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29. (A) Mollare l'àncora

«Io non...»

Non posso, ti prego. Una parte di me, recondita, dimenticata, sa che tutto ciò che sto sentendo è naturale, normale, bellissimo. Sa che le mani di Matthew strette contro di me sono qualcosa di fisico ma anche di mentale, qualcosa che ti scioglie dentro e ti fa bruciare fuori. Quella parte di me – la parte irrazionale, che vuole vivere tutto senza fermarsi – sa dove sto arrivando, sa cosa succederà da qui a poco e sa benissimo che non è una cosa che si fa in pubblico, questa danza di dita e carne e sussurri, né tantomeno si fa così forte come lo stiamo facendo noi.

«Tu sì» mormora Matthew.

Vorrei cedere a questo sì, accettarlo come la soluzione che mi tirerà fuori da questo precipizio in cui mi sento cadere. Ma la mente tentenna, si srotola da quest'abbraccio e fila via, cerca una soluzione diversa che le permetta di sfuggire all'inevitabile. Non posso lasciarmi andare, mordermi le labbra, urlare il mio... il mio piacere, la mia ansia, il dolore sottile che mi sta spingendo verso Matthew. Ma non posso nemmeno staccarmi dal suo abbraccio, non posso – non voglio – togliermi dalle sue dita, andarmene via, cessare questa battaglia.

È più forte di me. Tutto questo è più forte e più grande di me e della mia volontà.

«Alyna... Sì. Sì, questo è quello che vogliamo entrambi» mormora Matthew, le labbra incollate al mio orecchio e la lingua che ogni tanto sgattaiola e succhia, lascia una scia umida sul collo, i denti che mi mordicchiano il lobo senza fare male.

L'unico modo per fuggire dalla smania che ho di Matthew – l'ho accettato, oramai, senza chiedermi il perché e senza fare storie – è stargli tra le braccia, dove tutto acquista il senso che deve avere. Matthew mi piace. Mi emoziona. Lo desidero. E sento per lui, con lui, qualcosa che mai ho sentito prima. Non so resistere alla scarica di adrenalina che provo quando lo sfioro. È una cosa impossibile, sconvolgente, mai sperimentata, un dolore viscerale che mi afferra dentro e mi spinge contro il suo corpo. Non lo so evitare, e non so come fronteggiarlo.

Così l'ho assecondata, la mia pulsione: oggi l'ho baciato, mi ci sono avvinghiata contro, mi sono addormentata sulla sua spalla, mi sono attaccata a lui, alle sue gambe, al suo bacino, con il volto che andava a fuoco e il cuore che batteva nel collo. Ho ascoltato la musica percuotermi dentro, mentre saltavo tra le sue braccia e gli carezzavo le labbra, la mandibola, il naso, per farmi perdonare gli spintoni. Ho sentito il basso suonare dentro di me, mentre Matt teneva il ritmo sulle mie gambe.

E ora sono immensamente felice, immensamente me, immensamente ingarbugliata e spaesata e impaurita eppure viva, in questo abbraccio che sa di possesso e di rabbia, di adrenalina e di eccitazione sfrenata.

Non so cosa sto cercando, quale sia lo scopo di quest'ansia e di questo desiderio che mi bruciano dentro, ma istintivamente so che troverò la via di fuga, che troverò lo sfogo per tutta questa tensione. E che lo troverò solo qui, con le braccia di Matt incrociate sulla pancia, le sue dita che mi stringono la carne e la fannosua, e i muscoli del suo petto e delle sue gambe – e anche qualcosa di più, qualcosa di denso, deciso, irruento, caparbio come lui, qualcosa che spinge per farsi strada come se volesse soltanto me, qui, ora, subito – che pulsano e premono contro di me.

E allora sì, sia . Se questo è ciò che vogliamo, se questi siamo noi, io e Matthew, io e lui, e nient'altro se non noi e ciò che il nostro corpo – e il cuore e la mente – vuole, allora sì, sia sì.

Lascio che tu faccia quel che vuoi – quel che io voglio – Matthew. Mi fido di te, mi fido di me. Mi fido di quel che stiamo facendo, mi fido che andrà tutto bene e non mi scioglierò né mi brucerò.

La testa non mi risponde più, tutto si concentra su me e Matthew, e sulle sue braccia forti, e sul suo cuore che batte contro la mia scapola, e sulla sua mano che accarezza, preme, gira.

