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28. (M) Giù, ancora più giù

La linea tredici ci lascia a cinque minuti dalla Mercedez–Benz Arena, ma già da qui si intravedono le luci verticali che circondano il palazzetto ai lati, e il tetto scuro su cui si riflette il sole.

«È enorme» constata Alyna.

«Nah, contiene solo qualche migliaio di persone.»

Alyna si volta verso di me, mi guarda con gli occhi spalancati: «Ti pare poco?»

«Non penso saremo più di quindicimila.»

«Per me è immensamente tanto!»

«Ma che ti importa?» le chiedo. «Non sei forse qui per stare con me? Anche se fossimo millemila non cambierebbe nulla.»

Lei tace. «Sono qui per i Led» dice dopo un po', seria.

«Balle» ribatto, saccente.

Alyna scuote la testa. «Perché io non posso mai scherzare e invece tu sì?» borbotta, incrociando le mani sotto il petto.

Perché sei una bambina, e a me piace prenderti in giro perché tu ci caschi sempre. «Perché io lo so che mi vuoi.»

Sbuffa, si volta e segue la strada per l'Arena. Io le caracollo dietro, docile cagnolino, e la osservo mentre si toglie un laccio per i capelli dal polso e inizia a dividerli in ciocche, spostandoli di tanto in tanto da una parte all'altra del collo.

«Che fai?»

«Una treccia, fa caldo» spiega lei, il sorriso di nuovo tra le labbra, quasi a sbeffeggiarmi.

«Perché sbuffi se ti dico che ti voglio e che so che per te è lo stesso?»

L'elastico scatta attorno alla fine della treccia, ci gira attorno una decina di volte con mosse fulminee che io non sarei mai in grado di riprodurre. Poi Alyna scuote i capelli legati, mi rivolge un sorriso lucido di ricordi e timore, mi afferra il braccio e se lo attorciglia contro il fianco, incastrandosi sotto la mia spalla.

Pulcina, che vuoi?

«Non sono capace di risponderti, Matt. Sei tu quello adulto, in queste cose.»

Mi chino, le sfioro la testa con il naso. «Basta che ti lascia andare, Alyna. Non ti mangio, lo sai.»

«Beh, però mordi!» esclama ridendo, e un po' di tensione le vola via dalle spalle, che si allargano e ammorbidiscono sotto la presa del mio bicipite.

«Potrei mordere altre cose, oltre alla tua bocca... se tu ti lasciassi andare...»

Uno schiaffo appena sopra la chiappa destra – accennato, lo ammetto. Ma ho riconosciuto del desiderio, dietro la paura e la vergogna che ne hanno moderato la potenza – mi fa sobbalzare. «Che tocchi, eh? Signorina

«Smettila, Matthew! Non urlare» esclama Alyna, rossa di imbarazzo.

«Sei tu che mi hai dato uno schiaffo sul culo, Aktivist

Alyna cerca di svincolare dalla mia presa, ma le acciuffo la treccia con la mano e la riporto vicina. «La smetto, la smetto, lo giuro. Non voglio farti stare male. Va bene?»

«Non è che sto male è che... è difficile. Se mi lascio andare... lo vedi anche tu, poi mi vergogno troppo e non so più che fare» mormora.

«Diventerà più facile. Lo prometto.»

E ci credo davvero, a quello che le dico. Perché piano piano si capirà da sola, e io sarò qui pronto a tirarla dalla mia parte, a farle inventare battute sconce, a farmi infilare le mani nelle mutande e mordicchiare i capezzoli sotto le lenzuola. Sono pronto, per lei.

I cancelli dell'entrata dell'Arena si stagliano contro il cielo blu, il piazzale di cemento già gremito di gente emana rumore di folla e puzza di umanità. Ci sediamo a terra, nell'area riservata alla coda dei biglietti parterre, aspettando che aprano le porte e ci facciano entrare.

Alyna incrocia le ginocchia e si appoggia con la schiena al mio petto. «Sono stanca, posso dormire un po'?»

«Certo» sussurro, e la acchiappo sui fianchi per sistemarmela meglio addosso. «Ti sveglio quando è ora.»

Lei si gira a guardarmi, gli occhi di un indaco intenso che riflettono il cielo cobalto. «Grazie.»

Venti minuti e già sonnecchia, la testa che si alza e si abbassa lentamente contro la mia spalla. Io mi guardo attorno, cerco di indovinare le persone cosa stanno ascoltando, se sono musicisti, quale strumento suonano, e mi perdo a constatare che era da tanto che non mi sentivo così tranquillo, felice, in pace, e allo stesso tempo teso e colmo d'ansia.

Appoggio il mento sui capelli di Alyna e sento che quasi scottano, neri come sono sotto questo sole feroce. Piano, senza svegliarla, le lego una bandana gialla – che mi ero portato per sollevarmi i capelli durante il concerto – attorno alla testa, a schermarla un po' di più dalla luce.

Lei si muove contro di me, appoggia la guancia sul mio petto e mi stringe la maglia con la mano. «Quanto manca, ancora?» sussurra.

