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33. (M) Il pianto di un uomo

Io e Yuriy siamo asserragliati in terrazzo, rifugiati sulle nostre due sedie, le gambe stese in avanti, le caviglie accavallate.

Io ho in mano una bottiglia di Paulaner, che ho raccattato dal frigo mentre Theo e Lucs filavano – strisciavano, più che altro – a dormire. Ci sto annegando dentro da mezz'ora buona, guardando il rosa e il blu che iniziano a stingere la notte di Berlino, e intanto cerco di cavarmi via dalla pelle questo sentore di marcio che mi si è appiccicato addosso e ora mi appesta come fossi un cadavere abbandonato sotto il sole da giorni.

Yuriy si limita a guardarmi sottecchi: non un fiato, non una parola. Mi guarda e basta, e io so dove vuole arrivare ma non sono sicuro che riuscirò ad affrontare questa discussione adesso, alle sei del mattino.

La bottiglia è finita: ho raggiunto il fondo, quell'antro vuoto e desolante che stanotte ero riuscito a rifuggire. Ma ora l'ho raggiunto, e mentre lo fisso mi sembra quasi una metafora degli errori che ho inanellato in poche ore notturne, prima che l'alba arrivasse a chiederne il conto.

«Hai fatto uno sbaglio, un enorme sbaglio» mugugna Yuriy.

Mi schiarisco la voce, mi impongo di parlare. «Lo so.»

«E sarà molto difficile superarlo.»

«Lo so.»

Yuriy scuote la testa. «Non lo sai abbastanza, altrimenti avresti salutato Bella e te ne saresti andato via. Cos'hai detto di lei ad Alyna?»

«Che non c'era più.»

«E ora l'hai baciata.»

«Non lo so se sono stato io o lei. Non so se l'ho baciata io o se ha cominciato lei e io ho continuato. Non me lo chiedere, per favore» quasi imploro, la gola secca e le labbra tumide di sonno.

«Non ci puoi sfuggire così, a una cosa del genere. Devi chiederti il perché, capire per quale motivo dici alla ragazza che frequenti che Bella non esiste e poi appena la vedi perdi la testa.»

«Io non lo so. Non l'ho capito ancora. So che Alyna è molto di più di Bella, che con lei mi sento diverso e posso parlare e fare tutto quello che mi sento.»

Yuriy annuisce. «Sì, Matthew. Okay. Ma rimane che hai baciato Bella, qualche ora fa.»

«Non so perché. Non so nemmeno perché lei – che aveva detto di non voler avere più nulla a che fare con me, non in questi termini – non si sia ribellata. Ha solo sorriso, poi, mi ha salutato e se n'è andata.»

«Posso dire quello che penso?» chiede, docilmente.

«Sì, certo.»

Yuriy impasta le mani tra loro, incastra le dita una con l'altra, ci fissa lo sguardo, cerca le parole. «Vi conoscete da anni, tu e Bella» comincia, tornando a guardarmi negli occhi. «Siete stati da subito più affiatati che mai, sempre a sorridervi, a toccarvi la pelle, a fuggire uno a casa dell'altra per avere qualche ora assieme, a sfiorarvi con battute allusive e a cercare di avere tutto ciò che potevate darvi. Vi conoscete benissimo, ma conoscete ciò che vi siete dati: corpi e risate.»

Un'analisi completa e accurata, da buon osservatore. Ma non colgo il punto.

«Bella non si è mai interessata di musica, né del gruppo. Non ti ha mai coinvolto nel suo giro di conoscenze, non ti ha mai portato a casa dei suoi – eppure sai che vivono qui a Berlino. Tu non le hai mai detto di tuo padre, della famiglia che hai lasciato in Inghilterra, dei problemi a capirti e a capire gli altri che hanno attraversato la tua adolescenza, non le hai mai rivelato quanto ti faccia male l'assenza di musica. Alyna sa già tutto. Cogli la differenza, no?»

«Sì. Ma è difficile per me capire il perché.»

