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26. (M) Lei (e lei, e lei)

Rientrare dopo così tanto tempo - giorni, ore, minuti, secondi infiniti che tutti assieme ora mi premono contro la schiena, mi spingono avanti, mi trascinano per le braccia, no, per i polsi, meglio, per le dita - dentro questo tempio mi riempie ogni singolo poro di sottile euforia. Provo una soddisfazione così grande che mi sento completamente pieno, trasbordante di gioia e di eccitazione.

Però mi sto cagando sotto. Lo giuro, lo giuro su quel che volete: me la sto facendo addosso perché in questo sancta sanctorum io non ci posso ritornare, sono troppo sporco ancora, troppo lercio - di dubbi, insoddisfazione, rimpianti e sbagli - per affacciarmi alla soglia, guardare dentro, fare qualche passo verso il tesoro custodito da lei. Questo posto è per i puri, e io la mia purezza l'ho persa settimane fa, quando ho perso me stesso, quando ho perso lei.

Eppure la terra promessa è qui davanti a me.

La mia sirena mi chiama, e io non so resistere, non so fermarmi: devo andarle incontro.

Perché da quanto ha ricominciato a parlarmi, a volermi come io la voglio, come io la desidero - così tanto da sentire il fegato in fiamme, così tanto da arrossire al solo guardarla - io non riesco più a stare distante da qui, a stare distante da lei.

E me lo continuo a ripetere che non ho espiato abbastanza, che la strada per tornare da lei è ancora lunga e lastricata di penitenze, che il mio peccato è stato troppo grande per farmi rivedere adesso, qui, senza ferite sul corpo a dimostrare che mi sono pentito, mi sono martoriato, ho capito il mio sbaglio.

Ma più me lo ripeto meno mi ascolto: il suo canto chiama, e io non posso resisterle un minuto di più.

La guardo, me la trastullo con gli occhi, me la rigiro tra le palpebre mentre tutto in me si risveglia: ogni senso è allerta per cogliere il suo parlare, il suo muoversi, il suo cercarmi disperatamente come io ora cerco lei. Le mie dita vibrano, fremono, si arricciano in questo stato di estasi che mi pervade completamente; la testa si annebbia, gli occhi si stringono, l'eccitazione sale fino al soffitto, la patta dei pantaloni mi stringe.

Lei è perfetta, così dolce, così carica di ricordi, di passato, di me stesso, che fatico a non scoppiare a piangere mentre ci divide solo un passo. Ma mi trattengo: le devo almeno questo, almeno la forza di resistere alla commozione e alla tristezza.

Mi inginocchio di fronte a lei, indeciso: la voglio sfiorare, la voglio sentire sotto la pelle, ma ho paura di me, di cosa potrò farle. Ho paura di sbagliare ancora, di sentirmi perso di nuovo, di interrompere il canto con cui mi ha chiamato a sé.

Alzo una mano, e i centimetri che le mie dita percorrono nell'aria sembrano chilometri, tanto siamo stati distanti, tanto l'ho cercata, tanto l'ho voluta di nuovo con me.

La sento muoversi davanti ai miei polpastrelli: anche lei mi cerca, anela che io la sfiori.

Sono tornato, amore. Sono di nuovo qui.

Racimolo il coraggio - che ho ovunque, sempre, con tutti, tranne che con lei - e la afferro di getto, rendendola consapevole di quanto sia necessario per me averla di nuovo sopra, sotto, dentro.

Me la stringo addosso, tra l'anca e la spalla, come se non ci fosse altro che noi, come se il mondo non esistesse, e ogni istante che passa aumenta la mia voglia di farla mia sul serio, di renderla ancora una volta tutto ciò che siamo.

Chiudo gli occhi, allungo il polso, cerco il punto che concentra tutte le mie voglie represse, e come un invasato, come un assetato, come un folle, come un eroinomane, la sfioro dopo quelli che mi sono sembrati anni interi di disintossicazione forzata.

Lei sta muta: non parla, non canta, non suona.

Spalanco gli occhi, mi guardo attorno - non morire, mia principessa, non lasciarmi - e arranco con lei tra le braccia fino al pulsante rosso che mi sta guardando da decine di minuti, aspettando che io lo tocchi.

E quando premo on, quando sento il sibilo del suono nei cavi elettrici, quando il ritorno di energia stride contro le pareti e mi stupra le orecchie, salto di gioia con Charlotte appiccicata al petto, la plastica fredda che mi ustiona la pelle nuda.

