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3. (Matthew) Il bassista e la vita

«Matt! Se non ti alzi subito giuro che vado a prendere un secchio d'acqua e ti lavo come la settimana scorsa. Ci siamo capiti?»

La voce da baritono del mio coinquilino sfonda i miei timpani assonnati come la carica di una mandria di buoi desiderosi di montare una vacca.

«Cristo, Theo. Che ore sono?» bofonchio, mentre la bava mi scende dalla bocca al cuscino.

«Le dieci! E dovevamo trovarci allo studio con gli altri venti minuti fa. Quindi ora o ti alzi o vado senza di te!»

Sbuffo, seccato, ricordandomi l'appuntamento di oggi, e con tutta la buona volontà che ho in corpo mi sforzo di aprire gli occhi. Metto lentamente a fuoco le dita della mia mano, poi la federa scura del cuscino, e alla fine la sveglia digitale, che mi sbatte addosso una scomoda verità: sono soltanto le otto e mezza. Quel cazzone di Theo ora mi sente...

Ormai sveglio – e incazzato nero – scendo dal letto e mi fiondo in cucina. Il mio dolce coinquilino sta amabilmente spalmando il burro sulla sua fetta di pane, e mi guarda sorridendo attraverso gli occhi scuri. «Ben svegliato.»

«Sei un brutto cazzone di merda, Theobald» sibilo.

Lui si ferma, fa una smorfia e mi rifila il dito medio. «Vaffanculo. Sai che odio quando mi chiami così.»

«E tu sai che odio quando mi svegli troppo in anticipo. Che cazzo ti cambiava aspettare mezz'ora? Eh?»

Theo torna a spalmare il suo ipercalorico burro. «Con in tuoi tempi saremmo arrivati allo studio tra dieci giorni. Ora, per favore, chiudi la tua fogna di bocca. Il caffè è già pronto e pure il tuo bacon. Sopra il bancone.»

Lancio un'ultima occhiata infastidita al dannato deficiente che mi ha risvegliato dopo due sole ore di sonno, poi arranco verso la mia colazione e la ingoio in un attimo. Afferro la mia enorme tazza di caffè e faccio un cenno a Theo, poi mi dirigo verso il retro dell'appartamento. Devo salutare le mie piccole creature.

Oltrepasso lo stretto stanzino che funge da bagno, apro la porta a vetri che porta al terrazzino e mi infilo nella stanza più bella di tutta la casa. Ad aspettarmi, tenere e meravigliose, le mie piccole bimbe. Un enorme sorriso mi si apre sul volto a quella vista, e in un moto di gioia mi avvicino alla mia figlia più grande.

«Tesoro, come stai?» sussurro piano, accarezzandola con dolcezza.
Nel frattempo spingo lo sguardo attorno a noi. «Brave, bimbe mie, bravissime» mormoro, e piano piano lascio un bacio e una carezza a tutte le mie tenere creature, sussurrando i loro nomi. «Mick e Mick, avete fatto i buoni, vero? E tu, Keith? Jim, ti vedo cresciuto! Miseriaccia Jimi, proprio non ti riesce di far spuntare qualcosa, eh? Ma Flea, amore del papà, perché sei così abbattuto? Ti manca acqua? Vado subito a prenderla, un istante.»

Raccolgo in velocità uno dei tanti annaffiatoi che sono sparpagliati nella stanza, e con estrema attenzione bagno il terriccio di Flea. «Ecco qui. Come va? Già meglio, vero? Prima di uscire passo a controllare che l'acqua non ristagni, okay?» le dico, poi mi chino a lasciare un bacino sulla foglia verde più alta, che si apre come una bellissima mano tesa verso il soffitto di vetro.

Prima di uscire dalla serra do un ultimo sguardo alla mia meravigliosa coltivazione di marijuana, duramente sviluppata in due anni di ostinato lavoro di cui vado orgogliosamente fiero: sono magnifiche, le mie bimbe. È valsa la pena di spendere un po' di più per questo appartamento con terrazzino sul tetto, soltanto per avere lo spazio di far crescere queste meravigliose piantine di cui sono il fiero padre. Sono il mio orgoglio, le mie tenere piccole, la mia rivincita. La mia rivincita sul paesetto in cui sono nato e sulla gabbia di mediocrità in cui ho vissuto per tanti anni. Sono il mio modo per far capire al mondo che Berlino è la città più bella dell'universo, libera, piena di arte e di creatività. E sono anche un validissimo sostituto dell'ibuprofene, di quasi ogni altra diavoleria medicinale, oltre che un rimedio a tutti i mali dell'uomo. E quando dico tutti, intendo proprio tutti. Sì, pure la peste. Sono sicuro che avrebbero sistemato pure la peste.