La presa stretta contro i suoi avambracci, chiudo gli occhi e mi lascio sommergere dall'ondata di brividi che mi attraversa, impetuosa, portandosi via ogni reticenza. Lo lascio fare, mi lascio toccare, strofinare. Lascio che l'indice di Matthew trovi la sua strada, toccandomi, facendosi spazio dentro di me, come se sapesse perfettamente dove deve arrivare e come deve arrivarci.

Poi Matthew sposta un braccio, mi posa il palmo della mano libera sulla bocca e mi sussurra un «non fermarti, Alyna. Lascia» che mi muove dentro qualcosa di caldo e viscido.

Non so cosa devo lasciare, ma il suono roco della sua voce mi spinge più giù, sempre più contro – attorno – alla sua mano, come se il centro di tutto fosse in quelle dita che non si fermano e mi fanno agitare, pulsare, gemere. Mi esce un grido, improvviso, un fiato caldo che sbatte contro la mano di Matt e ritorna indietro. Le orecchie fischiano, le gambe tremano incontrollate e io mi perdo in questo abbraccio di carne e desiderio.

Quando il battito del mio cuore si attutisce, mi rendo finalmente conto di cosa è successo, e mi assale un senso di panico talmente enorme da farmi soffocare. La mano di Matthew è ancora contro – dentro – la mia pelle, e con uno strattone cerco di scostargli il braccio per allontanarmi da lui. Ho paura. Troppa paura.

Ma non mi è possibile spostarlo: l'altra mano di Matt scende dalla mia bocca e mi stringe il fianco, immobilizzandomi. «Alyna. Va tutto bene» sussurra al mio orecchio. «Stai calma, calma. Goditi il momento. Senti quanto è caldo e pieno e denso tutto questo.»

Irrazionalmente lo ascolto – ha questo potere su di me che non capisco, non approvo, eppure mi piega e mi fa fare tutto ciò che dice, perché lui sa e io voglio dannatamente imparare – e ci provo, a sentirlo. Ci provo sul serio. Chiudo gli occhi, percepisco la sua mano che si muove ancora in me, e tutto è davvero caldo, liquido, come una vasca piena d'acqua calda, rilassante, estasiante.

«Senti?» mormora, sfiorandomi il lobo con le labbra. «Sei caldissima, gonfia, stupenda» dice.

Io arrossisco, piena di un imbarazzo talmente cocente che penso di non averne mai provato tanto.

Matthew si muove ancora, impercettibilmente, poi piano piano sfila le dita da me, porta via la sua mano e con il braccio libero mi volta verso di sé.

Alzo la testa, alla involontaria ricerca dei suoi occhi, per capire che è successo e perché io ora provi allo stesso tempo così tanta paura e così tanta placida felicità.

E lui mi sorride, con le labbra tese in un arco innocente e puramente gioioso, gli occhi scuri che mi fissano socchiusi, pieni di cose che non capisco. Si sporge verso di me, mi cinge la schiena con i polsi, avvicina il naso al mio. «Non ci ha visti nessuno» dice, e io mi chiedo come faccia a sapere che il mio timore era anche lì, alla ricerca di occhi che ci avessero spiato e sconosciuti che fossero entrati dentro la nostra bolla, dentro questo nostro peccaminoso gioco di sospiri. «E tu, tu...»

Affondo la testa nel suo petto, cercando disperatamente un rifugio in cui nascondere la debolezza che sento crescermi dentro, il desiderio di piangere e scappare via. Ma dove? Dove scappo se l'unico posto in cui voglio stare è qui?

Matthew mi accarezza le scapole, sfrega le mani contro di me, appoggia il volto di lato al mio. «Sai cosa sei, Alyna?»

Scuoto la testa: non lo so, non lo so per niente. So solo che ho la gola stretta dalle lacrime e che vorrei solo capire perché sto così male.

«Sei colore. E non pensare che non vorrei dirti che sei bellissima, perché lo sei. E sei pure intelligente, sveglia. Sei eccitante – e no, non te ne vergognare. È una delle cose più belle del mondo, eccitarsi per qualcuno – e dannatamente, infinitamente splendida. Ma Alyna, tu sei colore. E lo dico perché è meno banale del resto, ed è ciò che vedo quando ti guardo, che sento quando ti stringo, che ho percepito ascoltando i tuoi gemiti. Hai una forza immensa, dentro. E me lo hai mostrato sul serio pochi istanti fa.»