Sei di nuovo mia. Siamo di nuovo noi.

Non perdo un secondo ancora, ogni attimo è diventato immensamente prezioso perché ho voglia di suonare e cantare e ballare, non riesco a stare fermo e ho questa canzone dei Kinks che mi rimbomba attorno da quando ho baciato Alyna - e le sue labbra morbide e tiepide, il suo sapore di carne, mi tornano in mente e mi fanno eccitare ancora di più - e vuole, chiede che io suoni i suoi accordi di quinta giusta, che io canti quello che sento.

«Girl, you really got me goin'
You got me so I don't know what I'm doin

E invece lo so benissimo cosa sto facendo, so benissimo che mi sento di nuovo vivo e mentre tocco - tiro, spingo, torturo - le corde di Charlotte lei mi risponde e mi dice che anche lei lo sa benissimo, che tutto questo ci mancava troppo e che è la gioia più grande che potessimo provare.

Perché sono giorni, che mi è tornata questa voglia terrificante di riprenderla tra le mani, sono giorni che ci penso e mi distruggo tra un «sì, fallo!» e un «no, sbaglierai ancora». Sono giorni che entro qui dentro e guardo Charlotte, e lei mi incanta e mi circuisce; ma ho resistito, mi sono detto che dovevo arrivare al limite, arrivare al momento in cui non ce l'avrei fatta più.

E ieri mattina, quando mi sono svegliato alle quattro ancora rintronato dal turno del bar finito due ore prima, la folgorazione sulla mia via di Damasco mi ha ricordato dell'esame di Alyna. In quell'istante - quello, non altri, non prima, non da qui in poi - il sudore che mi ha bagnato le ascelle e la gola che mi si è asciugata mi hanno detto tutto ciò che dovevo sapere: ci sono dentro fino alla punta dei capelli, in questo assurdo legame che ci unisce. E non avrei potuto lasciarla sola, dovevo andare da lei e condividere ansia e paura e delusioni e qualsiasi altra cosa, perché lei è importante e io voglio essere con lei. Al suo fianco.

Quel suo fianco morbido e caldo che ho sfiorato con le mani, ho trattenuto tra le dita, mentre vibrava contro di me e si contorceva come una corda di violino a ogni battito del suo cuore.

«Yeah, you really got me now,
You got me so I can't sleep at night.»

Oh sì, non ci dormirò più alla notte, ora che so che gusto sai, Alyna, ora che so quanto, dove, come mi riesci a riempire ogni vuoto. Non dormirò più, perché ti voglio avere sul serio, non ti voglio distante come sei ora, voglio tornare a sfiorarti la cucitura dei jeans e a sentire sotto i denti il tuo respiro contro le mie labbra.

«You really got me
You really got me
You really got me!»

La potenza del suono si affievolisce, il ritornello è andato, ma Charlotte ne vuole ancora e io non sono sicuro di poter mollare qui, di poter smettere di sentirla vibrare contro di me, non penso di volermi allontanare dalle note basse che mi si lanciano addosso e mi fanno venire i brividi ovunque, che mi risvegliano e mi addormentano allo stesso tempo, non posso lasciar andare questo canto di σειρήν che mi allaccia, mi stringe, mi avvinghia a sé.

«See, don't ever set me free
I always wanna be by your side.»

«Matthew.»

Charlotte si spegne, perché le mie dita la lasciano andare e quasi mi cade per terra - Theo lo dice sempre che la devo usare la cazzo di fascia attorno alla spalla, ma io non ci riesco, suono meglio senza, quando lei si fida di me completamente.

Mi volto, alla ricerca di chi ha pronunciato il mio nome - ma tanto lo so chi è, è un'altra delle lei della mia vita - e mi trovo Bella davanti alla porta della stanza, un trench beige stretto attorno alla vita sottile e i capelli nerissimi che le danzano sulle guance. Come sei bella.

«Ti avevo detto che volevo vederti, ma non mi hai mai dato spazio.»

Annuisco, poi mi riscuoto e poggio Charlotte al suo posto. Lo aspettavo, dopo che mi ha chiamato, scritto, cercato per giorni. Lo aspettavo il suo arrivo, come si aspetta la pioggia durante la siccità, temendo allo stesso tempo che l'agognata acqua si trasformi in nubifragio e porti via tutto.