«Non lo so. Mezz'ora almeno.»

Annuisce, socchiude gli occhi e li indirizza verso di me. «Sei comodo, bassista con la pancetta.»

Le sorrido, guardandomela come si fa con una cosa che conosci ma di cui hai appena notato un particolare che non avevi mai visto prima. È così limpida, ultimamente. Ha perso quel sottile velo di morale impassibilità che aveva quando l'ho incontrata. Ora è tutta diversa, e io non riesco a smettere di pensare che è sempre più bella, sempre migliore, ogni giorno che passiamo assieme.

«A casa sanno che sei a un concerto?» le chiedo.

Lei scuote la testa, stringe le palpebre. «Non gli importa molto, in verità. A baba importa proprio poco, di me» dice.

«Però ti paga la vita qui» ribatto. Parliamo poco, di casa e famiglia, ma quelle volte che lo facciamo... c'è tensione, un po' di timore, in entrambi. Però siamo sinceri, questo lo so e lo sento. Abbiamo solo una vita complicata.

«Sì. Lo fa mamma, veramente. Ma papà lo sa. E acconsente.»

E ora io vorrei chiederle altro, vorrei sapere di più – come sempre succede, quando l'argomento famiglia si inserisce nei nostri discorsi – ma lei mi frena.

«Ti prego, adesso non parliamo di casa. Non oggi, okay? Oggi casa è tutta qui.»

Mi stringe il cuore, pensare che casa sua sia qui. Perché magari intende qui-Berlino, ma forse nel qui-Berlino rientra anche il qui-con-me, e quindi un po' sono famiglia anche io. E magari le importa davvero, di essere qui con me e non altrove.

E magari tu dovresti smettere di essere così sentimentale. Che ti prende?

Non mi riconosco nemmeno io, ma ora la smetto, lo giuro. Fuori questi pensieri, anche perché i cancelli si stanno aprendo ed è ora di entrare.

I passi che ci separano dall'interno sono tanti, ma con Alyna vicino che sorride e mi racconta dell'università e di Rebekka, la gente attorno che canta a squarciagola e il sole che mi tramonta dietro non sento passare nemmeno un istante.

Una volta superato il metal detector, afferro la mano di Alyna. «Ora è tempo di correre, dobbiamo prendere i posti!»

Lei non fa una piega, ma mi precede sgambettando sulle gambe sottili e invitanti, e io le sto dietro mentre ride e mi urla di muovermi, ché sono lento più di un bradipo.

Nella calca sotto il palco, mentre Alyna si guarda attorno e sorride, gli occhi spalancati e la braccia semiaperte, io mi sento il ragazzo perfetto – che mai sono stato, non sono ora e mai sarò. Ma lei è felice, e la sua felicità deriva in parte minimale anche da me, e questa cosa mi dà alla testa in modo assurdo.

«Sarà fenomenale» le dico.

E quasi un'ora dopo, mentre la band di supporto – mediocre, troppo techno –sgombra il palco e tutto attorno a noi si alza un rumore di attesa, sfioro il braccio di Alyna e mi chino a parlarle.

«Ora qui sarà un casino, bambina. Mi prometti di stare sempre e solo davanti a me, o al massimo sulle mie spalle?»

«Sembri il mio baba, Matt! Non sono una bambina» sbuffa, proprio come farebbe una dodicenne.

«Prometti» ribadisco, afferrandola per i gomiti. «Prometti

Alyna mi guarda, concentrata, poi scuote la testa. «Matthew, hai paura che me ne vada? Come potrei?»

Non lo so, se ho paura per te o di te. Ma voglio averti accanto, si può?

«Voglio starti addosso, Alyna» mormoro. «Voglio tenerti stretta.»

Lei spalanca la bocca in un sorriso, si mette davanti a me e si porta le mie braccia attorno al busto. «Bastava dirlo» spiega, il viso rivolto al mio. «Io è qui che voglio stare.»

E adesso percepisco distintamente che l'ansia che finora mi divorava lo stomaco a mia insaputa, l'ansia di fare troppo o troppo poco, l'ansia di tutto, se ne va.

I Led salgono sul palco, e Alyna urla assieme agli altri e io inizio a perdere letteralmente la testa. Lei è fuoco vivo, salta così in alto che mi copre la vista, mi pesta i piedi ogni volta e si gira a darmi un bacio sulle labbra per scusarsi di ogni gomitata o spallata. E io, inerme, incredulo, non faccio altro che cantare a squarciagola e battere il ritmo contro le sue cosce, usandole come grancassa per stare ancora più assieme, in questo girotondo di corpi sudati, urla sgraziate e bassi profondissimi che ci entrano tra le costole e ci fanno impazzire.

«Hey, hey, mama, said the way you move
Gonna make you sweat, gonna make you groove.»

Alyna si volta di colpo, sgusciando come un'anguilla tra le mie braccia. «Ma è "Black Dog"! Queste sono le canzoni che piacciono a te!» urla, scoccandomi uno sguardo di brace.

«Sì, è vero» le rispondo.

