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39 (M) Una lenta corsa

La batteria si ferma, la musica svanisce, il canto si interrompe. L'aria ci palpita contro, elettrica, calda, densa. Il silenzio si posa e si rialza, seguendo le correnti elettriche degli strumenti che ora tacciono, muti, vibrando con timore, lasciandosi morire tra le nostre mani agitate.

«Le ho scritto ormai cento canzoni» sussurro, e i ragazzi mi guardano, ma aspettano. Sanno già. «L'unica cosa difficile sarà cantargliele tutte, una volta che sarò riuscito a farmi capire.»

E adesso che ho mezzo detto che la voglio ancora, che rinuncio a tutto ma non ad Alyna – vi prego, ridatemi lei e i suoi occhi e quel sorriso e l'imbarazzo e le guance rosse –, non a parlarle, non a rimediare ai miei sbagli... adesso mi sento quasi un uomo. Mi sento quasi uno che si prende le sue responsabilità e sistema gli errori. Forse sono davvero cresciuto, una buona volta.

«Oh, ti capirà» risponde Yuriy, il volto teso da un sorriso inusuale e tremendamente pieno di lui e me e noi tutti. «Quello che hai scritto è esattamente quello che senti. E dalle canzoni si capisce sempre tutto. Dalle tue, poi, quando le canti e le accordi e le suoni... non c'è storia. Capirà. Come ti sei capito tu scrivendole, no?»

«Ci proverò» ribatto.

Theo scuote la testa. «Fare o non fare. Non c'è provare» sentenzia, ridendo piano.

E con la massima di maestro Yoda non si può competere: annuisco, alzo una mano, pronuncio le parole solenni: «Lo farò.»

E solo il destino sa, se andrà a buon fine.

«Noi saremo qui, Matt. Qui o dove ci vorrai. Sai che ci siamo sempre» dice Theo.

So, oh, se lo so. E non dimentico. «Grazie.»

E niente più. Il momento è passato, il tempo è finito, e dopo quattro pacche sulle spalle, mentre ognuno ritorna sulla propria strada – Theo a correggere esami, Lucs a pagare l'affitto, Yuriy dai ragazzi che lo aspettano in palestra – io ripiombo nel loop eterno del mio pensare ad Alyna.

È come se non potessi farne a meno, come se ogni cosa che vedo o sento o dico mi portasse inevitabilmente a lei. È come se dentro di me navigasse un enorme rimpianto, che mi si posa sul cuore e mi rende difficile il respiro. È come se mi sentissi tradito e allo stesso tempo colpevole nel mio sentirmi tradito: perché lei ha sbagliato ma io ho fatto lo stesso e non posso negarlo.

Adesso – che sono seduto nel mio letto e guardo l'armadio cercando di convincermi che è tardi e devo andare al lavoro – adesso, qui, lei suona e risuona e sbatte dentro il mio cranio più forte che mai. Perché qui dentro, qui su queste assi del pavimento, qui tra questo armadio e questo letto e questa porta e questa finestra, Alyna mi ha portato alla follia. Come cantano le canzoni che adoro. Esattamente come dicono i migliori testi di sempre.

Prendiamo "Slow ride" dei Foghat, per esempio.

Ooh slow ride... ooh slow ride, take it easy
Slow ride, take it easy

Qui Alyna si è lasciata spogliare, in una lenta discesa mi ha fatto trovare il nome di Io scritto sulla sua pelle – e com'era morbida quella linea sottile tra la schiena e le natiche, com'era morbida e perfetta e mia e sua.