«Matt? Tutto a posto? Ti sei perso a fumarti le foglie?»

L'urlo di Theo giunge fino a qui, e mi fa scuotere la testa. Come se tu non fumassi anche quelle, cazzone. Ci arrotoli dentro il fiore essiccato e finisci a mangiarti pure quelle, ingordo che non sei altro. «Nah, stanno benone tutti quanti. Mi sa che tra poco più di un mese raccogliamo il primo giro, dato che mi sono preso per tempo. A che ora hai detto che dobbiamo uscire?» esclamo.

«Tra mezz'ora circa.»

«Bene, mi faccio una doccia veloce e poi arrivo.»

«Mi raccomando, veloce!» urla il mio coinquilino.

Dannato tedesco, quanto sei rompicoglioni. «Sì, cazzone, ho capito. Veloce come un fulmine. Come la caduta del Reich.»

L'ultimo vaffanculo di Theo mi raggiunge a stento dalla porta chiusa. Mi getto in doccia e mi preparo all'ennesima batosta della mia breve vita.

***

«Per favore, Luciano. Datti una calmata, che se no finisce male.»

La voce profonda e seria di Yuriy, il gigante dallo sguardo ghiacciato che veglia su di noi dall'alto del suo metro e novanta, ci si riversa addosso come una calda coperta di lana, mentre siamo qui in piedi davanti alla porta che tra poco fagociterà noi e i nostri sogni.

Luciano annuisce, scrocchia il collo facendo ondeggiare i capelli scuri, poi si volta verso Theo e gli sorride, con il suo caldo e contagioso sorriso che viene direttamente dalla terra del sole e della bella vita. Ho imparato ad amare il modo di fare degli italiani: c'hanno qualcosa dentro che li spinge a sorridere sempre, a dare sempre tutto, a mangiarsi il mondo con le mani impastate di curiosità. Luciano è così: sempre felice, sempre desideroso di andare avanti, sempre sorridente, anche quando è al limite delle forze. «Sì. So che andrà bene. Andrà benissimo.»

«Certo! Vedrete, spaccheremo il culo a tutti questi pipponi» ribatte Theo, ricambiando con un altro immenso sorriso.

Io mi giro, alzo di poco lo sguardo per incontrare gli occhi di Yuriy, e al suo cenno affermativo mi sento un po' meglio: anche lui, come me, teme che sarà l'ennesima sconfitta. Io e questo grosso batterista musone la pensiamo uguale, sulle opportunità perse e su quello che invece meritiamo, e stranamente la nostra comune tendenza disfattista riesce sempre a rassicurarci prima delle esibizioni: diamo il meglio, sempre, pur non aspettandoci nulla in cambio. Non so come farei a resistere a tutti questi «no» se fossi sempre felice e fiducioso come lo sono Theo e il nostro solare chitarrista Luciano; non sono sicuro che saprei sorridere e ridere dopo ogni disfatta, come soltanto il mio coinquilino e questo giovane italiano sanno fare. Io sto bene nella dimensione del previsto, del noto, del comprensibile, dell'aspettato. Parto da aspettative inesistenti, e tendenzialmente riesco sempre a sopravvivere ai colpi della sfortuna proprio perché non mi aspettavo nulla dal fato.

Improvvisamente la porta di legno che ci ha incantati finora si apre, lasciando spuntare un tipo tutto baffi e niente capelli. «Ragazzi, tocca a voi» ci dice, poi si tira indietro e ci fa cenno di entrare.