Ed è complicato davvero, capire il mio comportamento, anche se sono io stesso ad aver fatto queste cose. È difficile, perché Alyna è stata nuovo, un nuovo pieno di scoperte e di gioia, un nuovo a cui potevo insegnare qualcosa, un nuovo che mi cercava e mi voleva perché sono ciò che sono: irruente, sconclusionato, amante della musica. Ma Bella... Bella è una donna che conosco da vicino, un qualcosa di forte e potente che per infinito tempo è stato il mio tutto, la mia carne il mio sorriso il mio rifugio la mia comprensione.

Pensavo sarebbe stato più semplice, dare ragione al nostro distacco, al mio istinto di seguire Alyna e lasciare lei, alle sue parole che mi hanno incolpato e tenuto distante. Ma non è semplice per niente, non è per niente facile lasciare qualcuno che si è conosciuto così bene per una parte così importante della propria vita.

«Nessuno ha detto che dev'essere facile, Matt» riprende Yuriy, e per un attimo penso quasi che mi abbia letto il cervello, che abbia diviso e scisso i miei pensieri e abbia sbrogliato la matassa di cui io non trovo nemmeno il capo, «ma vale la pena di provarci. Non ha senso perdere di nuovo te stesso solo perché non capisci come ti devi relazionare agli altri: lo dice anche la nuova canzone che hai scritto, no? Una roba tipo: "Ti hanno detto che per vivere devi accettare te stesso, ma io ti dico che prima devi accettare gli altri e poi potrai amare". Non perdere te stesso, e non sperare di arginare questo problema fregandotene degli altri: parla con Alyna, spiega ciò che hai spiegato a me. E capisce lei e te, capisci voi, dalla sua reazione.»

«Non lo deve per forza sapere.»

Yuriy rimane in silenzio, mi osserva per bene, muove la mascella. «E tu pensi di riuscire a mantenere il segreto? Di risolvere tutto senza dirglielo?»

«Sì.»

O forse no, ma ci dovrò provare. Non ho alternative.

«Per quanto riuscirai a non lasciartelo sfuggire dagli occhi e dalle mani?»

C'è un'unica soluzione, Yuriy, lo capisci bene anche tu. «Finché non avrò dimenticato quel bacio.»

«Lo sai che se tieni un segreto non lo dimentichi mai, vero?»

«Sì, lo so! Ma che devo fare, Yuriy? Mandare tutto a puttane per un bacio?» esclamo, spalancando le labbra in un muto urlo di disperazione.

Che ho fatto? Perché l'ho fatto?

«E se fosse? Se mandassi tutto a puttane? Almeno avresti detto la verità.»

«Non posso!» sputo, come se le parole che dico fossero grumi di sangue rappreso che mi intasano i polmoni e devo buttar fuori per tornare a respirare. «Non esiste che io lo dica ad Alyna e che lei se ne vada per questo, non può succedere, non lo lascerò succedere, lo giuro. Ho promesso che sarei andato con calma, ho promesso che le avrei insegnato tante cose, io non posso, non voglio smettere, finire questa cosa, non ce la faccio...»

E mentre il mio cervello perde connessione con le labbra e lascia uscire tutte le parole che vuole, mi ritrovo a singhiozzare, con il viso bagnato, umido, le guance sensibili al fresco che dilaga in questa mattina così limpida.

Non mi capacito di ciò che percepisce la mia pelle, e così alzo lo sguardo: incrocio gli occhi chiari di Yuriy che mi guardano intimoriti, sconvolti.

Non ho mai pianto. Non davanti a i ragazzi. Davanti a nessuno, se non a mamma. E ora sto piangendo. Sto piangendo sul serio, con il petto che si alza a scatti, l'esofago che si contrae e la gola stretta, le lacrime che scendono incontrollate e io non le so fermare, non le so nascondere, nemmeno so bene come reagire.

«Te... te la ricordi "Boys Don't Cry"?» mi ritrovo a chiedere, tra uno spasmo e l'altro.

Yuriy annuisce. «Quella dei Cure. Non mi sono mai piaciuti, ma ha un bel testo.»

«Esatto. Io... ho sempre pensato che i ragazzi non piangessero, come dice quella canzone.»