Slow down, go down, got to get your lovin' one more time
Hold me, roll me, slow ridin' woman you're so fine

Qui Alyna mi ha guardato con occhi neri di cocente voglia di me, qui si è seduta sulla mia gamba, mezzi nudi com'eravamo, per accarezzarmi la barba. Qui s'è lasciata portare via dalle mie dita – ancora una volta, sempre più mia – e qui ha sfiorato con le sue mani quel che di mio non aveva ancora mai visto. Qui è cresciuta, ha conosciuto cose che non sapeva, ha imparato a farsi forza e a dirmi che era eccitata, che voleva farmi godere come io avevo fatto con lei. Qui sono cresciuto, ho compreso cose che non sapevo, ho imparato a farmi forza e a lasciarmi andare, con lei che mi guardava e io che non avevo idea che si potesse stare così bene assieme a qualcuno.

Qui c'è ancora tutto quello che ci è successo, e la notte fatico a starci dentro, anche solo per qualche ora tra i turni al bar e le mie capatine a sentire le band. Fatico a starci perché penso a lei, e mi sento male, e la immagino con me, e mi do piacere da solo pensando a lei – ed è così sbagliato, imperfetto, stupido, senza Alyna, è così amaro e insipido e inutile e doloroso.

Mi alzo, afferro un paio di jeans e me li infilo stirandomi le anche per entrarci – quand'è che ho messo su peso?

Mi chiudo dietro la porta di casa, scendo le scale rigirandomi le chiavi tra le dita come un prestigiatore, e di fretta raggiungo il tram.

Seduto sulle seggioline blu, il mio pensiero segue fili incomprensibili, allaccia il verde di un albero con gli occhi di qualcuno che non ho mai conosciuto, prende una lingua ignota e ne fa blu di cielo che dietro le palpebre diventa mare e oceano e spuma.

Un bambino al mio fianco scoppia a piangere, e quando mi volto la madre che lo stringe mi pare così incredibilmente somigliante alla mia che per qualche istante mi viene da piangere. Ché mi manca mamma, mi manca il modo in cui sempre sorride quando le do contro, esattamente come sta facendo quella donna col suo bimbo che le si rivolta tra le braccia urlando disperato.

Tiro fuori il cellulare, compongo il suo numero.

«Mamma.»

«Matthew! Ma com'è bello sentirti.»

Che voce calda hai, mamma. Che voce solare e bella e piena di cose.

«Puoi parlare?»

«Oh sì, sì tesoro. Sono appena tornata dalla scuola, ho tutto il tempo che vuoi. Come stai? È da settimane... mesi, che non chiami.»

C'è del risentimento nella sua voce, quello di una donna che vorrebbe di più da suo figlio, ma è stemperato dall'amore che so ha per me: mi accetta così come sono. Da sempre.

«Lo so. Perdonami. Papà... ti ha detto del provino?»

Mamma sta in silenzio per qualche secondo. Sospira. Che succede, mamma? «Sì, lo ha fatto. Sono uscita per un caffè con lui e Stephan, poco dopo che sono tornati dal viaggio. Erano... sono preoccupati per te.»

«E tu?»

È lecito – mi chiedo – domandare alla propria madre se è preoccupata per l'unico figlio? O le farà male e basta? Ma io lo devo sapere. Anzi, già lo so. Ma mi serve conferma.

«Amore mio... come potrei non esserlo? Tu non ci credi, ma io ti penso sempre.»

«Mamma» sbuffo, «non essere pedante.»

«Okay. Lo so che odi quando faccio così. Va bene, sono tanto preoccupata anche io. Che succede? Perché non scrivi? Che paure hai sotto al letto a rubarti il sonno?»

L'immagine delle mie paure – pelo lucido, artigli che grattano – acquattate sotto al letto pronte a sgraffignare il sonno dalla mia testa mi ha sempre fatto ridere, ma mamma non ha mai smesso di usarla.

Rido anche 'sta volta – come il bambino irritante e irrequieto che da sempre vive dentro di me – poi mi calmo. «In realtà adesso scrivo di nuovo».

E ora, lo dico o non lo dico? Dai, Matt. È mamma. «Ho incontrato una ragazza. Che viene da Istanbul. E... le ho insegnato un po' di cose sulla musica, così ho finito per tornarci dentro, a quel mondo, e ora ho anche scritto qualcosina.»