Mi solleva la testa con una mano, mi stampa un bacio sulle tempie. «Per favore, non stare male. È vero, quello che ho... che abbiamo fatto non è propriamente "normale". Ma io non sono normale, e non lo sei nemmeno tu. La normalità non esiste.»

Sento le lacrime iniziare a salire verso le palpebre. Mi sento dentro così tante emozioni che non le so trattenere, non le so scindere né capire. Che mi hai fatto, Matt? Dov'è la calma che mi avevi promesso?

«Non piangere, Alyna» mi dice, asciugandomi il lato dell'occhio. «Farti... Lo posso dire? Lo dico, perché è una cosa naturalissima: farti godere in mezzo a tutta questa gente è stato un gesto da cazzone, lo so. È la cosa più irresponsabile che io abbia mai fatto nella mia vita.»

Scuoto la testa. No, non è così. Non del tutto, almeno. C'ero anche io, dentro quella danza di sensi e dita, di caldo e carezze. C'ero anche io, assieme a lui, a sospirare e stringere i denti. Aspetta un attimo, dammi il tempo di ordinare i pensieri e poi ti aiuto a capire, Matthew, a capirmi.

I suoi occhi si fanno tristi, meno lucenti, mentre balbetta delle scuse che mi sembrano assurde, tanto sono distanti dal Matt spavaldo che cinque minuti fa mi ha... mi... mi ha portato a quell'orgasmo, quello che pare un tabù e invece alla fine è naturale, come dice lui. Normale. Bellissimo. Così pieno di condivisione e speranze.

«Mi spiace. Forse ho esagerato. E tu giustamente non approvi... ma io sono così, Alyna. Non ho scusanti, se non che non sapevo come fermarmi.»

«Matthew» gemo, un filo di voce che stenta a uscirmi dalle labbra. «No-non pensare che non lo volessi. È che non so come si fa. E mi fa tutto paura.»

«Anche io, ti faccio paura?»

«Mai.»

È la pura verità: non ho mai avuto paura di lui, o con lui. Al massimo ho paura di me, e di quello che non so fare o capire.

Matthew sorride, e mi stringe più forte. «È la cosa più fantastica – te lo giuro, è stato meraviglioso pure per me – che io abbia mai fatto, e l'ho fatta con te, Alyna. E non avrei potuto farla con altri che con te.»

Queste parole, queste dannate parole, mi entrano nella testa e mi fanno tornare a respirare. Scacciano in un secondo ogni dubbio e ogni lacrima, mi stappano le orecchie e di nuovo sento la musica, le urla, il canto comune che ci circonda. Sono di nuovo qui, al mio primo concerto, e sono stretta tra le braccia di una persona che adoro. Siamo io e Matthew, e tutta la gente attorno. Siamo noi. È tutto nostro questo casino. Ed è assurdo, è oltraggioso, è fuori dagli schemi. Ma insieme non siamo né solo Matthew né solo Alyna. Oltrepassiamo noi stessi. Siamo altro.

Matt mi sfrega le guance con le dita. «Sei così bella, rossa e sconvolta. Ora, però, se ti muovi come prima potremmo causare qualche piccolo disastro...» dice, ammiccando al punto in cui i nostri corpi combaciano.

Io mi scosto di scatto, le guance ormai bollenti che nemmeno le sento più: non voglio altro, oggi. Mi basta già così, è una confusione tremenda che devo imparare a gestire.

Ma Matt mi riprende su di sé, mi tiene vicina, cullandomi mentre si dondola da destra a sinistra. «Rimani qui, però. Vorrei abbracciarti ancora, se posso».

E se la calma esiste, è esattamente quello che sento ora: svuotata di ogni possibile ansia, di ogni tremore, di ogni dubbio o paura, e anche di ogni tensione, mi abbandono alla musica, alle parole di "Stairway to Heaven", con le braccia attorno al busto di Matthew e la guancia appoggiata al suo bicipite, il cuore pieno di cose e la testa ricolma di perché.