Ho sempre pensato che fosse questa, l'unica strada: tenere dentro, ingurgitare, scomporre, capire, ricomporre. Ed ecco, passato. Ho sempre lavorato così, dicendomi che dovevo reagire e riuscire a darmi pace.

Yuriy allunga una mano, mi sfiora la testa. «I ragazzi non piangono. Gli uomini sì. Questo è il pianto di un uomo, Matt.»

«Sono un uomo di merda» sussurro, guardandolo attraverso la nube di acqua e vapore che mi avvolge le pupille.

Yuriy sorride, scuote la testa. «Sei un uomo. Siamo tutti cazzoni e codardi. È nella natura di ciò che siamo, comportarci in modo errato, fare sbagli, cercare di riparare. Tu non sei diverso dagli altri. Ne uscirai.»

«Ho bisogno di una soluzione che non mi renda bugiardo e che allo stesso tempo mi permetta di rimanere con Alyna. Si può? La conosci? Ti prego.»

«Non la conosco» mi risponde, «e non sono io a dovertela dare, comunque. Fai ciò che trovi giusto. Se le hai promesso calma, fallo con calma, ma trova il modo di tenerla con te. So quanto è importante, perciò capisco la tua paura. Ma sei un essere umano, è normale averla. Tanto quanto è normale cercare di superarla. E riuscirci.»

Io non so cosa rispondere. La paura la conosco, la conosciamo tutti: è qualcosa che ti striscia dentro, lasciandosi dietro una patina liquida che corrode, erode, soffoca. È pesante, la paura, impedisce di respirare e pensare, ghiaccia sospiri e parole. Ti sfinisce, ti leva il sonno e l'appetito, ti trascina con sé – piano piano, inesorabile – fino al fondo.

«Di cosa hai bisogno?»

La voce di Yuriy mi giunge ovattata, quasi lontana, tiepida tanto quanto inconsistente.

«Di non pensarci.»

Sento le mie parole, ma le riconosco a fatica. Striscia, la paura. Striscia veloce. Avvolge ogni cosa.

Yuriy si alza, mi si mette di fronte, mi tira in piedi per i gomiti. «Colpisci» dice, indicandosi. «Colpisci forte e mirato. Concentrati.»

Lo guardo, e cerco di capire se dice sul serio o fa solo finta. «Qui?»

«E dove altro?» esclama, allargando le braccia. «Su, non ho paura delle tue botte, Matt. Fatti sotto.»

Muovo il piede sinistro in avanti – di poco, un millimetro, forse due – quasi a rispondere alla sua provocazione, e senza accorgermene il corpo reagisce da sé: chiudo e apro le mani, scuoto le spalle, i miei occhi volano su Yuriy a indirizzare braccia e mente.

Sfioro i jeans con i polpastrelli della destra, socchiudo le palpebre, serro le dita e scatto avanti, repentino fulmineo arrabbiato dolorante. Il pugno impatta subito contro il petto di Yuriy, che non se lo aspettava e scivola indietro di qualche centimetro.

«Era troppo alto, Matt. Devi colpire col braccio parallelo al pavimento, lo sai. La misura su di me è sotto lo sterno. Non ti distrarre, pensa al punto esatto.»

Tiro indietro il braccio, mi sposto sui piedi, cerco con gli occhi il posto che so essere quello giusto – dai, Matthew, dai. Colpisci e ritira, colpisci e riprova. Fuori di qui pensieri fuori di qui – e assesto un altro colpo.

Questo è andato a segno: lo vedo perfettamente, Yuriy si ritorce e tira dentro la pancia, assorbe il colpo e butta fuori aria per respirare.

«Difenditi» dico, serio.

Yuriy mi guarda. «Perché?»

«Perché sì.»

Perché sì, così fa schifo, così è contro qualcuno che amo, non lo posso fare. Ma se lui si difende allora sta bene, se lui si difende mi ferma mi blocca e questa rabbia aumenterà e forse se ne andrà fuori da qui.

Yuriy alza le spalle, dilata le dita e mette le braccia avanti, una dritta e una parallela al bacino. «Okay. Ora mira nel mezzo. Aggira le difese, cambia mano, alterna i punti d'impatto.»