Sì, è vero, non resisto alle canzoni carnali che parlano di cose che tutti sentiamo e tutti vogliamo. Che problema c'è, a dire che la chitarra, il basso e la batteria e la voce acuta e strisciante di Robert Plant mi hanno fatto sollevare il cavallo dei pantaloni? Che problema c'è, a dire che certi suoni fanno eccitare e mettono dentro un'euforia pari solo al sesso?

Mi osserva, Alyna, poi sorride e torna a guardare verso il palco. Lentamente, fa un passo indietro, poi due, finché il suo fondoschiena tocca le mie cosce.

«Oh, oh, child, way you shake that thing
Gonna make you burn, gonna make you sting.»

Impossibile – sussurra la mia testa – impossibile. È un miraggio, stai sognando. Ora ti svegli e ti trovi con un palo tra le gambe e non ti resta che farti una doccia gelida.

Ma non è un miraggio, non lo è per niente. Non lo sono le mani di Alyna afferrate alle mie, non lo è lei che salta e si muove davanti a me, sfiorandomi a ogni sobbalzo. È tutto vero. È Alyna. È lei che si strofina contro di me, le cosce e i glutei torniti che mi si schiacciano contro e poi si allontanano, in una danza selvaggia e assurdamente irreale.

«I gotta roll, can't stand still,
Got a flame in my heart, can't get my fill,
Eyes that shine burning red,
Dreams of you all thru my head.»

Alyna si gira di nuovo: è tutta rossa in viso, sudata e agitata. Ma io la guardo con l'eccitazione negli occhi e il cuore in gola, e lo vedo da come ricambia che ha capito benissimo quanto sono fuori anche io, esattamente come lo lei. E ha capito benissimo quanto amo averla qui, adesso, corpo contro corpo.

«Che bello, quello che dice. "I sogni di te sono ovunque nella mia testa."»

«I tuoi, di sogni? Su cosa sono?» le urlo.

Lei sorride. «Non ne ho bisogno, ora. Niente sogni. Solo realtà.»

«All I ask for when I pray,
Steady rollin' woman gonna come my way.
Need a woman gonna hold my hand
And tell me no lies, make me a happy man.»

Me la spingo addosso, tenendola in trappola tra le mie braccia, la ruoto con la schiena appiccicata a me. La tengo premuta contro il mio petto, che sale e scende con una velocità impressionante, dettata dalla bolla di calore e sconvolgimento in cui sono avvolto. Sento il suo cuore battere pure da qui, e mentre le bacio il collo la sua pelle – che sa di mare, salata di sudore – si rattrappisce in preda ai brividi.

Sono tutto un brivido anche io, e comincio a sentire che sto lasciando andare i freni, che sto facendo agire il corpo e basta, nient'altro che ciò che fisicamente sono. E quindi lo so bene, che corro troppo, ma non mi fermo. Non posso più fermarmi.

Qui, in mezzo a migliaia di persone, la mia mano si infila sotto la maglia di Alyna, che in risposta si spinge di nuovo contro di me. Sono sempre più eccitato, agitato, sconvolto dal battere del sangue nel mio cervello e da questo senso di meraviglia che mi riempie lo stomaco, come se fosse la prima volta, come se fosse tutto nuovo, un mondo intero da scoprire.

Accarezzo la pelle tesa della pancia di Alyna, piatta, magra, ma immensamente morbida. E giù, ancora più giù, circumnavigo l'ombelico e scendo giù.

Alyna trattiene il respiro, lo sento scomparire dalla mia guancia. Le schiocco un bacio sulla mandibola mentre la mia mano non smette di scendere, e scendere.

E quando arrivo dove volevo arrivare, oltre il nero dei jeans, oltre il limite invalicabile che mi ero imposto da quando l'ho vista la prima volta, il gemito che esce dalle sue labbra mi dice che alla fine, con calma e pazienza – e tanta tanta voglia – ci sono riuscito, per davvero.

Ho trovato il mio posto con lei.

Perché Alyna non si ritrae, ma mormora un «oh» con la bocca socchiusa, stringe le mani contro il mio braccio, quasi ci affonda le unghie, come se dovesse tenersi a galla per non sfuggire alla mia presa, in questo mare in tempesta che ci ha travolti in pieno.

E la tempesta la sento io dentro le budella, e la sento pure in lei, che vibra, trema, le ginocchia piegate e tutto il peso contro di me, abbandonata. Gode, Alyna, gode tra le mie mani, con le mie mani, e io mi infiammo e mi sciolgo nella sua presa angosciata, mi stringo a lei e la stringo a me come se volessi entrarle dentro già adesso, così, senza vie di mezzo.

Tutto. Subito.

«Matthew» mormora, e io le succhio il lobo, continuo a muovere le dita, a suonare le pieghe della sua pelle che è così calda e liquida da farmi impazzire.

«Io non...»

«Tu sì» le sussurro.

Lei sì, lei sì. E basta.
Lei sì, è libera come aria e può fidarsi di me.
Lei sì, è quello che cercavo e mi fa sentire me stesso.
Lei sì, è lei.
Lei.
Sì.

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