Faccio un passo avanti - e che le dico, che penso, come spiego che il suo messaggio l'ho letto ma l'ho voluto dimenticare, perché c'è una ragazza che ora mi ha completamente e quella ragazza non è lei - e lei abbassa lo sguardo, lo toglie da me.

«Hai qualcosa da dirmi, Bella?» domando, la voce sbilenca che non sa bene come farsi comprendere.

Scuote la testa, Bella, infila le mani nelle tasche. «Penso che non ci sia nulla da dire».

Io faccio un altro passo, poso una mano sulla sua spalla e lei alza il capo, mi fissa negli occhi, un sorriso finissimo le stringe le labbra. «Non c'è mai stato un poi per noi due, Matthew. L'ho sempre saputo e ho sempre cercato di fingere il contrario. Ho sempre saputo che c'era qualcosa di te che io non potevo capire né condividere, quella dannata musica che ti corre dentro e che mi infilavi addosso ogni volta che volevamo fingere di amarci in modo totalizzante. Ma era solo un vestito, non un organo vitale com'è per te. Quando non serviva più toglievo le paillettes e il tessuto e tornavo quel che sono: non perfettamente giusta per noi due. Eppure ho continuato a sognare di poterti dare di più...»

«Bella, non mi è mai servito più di quello che mi davi» mormoro, il cuore che suo malgrado cerca di dirmi che sto male anche se non lo pensavo possibile.

«Invece sì» risponde Bella, e adesso il sorriso è reale, le tinge le guance di rosa. «Hai ricominciato a suonare» continua, accennando con la testa a Charlotte che sta ferma nel suo angolino, «e lo hai fatto perché hai trovato qualcosa in più.»

«Io...»

Bella scuote di nuovo la testa. «No, non dirmi nulla. Se con lei stai bene va bene così. Qualsiasi cosa succeda non c'è più qualcosa che io e te possiamo darci.»

«Ma Bella, io non... non lo volevo. Ti voglio bene, l'ho sempre fatto e non puoi chiedermi adesso di smetterla e ...»

«Io credevo di amarti, sai?» ribatte lei.

Io mi paralizzo, perché attorno a quella parola ci abbiamo girato per ore così eterne da sembrare anni, per notti così lunghe da mettermi addosso la paura che il sole non sarebbe più sorto, per giornate così ricolme di non detto che il silenzio faceva un rumore assordante.

«Però non è andata come speravo. Siamo sempre stati bene assieme, ma... siamo giusti per altro. Io lo so, che mi hai voluto bene e che a modo tuo mi hai amato per ciò che sono. E che mi ami ancora, come sai fare tu, con tutto te stesso e senza lasciare indietro nemmeno un tentativo. E so che ti amo anche io, per tutto ciò che di te adoro e conosco e condivido.»

E ora non lo so bene che mi prende, ma c'ho le mani che prudono e il desiderio intensissimo di avvicinarmi di più e stringerla tra le braccia. Le vorrei dire che non importa niente, che possiamo riprovarci di nuovo, perché è triste e sconfitta mentre mi parla e io mi sento morire davanti ai suoi occhi che non mostrano più l'amore che ci ho sempre trovato.

Mi verrebbe d'istinto baciarla, farle capire che la voglio ancora, farle sentire quanto la voglio, e trascinarla nel mio letto e perdermi su di lei come ho imparato a fare da anni a questa parte.

«Bella, io... ti...» sussurro, poi mi blocco, a corto di sillabe. Io la...?

Scuoto la testa, cerco il filo dei pensieri che non so più ritrovare, e alla fine prevale la carne - che a Bella mi ha sempre portato, in tutto questo tempo - e faccio un passo avanti, tuffo le mani nei suoi capelli, le afferro la nuca e la tiro verso di me. E quando i suoi occhi guardano i miei, le labbra a millimetri di distanza, il mistero si svela: non siamo più capaci di mentirci.

«Matthew» mormora Bella, il fiato contro il mio labbro, «non...»

«Ci amiamo per come riusciamo. Ma non è tutto. Non ci amiamo del tutto» dico, perché ormai ho capito che è inutile andare avanti. Fa un male atroce, ma è così. Le sfioro una guancia con il pollice, lascio scivolare via la mano, lascio scivolare via la vergogna che provo ad aver desiderato baciarla - quando il bacio con Alyna mi brucia ancora i neuroni e le palpebre - lascio scivolare via tutto.