Sinistro alla spalla – parato – destro allo sterno – fermato immediatamente – sinistro al petto – stop – sinistro al fianco – ecco uno spiraglio, mi ci butto dentro e colpisco.

Sì, ho colpito.

Lo sento che la mano fa male, ma dentro mi brucia tutto. Lo vedo che Yuriy grugnisce e sorride fiero, ma dentro mi brucia tutto. E quindi riparto, altra serie altra corsa: avanti indietro destra sinistra, sono più le volte che colpisco le braccia di quelle in cui le supero, ma non mi fermo, non posso, ho ancora bisogno di male, e di urlare.

E allora urlo, urlo a ogni colpo, con la voce che si incrina di pianto e rabbia e desolazione. Urlo lettere a caso, un «ahh» «rgg» «tss» disperato e incoerente che mi estrania da me e da ciò che sto facendo, mi fa chiudere le palpebre e Yuriy scompare, scompaiono le mie mani, scompare il terrazzo e il cielo e tutto ciò che c'è oltre quel che ho dentro.

Ma io non smetto di tirare pugni, e urlo ancora, sempre più forte, e le parole smettono di avere significato quando escono dalla mia bocca una in fila all'altra: «bacio», «sesso», «amore», «musica», «basta», «basta» e «basta».

Poi, improvvisamente, mi ritrovo appoggiato a Yuriy, che mi ha bloccato le braccia e ora mi tiene stretto a sé, i pugni premuti contro la mia schiena e le gambe ritte sorreggermi. Non dice una parola, ma non molla la presa e mi fa da esoscheletro, mi avvolge e mi protegge da quello che ho dentro e allo stesso tempo da tutto quello che c'è fuori.

Apro di nuovo gli occhi, ma non vedo niente. Anche se fisso con insistenza la porta della serra, non vedo nulla: tutto sfoca nelle mie pupille, diventa grigio e rosso e poi violaceo. E allora stringo le ciglia, chiudo i contatti, rimango aggrappato al busto di Yuriy che è caldo e sudato eppure tremendamente fermo, solido, certo.

Sono così stanco di non avere un luogo, di non avere un motivo, di non sentirmi mai abbastanza a casa. Così stanco di sentirmi perennemente al di là o al di qua delle cose, troppo dentro o troppo fuori, senza mezza misura.

Sono così stanco.

***

Mentre aspetto che il cellulare prenda la linea, mi mordo insistentemente le labbra con i denti: sto cercando di cavare via a forza il ricordo di ciò che ho fatto stanotte, ora che il buio sta di nuovo scendendo oltre la finestra e io ho una paura tremenda di tornare l'Hyle che ho scoperto vivere dentro di me.

Perché mi sento decisamente diviso a metà, un po' Jekyll e un pizzico pure Hyde, che penso e credo e perseguo certe cose e di notte – col favore delle tenebre e dell'alcool e della musica in cassa – ne faccio altre. Tipo infilare le mani nelle mutande di Alyna dopo che le ho promesso immensa calma. Tipo baciare Bella dopo che abbiamo entrambi deciso di chiudere i rapporti.

E adesso che sto attaccato al telefono per risolvere almeno una questione, mi sento imbecille e patetico come un ragazzino. Dovrei essere responsabile delle mie azioni, ora che sono più vicino ai trenta che ai venti, e invece ho paura di ogni parola che mi esce e di ogni sbaglio che faccio. Un ragazzino mai cresciuto, ecco cosa sono. Altro che voler essere come papà, altro che voler prendere in mano la mia vita.

«Ciao, Matthew.»

Sospiro, respiro, mi dico che non posso rimandare: il momento è adesso, anche se mi sento le viscere in fiamme e me la sto facendo sotto.

«Ciao, Aktivist!» rispondo, ostentando una forza d'animo che ora come ora mi è completamente sconosciuta. «Come mai questa vocina sottile? Stai male?»

«No, ho solo mal di testa e crampi, ma passerà...»

Ribatti, indietreggia, rimani connesso, porta avanti il discorso, fuggi dalla ghigliottina. «Hai le tue cose, tesoro?»