And if you listen very hard
The tune will come to you at last
When all are one and one is all
To be a rock and not to roll

E quando la musica si spegne e il palazzetto si svuota, mano nella mano con Matthew raggiungiamo il tram. In assoluto silenzio, rimaniamo in piedi uno di fronte all'altra, a guardarci e sorriderci al di là delle teste di chi ci sta attorno. Siamo sospesi in una bolla, incapaci di capire altro che non sia noi due, impossibilitati a fare altro che non sia sfiorarci con polpastrelli tremanti, e cercarci con gli occhi finché non ci troviamo, ogni volta.

Quando scendiamo, con la notte attorno che scurisce e i bar che sprizzano luce, Matthew mi accoglie in un abbraccio forzato di cui non sentivo bisogno e che invece ora scopro essere tutto ciò che volevo.

«Non ti chiederò di venire a casa con me, anche se è ciò che vorrei» mi dice, posando le labbra sui miei capelli. «Non è tempo, e non sarebbe giusto.»

Io non so che dire: forse lo vorrei anche io. Ma è vero, non è ancora tempo, non riuscirei ad affrontare più di questo. Non stasera, non oggi. E lui lo sa – lo sento che lo sa – lo ha capito che ormai non c'è più nulla che debba dimostrarmi, non c'è più nulla che debba fare per conquistarsi un posto che ha già. Deve soltanto darmi calma, e insegnarmi con calma come si fa a stare così, con lui addosso e contro e dentro.

«Ma domani torno, Alyna. Non puoi chiedermi di non vederti, domani. Domani usciamo a pranzo, e ti porto dove vuoi. Ma ho bisogno di averti davanti – o a fianco – di vederti sorridere e incontrarti. Posso?»

Alzo la testa, e i suoi occhi mi dicono tutto ciò che voglio sapere: lui ha paura di questo. Di questo fare le cose con calma, senza fretta, passo dopo passo. Ha paura di essere troppo lento o troppo veloce. Ed è una paura che io posso insegnargli a sconfiggere.

«Certo che puoi» rispondo, spingendomi verso l'altro per dargli un bacio a fior di labbra. «Andiamo al ristorante, però» butto lì, sondando la sua reazione.

«Va bene. Mi dovrai insegnare come comportarmi, però.»

«Passo passo, Matthew. Passo passo impareremo uno dall'altra» sussurro, gli occhi troppo vicini per metterlo a fuoco e le labbra troppo lontane per baciarlo ancora.

La bocca di Matt affonda irruente sulla mia, mi strappa il respiro e la coscienza di quest'attimo si trasforma in nuovo desiderio, che mi pesa addosso e mi fa al contempo sentire leggera.

«Domani» sussurra contro il mio labbro, poi fa un passo indietro e mi lascia andare.

«Domani» rispondo.

Ed è un domani diverso, quello che ci aspetta. Un domani colmo di non detti e di emozioni provate assieme, un tassello in più che si posa sulle fondamenta del nostro essere vicini. Un domani che mi fa paura, ma che allo stesso tempo vorrei avere già adesso.

Perché voglio Matthew. Esattamente come lui vuole me. Però conosco le virtù della calma, e so bene che mettersi in gioco pian piano ci porterà dove vogliamo arrivare.
Passo passo, assieme.

***

«E allora com'è andata?»

La domanda di Rebekka giunge curiosa e scaltra al di là del tavolo della colazione, sotto occhi sornioni e sopra un sorriso da biricchina.

«Io... penso benissimo» rispondo.

Perché non ho chiuso occhio tutta la notte, passando le ore a sentirmi Matthew addosso e a pensare a quanto sono cambiata in questi mesi, ma alla fine il bilancio è solo in positivo: non riesco a vedere nulla di sbagliato, nemmeno per un secondo, in tutto quello che ho dato e ricevuto assieme a lui.

«Pensi? Che succede?»

«Sto iniziando a provare sul serio qualcosa per Matt, Becky» rivelo, il cuore aperto dal sonno perso e dalle emozioni accumulate. «E mi terrorizza.»

Mi terrorizza eppure mi accende, mi fa sentire benissimo e allo stesso tempo mi mette addosso un timore nuovo, che non conoscevo e che mi fa sentire sbagliata, confusa. E lo so, che timore è: quello della perdita. Ho paura di perdere, di perdere Berlino e Matthew e Becky e ciò che ora sono.

«E invece è una cosa fantastica, tesoro mio. L'amore cambia la vita. E la tua ne aveva bisogno.»

