone buono e simpatico, Matt» dice semplicemente lui, continuando a sorridermi.

Scuoto testa, sbatto le ciglia: è davvero successo, pare. «E come mai me lo dici ora?»

«Bah. Jacob e Peter mi hanno chiesto perché è da un po' che non ti fai vedere in palestra, e mi hanno detto che gli sei simpatico e che ti vorrebbero con loro più spesso. A loro piace come li alleni e come li tratti, sanno che sei un tipo tosto e vedono che te la sai cavare in ogni caso. E tutti gli altri ragazzi poi sono stati d'accordo con quei due. Ci ho pensato su, venendoti a prendere al bar, e ho capito che davvero ti fai volere bene da tutti. E te lo volevo dire.»

Io sono spiazzato. Senza parole. Afono. E non è che capiti spesso. Ma sapere che sono giudicato buono, per me, significa un sacco di cose: prima tra tutte, che sono riuscito a farmi accettare, quando la mia più grande paura era quella di non riuscire a legare con nessuno in questo nuovo paese. E poi, ancora più importante, significa che anche se hai avuto un'infanzia bislacca e piena di vuoti non è realmente ciò che hai passato, a plasmarti: non sono famiglia, scuola, educazione, amici. Quelli aiutano. Ma alla fine sei tu a decidere per te, a decidere chi sei, chi vuoi essere e chi vuoi diventare. E a quanto pare ho fatto le scelte giuste. Perché i cazzoni che ora mi stanno abbracciando prima di salire sul palco sono la famiglia migliore che potessi desiderare, e mi amano quanto io amo loro. E questo è bello. È buono. È umano. È vero. E fa tanto bene all'anima.

Come fanno bene all'anima le due ore scarse di musica che spariamo nelle casse di questo tempio che è il SO36; e le note rimbombano nei cuori e nei lombi di quelli che ci ascoltano - e sono immensamente tanti - stasera, sotto a questo palco. Ascoltano le canzoni, in pochi le cantano con Theo, qualcuno invece mima i gesti della chitarra o batte i pugni sulle cosce per seguire Yuriy: inseguono il ritmo, lo sentono dentro, lo vivono con noi. E poi alla fine chiedono qualche cover, e noi siamo felici di poterli accontentare tornando indietro negli anni, a quando suonavamo solo quelle, per le strade, nella metro, in locali minuscoli che sapevano di muffa e vomito. Ora sta andando meglio, è vero. Davvero meglio. Ma manca quel passo, quell'ultima botta di fortuna, che potrebbe finalmente lanciarci da qualche parte, farci scrivere un disco, racimolare un po' di pubblico in più. E ormai lo so, che manca poco così alla telefonata del provino: manca poco così, e spero comunque che andrà in porto, una buona volta.

Quando usciamo dal locale, traballanti e sudati, noi quattro siamo felici come sempre, e non servono tante parole per dirci che siamo andati bene e per constatare che la gente era contenta: ormai ci parliamo a sguardi, a pelle, a sentimenti.

Yuriy mi riporta al locale, aiuto a sistemare gli ultimi clienti, vedo andar via Bella – e pregusto la nottata –, faccio chiusura con Aaron, puliamo e poi prendo il bus notturno e raggiungo la mia moretta che mi sta aspettando nel suo appartamento. Salgo gli scalini due a due, veloce, ansimante, stanco, ma con l'energia di Charlotte che ancora mi scorre nelle mani e la voglia immensa di trasmetterla a un altro corpo, quest'energia, per sentirlo vibrare assieme a me.

Bella mi accoglie in mutande e basta, come immaginavo. Mi trascina in camera e in due secondi sono già spogliato di tutto, e vibro ancora più forte, pronto, eccitato, felice.

«Sei sempre smanioso, dopo un live» mormora Bella, strappandomi baci veloci e bagnati dalle labbra che sanno ancora della birra che mi sono scolato con Aaron mentre pulivamo gli ultimi tavoli.

«È la musica, Bella. È lei che mi suona e che mi fa vivere» le spiego, accarezzandole le anche che sporgono, tenere, e tirandola verso di me.

Il suo bacino sbatte contro il mio, lei ridacchia, mi infila le dita tra i capelli sudati. «Non lo capisco, questo tuo legame con la musica. E mi dispiace non poterlo fare.»

Anche a me dispiace. Immensamente. Ma non lo dico, perché so che farebbe male a entrambi, ammettere che è questo che ci impedisce di arrivare fino in fondo nel nostro rapporto: la musica è la mia vita, e il fatto che lei non la capisca ci divide, inesorabilmente e per sempre. «Ne parliamo domattina, ti va? Ora voglio solo spegnere la luce e fare l'amore con te.»

Belle sorride, sgattaiola verso la porta e chiude l'interruttore.

Cala il buio. La raggiungo a tentoni, le agguanto i fianchi, la stendo sul letto e le levo gli ultimi pezzi di stoffa che ancora impediscono alla sua pelle imprimersi addosso alla mia, come inchiostro su una matrice. E poi ci accarezziamo, sbuffando, mormorando parole che rimangono solo nostre, mordendo le labbra, serrando i denti, lasciando uscire dalla gola gorgoglii e sospiri profondi, feroci.

E sì, tutto questo lo facciamo al buio. Ci sono cose che si fanno solo al buio. Perché se le fai con la luce non le fai davvero. Non sei tu, se le fai con luce. Non sei il vero te stesso. Perciò sì, ci sono cose che si fanno solo al buio. Tipo rubare un motorino in un parcheggio quando hai sedici anni, con i tuoi amici che ti incitano e la paura di essere beccati. Tipo il bagno al mare con la ragazza che ti piace e che ha la pelle che sa di buono, che te la baci per minuti che sembrano ore ma alla fine sono solo piccoli istanti nell'insieme di una vita. Tipo i messaggi che sanno di sesso scambiati con la tua ragazza del liceo, che ti vergogni a scriverli e stai sotto le lenzuola mentre ti accarezzi e speri lo faccia anche lei. Tipo l'amore con la tua prima, vera donna, che se lo fai al buio la senti tutta e ti senti fino in fondo all'anima. Tipo correre via piangendo da qualcuno che ti ha ferito così intensamente da farti credere che non potrai guarire mai. Tipo scappare dal mondo in cui vivi e rifugiarti in un porto ospitale.

È questo che faccio, ora, sopra e dentro Bella: cerco rifugio. Rifugio dal buio e nel buio. E non mi va di chiedermi perché lei sia rifugio e non casa. Non mi va di chiedermelo ora. Ora non penso e basta. E va bene così.

✽ ✿ ✾ ✽ ✿ ✾ ✽ ✿ ✾ 

Buondì!!
Mi sembra quasi impossibile, ma ogni volta che mi metto a dare voce a Matthew partono fiumi di parole: lui è così, prorompente, uno che la vita se la mangia in un boccone.

Fatemi sapere che ne pensate, se vi va!

Un bacio :*
Elly

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