«Ma che te ne frega a te, eh? E non chiamarmi tesoro.»

Peperina, cocciuta, irritata. Alyna perdonami, fosse stato un altro giorno sarei stato zitto, ma oggi è oggi, è la domenica sera di una domenica iniziata mentre baciavo la mia ex pensando a te e vergognandomi di me stesso in un bagno di lacrime. Scusami, ma mi serve che tu reagisca per evitare di reagire io. «Decisamente, hai le tue cose.»

Alyna sbuffa. «Matthew, smettila! Non ti riguarda. Che c'hai, oggi?»

Ho che sono un uomo di merda. Altro che un cazzone. Una merda. «E invece sì che mi riguarda». Passiamo all'ironia, se no qui si finisce male. «Si tratta di sopravvivenza della specie perché: a) Se hai le tue cose sei fertile, quindi la specie può continuare a vivere; b) Se hai le tue cose la specie maschile deve battere in ritirata causa valanghe rossastre; c) Se hai le tue cose io potrei dover battere in ritirata perché potresti essere leggermente agitata.»

«Matt! Come sei sessista cavolo. Le mie cose riguardano me e me sola.»

«Non è sessismo!» E qui sono sincero: cazzo c'entra il sessismo? Qui è solo cazzonaggine, piccola. Cazzonaggine di un pivello che ha paura di perderti. «Voglio sapere come comportarmi con te quando hai le tue cose! È normale, no?»

«Il mio ciclo è normalissimo, sei tu che con queste domande non sei normale, Matthew! Lasciami in pace.»

Ok, lo chiama ciclo. Lo registro, ché dentro spero di parlare di queste cose per secoli ancora, di comprarle gli assorbenti al supermercato quando – e non se, destino. Okay? Quando – me lo chiederà perché sarà troppo stanca anche solo per alzarsi dal divano. «Alyna, quindi quando hai il ciclo vuoi essere lasciata in pace?»

«Matthew! La possiamo smettere di parlare del mio ciclo al telefono? Sto bene, tutto bene. Dimmi perché mi hai chiamato, per favore.»

Lo dico o no? «Io e i ragazzi volevamo invitarti qui a cena, domani.»

«Di lunedì?»

«E che, adesso non si può più?» sbuffo. Alyna, ti prego.

«Sì. È che... sono stanca e...»

«Matthew! Viene, viene! Ce la porto io a forza!» si introduce una voce, squillante e gioiosa.

«Becky!» urla Alyna. «Ci parlo io

Sorrido inconsciamente, capendo che sto finalmente ascoltando la voce di Rebekka, la coinquilina di Alyna. «Ciao, Rebekka. Tanto piacere sentirti. Vieni anche tu domani, dai! Così ci conosciamo per bene.»

«Oh, ma certo! Con estremo piacere» ribatte lei, poi il telefono fruscia.

«Matthew

«Alyna. Allora, ore diciannove. In teoria facciamo qualcosa noi, speriamo di non bruciare tutto come al solito.»

«Io...»

«No, ti prego. Alyna, ti prego. Venite, ci divertiamo e stiamo assieme per un po'. Per favore, fallo per me». E adesso le dico la verità, le dico tutto e lo dico sul serio: «Mi manchi, ho bisogno di vederti». Ora che l'ho detto mi rimbombano le orecchie, perché ammissioni così non ne ho mai fatte in vita.

Alyna rimane in silenzio, poi sospira pesantemente. «Anche tu. Tantissimo».

Lo ha detto anche lei, lo pensa anche lei, lo sente anche lei. E forse questo vuol dire che c'è speranza dopotutto, che le cose potranno risolversi.

«Okay, Matt. Veniamo da voi per le sette di sera.»

E ora sorrido, sorrido per davvero, perché se penso a lei e a vederla e toccarla di nuovo tutto il resto perde importanza. «Grazie. Un bacio. Ti aspettiamo qui. Io, i ragazzi, quello che bruceremo sui fornelli, le piantine... e ovviamente la mia cazzonaggine

Alyna ride. «Mi manca anche lei, oltre a te. A domani, cazzone

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