«Una ragazza? Matthew, quando aspettavi a dirmelo?»

Perché sì, mamma non ha mai saputo di Bella. Ma ora sa di Alyna. Cazzone. Imbecille. Ogni tua scelta ti mostra lo sbaglio fatto quella dannata sera. Chissà dove sareste ora, se tu non avessi baciato Bella.

«Scusa. Volevo... non lo so. Tanto è finita.»

Silenzio. Guardo in alto, conto le fermate che mancano alla mia. Ho solo qualche minuto ancora.

«Mamma, avrei dovuto dirvelo prima, anche a papà. Ma non l'ho fatto e forse è stato meglio così. Ho fatto un errore che l'ha ferita, e lei ha ferito me in cambio. Forse doveva andare così, forse doveva soltanto venire qui per riportarmi alla musica, forse è stata una parentesi bellissima ma solo limitata... non lo so. Forse era solo destino che lei venisse, mi sorridesse e andasse via proprio quando stavo per sorriderle anche io. Non so.»

«Matthew. Hai bevuto?»

Cosa? «Mamma! Ma che dici? Sono sul tram, sto andando al lavoro. Non ho bevuto!»

«Sei sicuro?»

Ma che domande sono? «Sarebbe questa la risposta al mio cuore che ti ho aperto due secondi fa?»

La donna con il bambino in braccio ridacchia tra i denti, e io mi chiedo se sia così semplice, per le mamme, capirsi l'un l'altra: suo figlio ha qualche mese, io quasi trent'anni, ma alla fine forse ci vedono allo stesso modo. Siamo sempre figli, sempre indifesi, sempre problematici.

«Devi andarci piano con la birra. Dopo che ti abbiamo trovato sopra il tavolo, a tre anni, che ti scolavi le bottiglie vuote...»

«Basta con questa storia!» ribatto. La rivanga ogni volta che si parla d'alcool, possibile?

«Matthew». La sua voce torna calma, serena. «Non pensavo mi avresti mai parlato così di qualcuno, di qualcosa che non fosse la musica. Questa ragazza... ti ha insegnato molto. Non c'è proprio modo di tornare a parlarle?»

«Non lo so.»

Dev'esserci.

«Tu lo vorresti?»

«Dipende da lei.»

«Quindi vorresti.»

Il nome della mia fermata mi riscuote: scendo dal tram, il cellulare ancora silenzioso contro l'orecchio.

«Sì, mamma» mi ritrovo a dire, mentre attraverso la strada quasi senza vedere niente. «Lo vorrei.»

«C'è una piccola immensa forza in te, Matthew. Dalle una spinta, dalle la tua anima. Si arrangerà da sola a farti strada. Lascia che la musica ti indichi come fare.»

Oh, mamma. Mi sai leggere dentro come lei. Come Alyna solo fa. «Sto scrivendo canzoni.»

«Parlano di lei, e te, vero?»

«Sì.»

Ancora silenzio. «Trova le parole giuste.»

Sono davanti alla porta del bar, è tempo di entrare, monto tra cinque minuti. «Devo andare, sono arrivato. Io...»

«Prego. La mamma è qui per questo. Un abbraccio, Matthew. Chiamami, quando la rivedi.»

«Ok-okay. Va bene. Ciao, mamma» balbetto, sempre più imbarazzato dal modo in cui mi entra nella testa, in cui ha capito tutto e ha preso Alyna quasi sottobraccio, pure senza che le dicessi nemmeno come si chiama.

Chiudo il telefono, mi guardo nel vetro della porta – sì, sono ingrassato. Sarà che mangio a orari assurdi – e poi entro, infilandomi dietro il bancone.

«Ehilà, inglese» esclama Aaron, mollandomi una pacca sul bicipite.