Theo e Luciano attraversano la soglia baldanzosi, io e Yuriy li seguiamo con l'enfasi sotto le scarpe. Una volta dentro la sala di registrazione, ci prepariamo dando un attimo di fiato ai nostri strumenti, che sono già qui ad aspettarci. Io non la guardo la mia Charlotte, il mio adorato Fender Jazz Bass rosa shocking, ma la sento sotto le dita, la sento che strepita e scalcia perché vuole voce, la sento che fa tremare le corde, eccitata e smaniosa di avere le mie mani su di sé, a percorrerla con i polpastrelli, a farla vibrare di energia e pulsare di vita come se fosse una donna in carne e ossa.

«Ragazzi, buongiorno.» Un tizio con i capelli sale e pepe ci sventola la mano da dietro il vetro, e subito Theo ricambia, da leader qual è. «Se siete pronti, cominciamo.»

Theo annuisce, si volta indietro, passa in rassegna ognuno di noi con le sue iridi nere, poi afferra il microfono e fa un impercettibile cenno con la testa.
Un nanosecondo di silenzio invade la stanza, invade ogni poro della nostra pelle, ogni cellula del legno degli strumenti, e poi rimbalza dritto nel nostro cuore, quasi una stilettata piena di veleno, un dolore immenso. È il dolore del silenzio e del vuoto, che per noi significa soltanto assenza di musica, assenza di vita. Morte.

E poi Yuriy alza le braccia al limite del mio campo visivo e vibra uno dei suoi immani fendenti sulla grancassa, che finalmente riempie questo terribile vuoto e ci dà la scossa.
Luciano sorride, e in un attimo è già con le dita tra le corde, che strimpella la sua linea melodica di questo pezzo, e lo sento che è eccitato, euforico, su di giri.
Theo sposta il microfono a destra, con quella sua mossa così alla Elvis che fa impazzire ogni ragazza che finisce sotto il nostro palco nei locali, e butta dentro ai circuiti elettrici quella voce calda, roca, sensuale da impazzire di cui va immensamente fiero e che è una delle cifre dei nostri pezzi.

If you can think about me
Than you can see what I am
Nothin' else in the world
Can touch me like my music

E ora, ora tocca a me. Tocca a me, che da quando siamo entrati mi sento ribollire le note sotto le mani, tra i denti, nella testa, dentro i muscoli, come se fossero scritte nel sangue, come se scorressero sulla mia pelle al posto che sulla carta, una scia di pallini e strisce nere che lampeggiano come neon. È il mio momento, il mio turno di entrare nell'onda, di farmi sommergere da questa cosa calda e vischiosa che è suonare assieme ai miei cazzoni. E lo faccio: sfioro Charlotte, e già la sua voce risuona sopra a tutto, sebbene sia infinitamente sotto a ogni suono qui dentro, nella scala melodica. Eppure emerge, emerge in tutta la sua grazia e ti sconvolge, ti tocca dentro. Io lo so che sta toccando dentro tutti quelli al di là del vetro, lo so che sta suonando il calcio delle loro ossa, l'emoglobina del loro sangue, lo so che sta crescendo tra le loro vene e i loro capillari e che li sta scaldando, facendo agitare, fremere, come se fossero a letto con la loro donna. È questo, il potere del basso. Non è che lo senti nelle orecchie. No, quando mai. Lo senti tra il cuore e la patta dei pantaloni. Ti si infila dentro e nuota nel tuo sangue come Viagra. Non lo puoi fermare. Accade e basta. Ed è meraviglioso.

Quando la voce di Theo si spegne, sembra sia passato un solo istante dal momento in cui Yuriy ha mezzo fracassato i timpani di tutti. Eppure, la canzone dura tra i tre minuti e mezzo e i quattro, dipende da quanto Luciano vuole tirarla lunga, e penso che oggi abbiamo quasi sforato verso i cinque, dato che ho dovuto suonare l'ultimo riff più volte del solito. Ma va bene così: per una volta, sento che è andata davvero alla grande.

«Bene, ragazzi. Perfetto, direi. Il pezzo si chiama As a dancing wave, giusto?» chiede il tipo sale e pepe, sorridendo.

Theo annuisce, rimette il microfono al suo posto, si gira e ci abbraccia con il suo viso radioso. Mormora tra le labbra un "figa, meravigliosi", e al nostro responso unanime di capi chinati e sorrisi che trapelano tra le labbra esce dalla stanza. Lo seguiamo, stanchi, sfatti, con l'eccitazione alle stelle e il cavallo dei pantaloni rigonfio di adrenalina. Sì, ragazzi, la musica fa eccitare, da morire. E se non vi è mai capitato è solo perché ascoltate musica di merda.