Bella annuisce. «No, non è tutto. Siamo più di quanto riusciamo a darci. Siamo fatti per altro.»

«Vuoi...» comincio a chiedere, senza sapere nemmeno io cosa posso offrirle se non l'abbraccio di un uomo che è innamorato di un'altra, se non le carezze di una carne che non desidera più la sua come la desiderava una volta.

Ma Bella mi ferma - è sempre stata lei la più brava a dare senso ai nostri discorsi, io li so solo incasinare: «No, non voglio nulla. Dovevo solo dirti che ho capito. E che spero tu trovi il nuovo te.»

«Ti auguro la stessa cosa, Bella. Sii ciò che vuoi essere senza lasciarti fermare da nulla. E sappi che io ci sarò sempre» sputo. Frasi già fatte, tritate da mille paia di denti e centinaia di migliaia di pagine di romanzi, ma altro non so dire perché il dolore della perdita - questa è reale, questa è effettiva, lei se ne va - riempie tutto il mio cervello.

Lei sorride, quasi non ci credesse sul serio, ma io le devo spiegare che lo vorrei tanto, così le afferro un braccio e lo scuoto. «Bella, è la verità. Io ci sono e non smetto di esserci. Vieni ai concerti, vieni qui a cena, chiamami quando vuoi. Non voglio amore, non voglio sesso, non voglio nulla, se non Bella.»

«Prima riuscirò a trovare Bella, prima mi farò viva» risponde lei, seria. «Non ti aspettare che io ti chiami, che io venga a casa tua. Non è quello che mi serve né quello che desidero, Matthew. Lo capisci? Puoi provare a capirlo?»

Dopo quello che ho fatto, dopo il tempo che ho passato a dirle che sarebbe andato tutto bene quando invece io volevo solo andarmene, non posso che assentire. Ha ragione, Bella, ha ragione su ogni fronte ed è giusto che io ora mi senta così di merda. Me lo merito per aver finto di darle tutto, per aver finto che lei fosse abbastanza.

«Lo capisco.»

Bella solleva la testa, fiera, e stacca il braccio dalla mia presa. «Ciao, Matthew. Non smettere di cercare e di provare finché non sarai soddisfatto di dove sei e di come sei. Non fare di nuovo lo stesso sbaglio: abbastanza non è tutto. Tu sei aggressivo, carico di emozioni e pieno di spinte. Assecondati, e non accontentarti. Altrimenti finirai per fare male agli altri, e per annullare tutto ciò che sei.»

Bella mi parla con il cuore tra le dita, come se fosse una mamma. Bella, la donna che ho conosciuto più a fondo di tutte, quella con cui ho condiviso più tempo nella mia vita, quella di cui saprei tratteggiare a tatto curve e spigoli, quella che mi ha tenuto stretto quando il mondo mi premeva addosso. Bella, la donna in cui ho sempre trovato rifugio, ora mi sta lasciando. Se ne sta andando, allontanandosi da ciò che abbiamo avuto assieme e da ciò che assieme abbiamo ritenuto fosse amore.

E io non riesco a fermarla, mentre lei mi volta la schiena con un sorriso e si avvia verso la porta. La seguo quasi in disparte, osservandola mentre fa ogni passo, imprimendomi a fuoco questo momento in cui ciò che ho fatto mi sta tornando indietro sotto forma di crampi allo stomaco e budella che si ritorcono.

La lascio andare, la saluto con la mano, lascio che si chiuda dietro la porta, lascio che metta lei la parola fine.

So che è giusto così, che era l'unica via di fuga, che prima o poi sarebbe successo. So che parte della colpa - la maggior parte, la fetta più grande della torta del torto - è mia. So che io stesso ho accelerato questo momento, quando me ne sono andato da casa sua con il solo nome di Alyna sulle labbra. So che ho portato io al rancore che ora Bella prova per me. So che è giusto per entrambi stare lontani, fingere che non sia esistito nulla.

So tutto questo, e so anche che la mia mente e il mio cuore ora sono su un altro binario, sono completamente presi dai capelli neri e dagli occhi cobalto di una piccola turca arrivata qui quasi per caso.

Però sto male lo stesso. E mi ci sento bloccato, dentro questo male, perché Bella è stata tanto, per me, e pensare che non sarà più nulla mi toglie fisicamente il respiro.

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