«Ciao, Aaron.»

«Com'è?»

«Bene.»

Sbuffa, si volta verso la ragazza che sta servendo e ammicca. «Di poche parole, l'inglese. Noi tedeschi siamo molto meglio. Da dove vieni tu, bella?»

Lo lascio flirtare, e mi metto con docilità a sistemare la lavastoviglie. Pezzo dopo pezzo, riesco a smettere di pensare, e un bicchiere sistemato dopo l'altro, in ordine preciso, mi restituisce fili di ragionamento validi.

Devo fare qualcosa, trovare il modo di parlarle, di trovarla, di farmi capire.

Ma come fare? Inutile chiamarla, inutile scriverle, inutile suonarle il campanello: è chiaro che non mi risponderebbe, e io temo farei altrettanto, se fosse lei la prima a cercarmi.

Devo trovare un sistema diverso, un modo per essere con lei pur non essendoci realmente. Un modo per parlarle e dirle quello che sento e spiegarle quello che ho fatto senza dirlo a voce, senza dirlo al telefono, senza perdere giorni interi o settimane o mesi – per quanto ancora rimarrà qui? E se decidesse di tornare a Istanbul? Riuscirei mai a prendere un aereo e trovarla lì, nel caso? – alla ricerca di una sua risposta che potrebbe richiedere più tempo e forza di quanto io non possieda.

«Ehi, Matthew.»

La voce di Aaron mi spinge a tornare qui, al bar. Lo guardo. «Sì?»

Si passa una mano tra i capelli, strofina le nocche sulla guancia. «No. È che... sei strano ultimamente. Che ti succede?»

Anche tu? Anche tu, Aaron? Tu che più della nazionalità di me non conosci nulla? «Sto un po' sbattuto. Problemi vari.»

Si avvicina, abbassa la voce. «C'hai mica finito la bamba, vero? Se no provo a sentire uno... se ti serve chiedi, eh.»

Scuoto la testa, mi ritrovo a sorridere. «No, Aaron, non ho finito niente. Sono problemi di altro tipo...»

«Salute?»

«No, niente del genere. Cervello e cuore, ecco. Forse solo cervello e cuore.»

Annuisce. «Trovaci una soluzione, eh. Così mi pari mica tu. Mogio, niente occhiatine...»

«Ci provo. Grazie per il sostegno.»

Abbassa la testa e fa due passi indietro. «E che, ci mancherebbe.»

Gli volto le spalle, torno a sistemare il bancone, preparo due birre alla spina per i muratori che si sono appena seduti sugli sgabelli, guardo le loro facce stanche, il sorriso tirato che piano piano diventa risata sciolta, libera da lavoro e oppressioni e pensieri.

Aspetta.

Cerco Aaron con lo sguardo, e quando lo trovo – vicino alla Vodka, mentre serve un cocktail – mi avvicino.

«Aaron» dico, piano.

Lui volta appena gli occhi, continua a preparare lo shaker. «Sì?»

«Hai ancora la passione per gli iPod?»

Torce il viso, posa lo shaker e si gira a guardarmi. «Sì. Perché?»

«Me ne serve una decina. In prestito. Per un mesetto. Poi te li restituisco.»

Annuisce, versa il cocktail nel bicchiere e lo porge con un sorriso terribile alla ragazza che ha di fronte. «Va bene. Ma a che ti serve?»

«Provo una strategia per uscire da 'sto tugurio.»

Si guarda attorno, cerca di capire. «Da qui? Vuoi cambiare lavoro?»

Scuoto la testa, mi indico le tempie con l'indice. «No, voglio uscire da qui. Dalla schifezza che c'ho dentro.»

Aaron sghignazza e mi molla una sberla sulla schiena. «Tanti auguri, inglese. Ci vorrà fortuna.»

Proprio quello di cui ho bisogno.
Fortuna.
Auguri.
Matthew, sei tu.
Capirà.

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