Fuori, il produttore ci stringe la mano, uno per uno. «Siete i sessantottesimi che sentiamo, ragazzi. Su duecento. Ci vorranno alcune settimane prima della risposta, ma non temete: siete andati bene!»

Theo ringrazia a nome di tutti, e poi ce ne usciamo nel vento freddo che oggi spazza Berlino.

«Dai Matt, non è detto che vada male di nuovo» dice Yuriy osservando la mia faccia tirata, ma io già so che non lo pensa davvero. Siamo due pessimisti cronici, e niente potrà smuoverci dalle nostre convinzioni. Niente potrà togliermi dalla testa che quel tono che aveva il tipo fosse soltanto quello di uno che ha già chiaro che chi ha davanti non merita molto.

I cazzoni mi trascinano sul tram e andiamo diretti al Besenkammer, vicino ad Alexanderplatz, uno dei nostri bar preferiti. Theo e Luciano vogliono festeggiare, Yuriy acconsente come sempre, e a me non va di tornarmene da solo a casa, tra le mie bimbe nella serra. Quindi entro con loro, mi siedo davanti al bancone, e brindo al provino con una birra ghiacciata che mi sconvolge lo stomaco – a febbraio è freddo davvero, qui in Germania – ma mi fa stare meglio per un po'. Mi riempie la bocca e le budella, la vescica, e un po' mi filtra anche nel sangue, rimettendolo a posto dopo il tour de force musicale che ha appena subìto.

La musica è sempre stata tutto, per me. É ciò che mi ha portato fuori dall'Inghilterra, ciò che mi ha fatto conoscere i ragazzi, i migliori cazzoni che avrei mai potuto desiderare attorno. Ma più di tutto la musica mi ha fatto crescere, diventare grande. Mi ha insegnato a rispettare i tempi, gli accordi, le voci degli altri strumenti. Suonando il basso ho capito che una band non funziona se non con tutti i componenti, che il suono cupo del mio meraviglioso basso si sente poco a orecchio ma è il tessuto fondamentale su cui costruire tutto il resto. Con la musica ho imparato la disciplina e il rispetto. La musica ha addolcito il mio animo e placato la mia mente, portandomi dall'irrequieto e scapestrato bambino che ero – sempre a fare a botte, sempre a litigare – allo scapestrato ma cosciente uomo che sono ora. La musica è stata ed è il mio orgoglio e la mia linfa, la compagna di vita che mai mi ha lasciato né mai lascerà solo. Mi basta sfiorare una corda della mia amata Charlotte e tutto riacquista senso, stabilità, ritmo, anche i momenti più devastanti e le giornate più incoerenti.

È per questo che ogni salto nel vuoto e ogni sbaglio, ogni delusione e ogni sconfitta di questi tre anni della band mi pesano addosso come un macigno. Ci voglio vivere con la musica, non soltanto convivere. Voglio sfamarmi con lei, non solo di lei. E invece mi tocca lavorare al bar sotto casa per mantenermi, mentre Theo fa il docente a contratto all'università di economia e legge, Yuriy allena i pugili in una palestra della periferia e Luciano trasporta carichi di bottiglie d'acqua al mattino per pagarsi gli ultimi studi. Non è così che vorrei la vita, per noi: abbiamo tanto da dare, e siamo davvero bravi.

Non è così che dovrebbero vivere i Melting Pots. E anche se sembro l'unico a cui questa cosa pesa, non voglio smettere di sognare in grande e di sudare. Perché ci meritiamo di più, e prima o poi lo otterremo. Me lo sento dentro. E ci voglio credere fino in fondo.

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Buon lunedì a tutti!

Lo so, lo so che il lunedì fa schifo, condivido. Ma io oggi sono tanto felice perché sono finalmente dottoressa, e quindi in barba al lunedì pubblico il capitolo che più ho amato scrivere, finora.

Ecco a voi Matt, il mio cazzone preferito. Fatemi sapere che ne pensate. Lo so, è particolare, ma lo amo così.

Baci e abbracci,
Ellyfelice 😍

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