Sembra agitata, Rebekka, da come parla e come muove le mani, ma il suo sorriso mi tranquillizza e mi dico che magari – giustamente – ha altri pensieri per la testa, al di là delle mie quotidiane incomprensioni su me stessa e su questa città.

Mi alzo e porto la tazza nel lavello. Getto uno sguardo attorno: tutto al suo posto, tutto pulito. Sorrido, poi gli occhi mi corrono sul post-it appeso al frigorifero.

«Tra due settimane dobbiamo pagare l'affitto, Becky. Puoi andare tu da Roland?» chiedo, sperando che possa incontrarsi lei con l'affittuario.

«Accipicchia, solo due settimane... mi sa che non ce la faccio a pagare tutto» ribatte Becky.

Mi giro a guardarla: gli occhi bassi, indirizzati verso il tavolo, le donano una silhouette di incertezza che mai le ho visto attorno. Che le sta capitando?

«Io... va tutto bene, tesoro?»

«Oh sì, sì» risponde, sorridendo. «Solo un mese difficile.»

«Va bene. Tu non ti preoccupare, anticipo io! Poi sistemiamo alla prossima» ribatto, voltandomi con il sorriso sulle labbra. Non è un problema. Non mi pesa per niente, soprattutto non oggi e non adesso. Soprattutto non con Becky.

E invece, dopo due secondi esatti di sospensione, tutto il bene che avevo trovato qui a Berlino mi si sfasciano sulla testa. Si rompe l'incantesimo, si spezza la magia. E crolla tutto, dall'amore per questo posto alla sicurezza dell'amicizia con Becky, dalla felicità di essere riuscita a capire come vivere davvero al legame viscerale che non mi fa pensare ad altro che a ieri sera e a Matthew.

«Veilchen», sussurra Rebekka, piano piano, come per non farmi male, «ho... cercato il tuo cognome su internet. E ora so perché potevi permetterti di vivere a Charlottenburg.»

Spalanco gli occhi, un vago sentore di vomito che mi risale l'esofago e il terrore che mi fa tremare le dita delle mani. Apro le labbra in un terrificante tentativo di vedere se riesco a dire qualcosa, ma mi esce solo un singulto informe.

No. Ti prego, non così. E non adesso.

«No» dice Becky, una smorfia seria sul volto che non le si addice per niente, «non mi interessa. Hai deciso di non dirmelo, sta bene così. Non mi interessa quanti soldi hai.»

«Io...»

«Un giorno me lo spiegherai. Per adesso mi basta che tu sappia. Un giorno ne parleremo, quando vorrai dirmi perché hai scelto di tacere e di tenerci tutti fuori dal tuo passato. Però non ora. Ora vorrei solo che tu ci pensassi. Mi hai ferita, Alyna, e ho bisogno di sentirla per bene, questa ferita, prima di ascoltare le tue ragioni.»

Si alza, si gira e si allontana, la schiena rivolta verso di me e le spalle curve, come se il peso della mia bugia ora gravasse anche su di lei.

«Rebekka» la chiamo, implorante, afferrando il bordo del tavolo con le nocche sbiancate e gelide. «Non lo dire a Matthew.»

Ecco, l'unica dannata cosa che mi è venuta in mente è stata di assicurarmi che Matthew non lo venga a sapere. Non una parola per Rebekka, che è stata la mia àncora dal primo giorno e che per me significa tutto, qui. No, solo il pensiero di Matt, e di cosa succederebbe – di cosa perderei, di cosa mi mancherebbe, di quello che mi verrebbe egoisticamente sottratto – se lui capisse che vengo da una famiglia di petrolieri, se sapesse che mio padre lavora per la National Oil Company libica, che smercia metà del petrolio di quel paese assolato e distrutto.

Becky annuisce senza voltarsi, e io, secondo dopo secondo, mentre la guardo scomparire nella sua camera, capisco che il tempo dei giochi è finito. Niente più magia, niente più sogni a occhi aperti. La nuda realtà – cruda, densa, appiccicosa e vischiosa come l'oro nero che mi ha fatta crescere alla sua ombra – mi è scivolata addosso un'altra volta, e la dovrò affrontare per liberarmi dalle sue dita collose. Rischiando il tutto per tutto, stavolta. Perché ora intorno a me ho amici e amore, stabilità e felicità.

Mi gioco me stessa, in questa battaglia. E ho il dannato terrore di soccombere ancora.

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